Come ha scritto Ileana Alesso, Presidente di FronteVerso Network, Associazione nata per affrontare la sfida di “contribuire all’accessibilità del diritto, alla chiarezza e sinteticità del linguaggio e alla comunicazione responsabile”, il diritto è una prosecuzione della filosofia con altri mezzi. A pochi giorni dalla scomparsa di Giovanna Ichino, che ha svolto quasi tutte le funzioni giudicanti e requirenti del magistrato penale, possiamo dire che la sua figura dimostra l’infondatezza delle ragioni accampate dall’attuale Ministro della Giustizia a difesa della separazione delle carriere di giudice e PM, ovvero il supposto rischio di perdita di autonomia della funzione giudicante.
Volentieri riprendiamo qui un articolo di Widad Tamimi uscito su Micromega. Widad Tamimi è scrittrice e operatrice nel campo dei diritti umani e del diritto internazionale, ultimamente con iniziative a favore dei bambini di Gaza. Fra i suoi romanzi, in cui sapientemente si intrecciano le sue radici ebraiche e palestinesi: Il caffé delle donne e Le rose del vento (Mondadori).
Ricordo personale di Giovanna Ichino, che ha svolto il suo lavoro con vocazione, ispirazione etica e morale oltre che con molta, infinita umiltà.
Nell’immaginario occidentale, la giustizia è donna: una Dike greca bendata, che tiene in una mano una spada e nell’altra una libra. La Giustizia, infatti, non rappresenta solo la forza, ma evoca anche equilibrio e misura, e garantisce imparzialità.
La qualità dell’essere iustus è una condizione che impegna chi la riceve e lo invita a considerare le norme in relazione alla complessità degli intrichi che di volta in volta chiamato a districare. Tanto è richiesto a un magistrato: ponderare il delicato equilibrio tra l’applicazione rigorosa delle norme e dei principi, garantendo così ordine e coerenza, tenendo allo stesso tempo in conto le circostanze specifiche e le esigenze umane.
Tutte cose che Giovanna Ichino ha portato avanti nella vita professionale e in quella personale, secondo una guida interiore che ne ha orientato le decisioni e l’operato nelle aule di tribunale, così come nell’impegno volontario alle molte cause sociali cui ha dedicato energie e professionalità fino all’ultimo momento, ma anche in ogni gesto di gentilezza verso le persone che ha amato.
Non basta l’impegno professionale a navigare tra le complessità del diritto e svolgere il ruolo di giudice con integrità e responsabilità. Servono vocazione, ispirazione etica e morale oltre che molta infinita umiltà. Giovanna ha vissuto al servizio della giustizia, senza mai smettere di studiare, traendo il coraggio di osare nel senso più profondo e più alto, proprio grazie all’ispirazione che ha sempre onorato.
Giovanna e mia madre, Claudia Weiss, si conobbero sui banchi di scuola a Milano, mentre entrambe studiavano alla facoltà di Legge dell’Università Statale. Condividevano gli ideali dei giovani del Sessantotto, impegnati a promuovere la verità e a tutelare i diritti di tutti, in uno di quei momenti storici cruciali in cui i processi di trasformazione chiedono di pensare e forse sfiorare la radicalità. Superare insomma il diritto, frainteso se letto come semplice insieme di regole, per affermarlo invece in quanto fenomeno complesso, profondamente radicato nell’umanità.
Di pochi anni fa fu sua la storica sentenza, presso la Corte di Assise di Milano, che riconobbe le torture nei campi di detenzione libici, a seguito di un racconto corale delle vittime.
Di migranti parlavamo spesso, anche negli ultimi mesi in cui mi sono occupata dei bambini e dei ragazzi arrivati da Gaza. Mi mandava materiale, consigli su chi consultare, mi incoraggiava a non mollare, anche quando i casi parevano senza speranza. Aveva idee e un tale desiderio di lavorare, che ne avvertivo lo sforzo esercitato per rinunciare agli impegni e dedicarsi alla salute con un senso di profondo sacrificio. Aveva accolto la pensione come un momento di rilancio, l’occasione per dedicarsi alle cause più disattese. Era consapevole di avere ancora molto da dare. È ciò che le persone impegnate e provviste di un bagaglio consolidato nel campo cui si sono dedicate per una vita possono mettere a servizio della società. Sono perle preziose e rare. Lo era Giovanna, preziosa e rara: giudice esperta, integerrima, e allo stesso tempo capace di grande, infinita umanità. Lo sanno coloro che l’hanno vista vivere due vite in una: è il ritmo di chi ha una marcia in più, delle persone che esistono nella rincorsa affannata del meglio, senza mai risparmiarsi, nel desiderio di dare un po’ di sé ad ognuno. La ricordo seduta sulle scale di casa mia, con in mano un paniere pieno di cose buone, ad aspettarmi mentre ero a passeggio col mio primo neonato di poche settimane. Nonostante il lavoro impegnativo, nonostante l’insegnamento presso la Scuola Superiore della Magistratura, paziente attendeva sugli scalini della casa di una giovane madre per offrile un pasto preparato. Giovanna era magistrato e donna, proprio come la Dike bendata, capace di onorare le missioni più alte e partecipare alla vita di quelli che amava.
Mai altezzosa, mai inflessibile, sempre disposta a sviluppare quel rapporto di rispetto e umanità sia con gli allievi, che con i condannati. È stata lei a regalarmi Fine pena: ora di Elvio Fassone, altro presidente della Corte d’Assise, che, nella sua lunga corrispondenza con un ergastolano, racconta del turbamento vissuto nei confronti della legge che è stato obbligato ad applicare, nel dubbio che – in quel caso – la pena “perpetua”, ossia fino alla morte, significhi soppressione di ogni speranza del condannato di ritornare alla vita sociale.
È lo stesso spirito di indulgenza che Giovanna ha onorato. Nonostante l’integrità autorevole, superare la visione del diritto come un mero insieme di regole, per riconoscerlo come un fenomeno complesso e intrinsecamente legato all’esistenza umana è stato un monito che l’ha bloccata a metà strada tra il banco dei giudici e la porta di uscita dall’aula, una volta pronunciata la sentenza contro il torturatore libico che condannò all’ergastolo. Con un cenno del capo esortò l’usciere ad aprire le sbarre della gabbia in cui era rinchiuso, per permettere alla sua bambina di quattro anni di abbracciare per una volta almeno il padre.
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