Israele, Palestina, genocidio: le parole per dirlo (di Andrea Zhok)

lunedì, 18 Novembre, 2024
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Di fronte ad un genocidio in diretta mondiale che va avanti da mesi non si capisce mai bene se sia più sensato parlarne costantemente, con il rischio di ottundere le coscienze che così si abituano all’orrore, o tacerne, con il rischio di far cadere il male nel dimenticatoio.

È uno di quei casi in cui è anche davvero difficile mantenere una disposizione costruttiva, atta a redigere un testo, senza sfociare nel semplice turpiloquio. Quale giudizio articolato, infatti, può dar conto in maniera ragionevole di: uno stato occupante, in violazione del mandato ONU che ne legittima l’esistenza, armato fino ai denti, che ogni singolo giorno che Dio manda in terra bombarda aree civili, cecchina giornalisti, rade al suolo moschee, demolisce interi quartieri, massacra uomini disarmati, vecchi, donne e bambini, che arresta indiscriminatamente gente che nominalmente sarebbero propri cittadini (ma dell’etnia sbagliata) detenendoli a tempo illimitato, torturandoli, spesso facendoli semplicemente sparire, che impedisce l’arrivo di aiuti internazionali e condanna ad una morte per stenti e infezioni centinaia di migliaia di civili, che rapisce e uccide persone al di fuori dei propri confini e di ogni diritto internazionale, che fa terra bruciata di case e proprietà altrui e lo fa in almeno quattro paesi diversi?

E come mantenere poi una espressione composta quando, dopo aver mandato una banda di hooligans sportivi a provocare all’estero, e dopo aver preso un po’ di consequenziali sberle – hanno sempre qualche difficoltà senza copertura aerea – si mettono per la “millemillesima” volta a piangere e chiedere solidarietà internazionale per i torti subiti dai bisnonni ottant’anni fa?

E con i nostri giornali che gli reggono il gioco.

Se non fossimo in mezzo ad una delle peggiori tragedie del XXI secolo verrebbe solo da ridere. Si fa davvero fatica a capire se siamo di fronte ad un semplice gioco manipolativo, sostenuto da media fidati e a libro paga, o se davvero Israele crede a questa immagine di sé come vittima. Se ci credono, allora la minaccia per il mondo intero è davvero concreta, perché saremmo di fronte a una forma di delirio collettivo allucinatorio munito di bombe atomiche.

Ora, spesso si utilizza un’analogia, volutamente provocatoria, tra le gesta di Israele e le gesta storiche dei persecutori di un tempo, la Germania nazista. Queste analogie spesso finiscono per ottenere l’effetto opposto da quello inteso perché vengono percepite come iperboli. Però è forse utile riflettere su di un punto, apparentemente tecnico, che rende quell’analogia politicamente sensata. Una delle caratteristiche fondamentali che hanno fatto della Germania nazista in qualche modo l’archetipo del male politico per le generazioni successiva era l’unione di due fattori: una presunzione suprematista di superiorità assoluta, incolmabile, di carattere etnico e una radicale riduzione dell’idea del diritto (e della giustizia) alla forza. La combinazione di questi due caratteri rendevano la Germania nazista incapace di giustizia e di pietà nei confronti degli “altri”, perché gli “altri” venivano percepiti come intrinsecamente inferiori e perché l’idea di giustizia si riduceva alla posizione classica di Trasimaco, dove la giustizia è semplicemente ciò che è utile al più forte.

Che l’odierno stato di Israele, soprattutto dopo le recenti svolte dove si autodefinisce come stato etnico, tenda ad una concezione suprematista di sé è difficile negarlo. Certo, non è questa la posizione di tutti i cittadini israeliani, ma è una posizione talmente solida all’interno del paese da poter essere enunciata pubblicamente senza serie obiezioni.

Più complessa appare di primo acchito la seconda tesi, cioè l’idea che il diritto e la giustizia vengano concepiti come mero prodotto della forza. Per un certo tempo è esistita all’interno di Israele una componente, anche nell’apparato giudiziario, che cercava di mantenere almeno un’apparenza di subordinazione alla legge, sottoponendo occasionalmente a condanna anche alcuni abusi militari. Sul piano del diritto internazionale invece Israele sin dall’inizio ne ha avuto una concezione integralmente strumentale. Dalle operazioni dell’Haganah degli anni ’20 in Palestina, l’idea è sempre stata che il fine giustifica i mezzi e che il diritto internazionale è semplicemente un travestimento dei rapporti di forza in campo. E naturalmente c’è molto di vero in ciò: nessun diritto internazionale è mai concretamente esistito se non nella forma di implementazione di un diritto imperiale, sovranazionale (che si tratti di imperi ufficiali come quello britannico, o ufficiosi, come quello americano).

C’è però una clausola in questa concezione che sembra sfuggire oggi ad Israele, come sfuggiva in passato alla Germania nazista. L’idea di giustizia tra nazioni non coincide con quella di diritto internazionale. Si può percepire una violazione univoca della giustizia anche senza la possibilità di far valere alcun diritto. La scommessa degli stati “trasimachei” è che, data la propria supremazia militare, la percezione di ingiustizia verrà cancellata dall’impossibilità altrui di poterla far valere concretamente. Ma questa scommessa è assai azzardata e storicamente per lo più perdente. La Germania nazista venne chiamata a render conto molto rapidamente: il processo di Norimberga fu proprio un modo per ribadire, in modo giuridicamente discutibile, ma simbolicamente potente, che la concezione trasimachea della giustizia era sbagliata.

È vero che gli esseri umani si rassegnano facilmente alla legge del più forte, ma è anche vero che tengono lunga memoria delle ingiustizie subite. Paradossalmente Israele è un’eccellente testimonianza della durevolezza storica nelle coscienze di questa percezione delle ingiustizie passate (e della legittimazione della vendetta che ne consegue). Così, per Israele oggi, pensare di poter cancellare anche la memoria delle proprie ingiustizie a colpi di bombe è una scommessa decisamente sbagliata. La “forza” non è solo la forza militare a breve termine, ma è anche e soprattutto la durata della spinta alla rivalsa. Israele ha creato sin dalla sua nascita le condizioni per un’esistenza assediata, suscitando costantemente ragioni di rivalsa nei propri confronti. Ma l’ultimo anno ha amplificato questa percezione in un modo esponenziale, condannando Israele ad un’esistenza nel sangue, non solo altrui, a tempo indefinito.

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