Riprendiamo questo articolo uscito sul Manifesto il 26 gennaio 2025. Si veda anche Gad Lerner, Chi fa memoria senza paragoni attuali tradisce l’esempio di Levi, Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2025
Era il 27 gennaio 1945 quando i soldati della 60° Divisione di Fanteria dell’Armata Rossa raggiunsero Auschwitz, nella Polonia meridionale, nei pressi di Cracovia. Primo Levi vi era stato deportato un anno prima: era lì, nel Lager di Buna-Monowitz, con gli altri sopravvissuti. “La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera…. Ci pareva, e cosí era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo” (P. Levi, La tregua).
Forse basta evocare la scena dell’incontro fra quelle due ombre emerse dal “nulla pieno di morte” e quei quattro reduci di tutte le battaglie di Russia, sopravvissuti agli oltre venti milioni di morti che la vittoria nella “grande guerra patriottica” era costata, per sentire l’enormità del paradosso di fronte al quale ci troviamo oggi. Se quello che Domenico Quirico (La stampa, 23 gennaio) chiama “il diritto universale ipotetico” fosse meno ipotetico, né il Premier di Israele, questo Stato “nato sulle ceneri della Shoah”, né il Presidente della Federazione Russa potrebbero partecipare alla cerimonia di commemorazione, ad Auschwitz, dell’80° anniversario della liberazione del più famigerato dei campi di sterminio, perché sarebbero arrestati per crimini contro l’umanità, ai sensi del mandato di cattura contro ciascuno dei due, emesso dalla Corte Penale Internazionale: lo scorso novembre per Benjamin Netanyahu (e per il suo ex ministro degli Esteri Joav Gallant, oltre che per tre leader di Hamas, di cui solo uno forse sopravvissuto allo sterminio della popolazione di Gaza, che la rivista medica Lancet ha recentemente stimato ammontare a non meno di 70.000 morti). E il 17 marzo 2023 per Vladimir Putin (e anche per Maria Lvova-Belova, commissaria russa per i diritti dell’infanzia, il crimine presunto essendo quello di deportazione di bambini dai territori ucraini occupati nella Federazione Russa).
Putin non ci andrà certamente, ad Auschwitz: nei suoi confronti il Diritto internazionale è certamente meno ipotetico, anche se il doppio standard lo rende peggio che astratto, e cioè positivamente iniquo. Ma quanto a Netanyahu, non sono mancate le rassicurazioni da parte dei leader europei, come quella del premier polacco Donald Tusk, il quale già il 9 gennaio scorso ha annunciato giovedì che “chiunque verrà a Oświęcim per le celebrazioni ad Auschwitz avrà garanzia della propria sicurezza e non verrà trattenuto”. Chiunque? Non esageriamo. La dichiarazione continua: “che si tratti del primo ministro, del presidente o del ministro dell’istruzione di Israele”. Una strizzatina d’occhio nei confronti degli amici israeliani (che suggerisce una scappatoia), e insieme un bello sputo rotondo nell’occhio della CPI. Certo, l’esecuzione dei mandati di cattura è responsabilità dei tribunali, non dei capi di stato o di governo. Magra consolazione: oggi, con una spettacolare pulcinellata, le autorità italiane hanno dimostrato quanto sia facile eludere quella responsabilità, al prezzo di un paio di calembour logici e di fatti alternativi. Per i pezzi di calibro maggiore del generale aguzzino di Tripoli, Almasri, ci aveva già pensato il nostro Ministro degli Esteri, con uno sputo preliminare sulla CPI ancora più grasso di quello polacco, perché arricchito dall’assurdità delle immunità da rispettare nel caso di Netanyahu. La CPI nasce in Italia, istituita nel 1998 con lo Statuto di Roma, per merito di grandi giuristi come Giuliano Vassalli e Antonio Cassese, eredi del principio kantiano che la responsabilità penale personale di statisti e politici nell’esercizio del potere non può essere “scudata” dalla loro carica istituzionale.
Il 26 gennaio dell’anno scorso l’altra Corte dell’Aja, la Corte internazionale di giustizia, si pronunciava a proposito dell’accusa di genocidio avanzata dal Sudafrica nei confronti di Israele, in relazione alla sua risposta all’eccidio del 7 ottobre: accusa non archiviabile e fondata. Molti si dolsero allora della quasi coincidenza fra quella pronunzia e il giorno della memoria. A torto, come si vede dalla prospettiva anche più tragica di oggi. Perché quella pronunzia, per quanto disattesa nelle sue conseguenze, riscattava l’universalità della memoria della Shoah e l’assolutezza del suo mandato morale: mai più. A nessuno. Mentre l’odierno spregio della CPI spegne ogni residuo lume di ragione sulla forza feroce che possiede il mondo, piega perfino la Shoah al gioco dei potenti, e riduce un imperativo morale a scudo politico per ogni nuova efferatezza, purché di parte “nostra”.
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