Mentre il genocidio prosegue indisturbato, Biden non dismette la solidarietà con Israele, i coloni bloccano gli aiuti e spargono per terra la farina, e l’IDF prosegue le stragi a Nablus, è interessante vedere che cosa in effetti era implicato dagli Accordi di Abramo. Riprendo qui in versione più articolata l’articolo uscito sul Manifesto il 26 maggio 2024, col titolo Gaza 2035, il profitto della guerra.
Le religioni del Libro, come tutti sanno, sono quelle che riconoscono Abramo come il loro capostipite. E Abramo in tanto rappresenta per eccellenza l’uomo di fede (non di religione istituzionale) in quanto “parte verso l’ignoto”, secondo la Lettera di Paolo agli Ebrei: come se la mistica del ritorno all’origine qui fosse sostituita da una mistica della partenza, del futuro, forse del venire di chi verrà, e non sappiamo quando. La lettera agli Ebrei va giustamente famosa per quella definizione di fede che ritroviamo accolta alla lettera in una famosa terzina di Dante: “Fede è sostanza di cose sperate/ed argomento delle non parventi”. (Paradiso, XXIV, 64-65).
Jean Héring, un filosofo che fu allievo di Husserl ma anche pastore evangelico a Strasburgo, scrisse su quella famosa lettera uno dei più illuminanti sermoni in cui mi sia occorso di imbattermi: ne fa cenno l’introduzione a una traduzione italiana del suo magnifico piccolo libro, Fenomenologia e religione. La cosa più notevole è la sua lettura filosofica di questo typos tou mellontos, cioè di questa forma futuri che è Abramo: il “tipo” stesso dell’uomo di fede, perché “parte verso l’ignoto”: e in questo l’autore dell’epistola si rivela contrario già alla mistica del ritorno dell’anima alla “patria celeste”, all’“origine”. Figuriamoci poi se poteva essere favorevole all’idea che la Terra Promessa, invece di essere la “sostanza di cose sperate” e la prova di quelle invisibili, ancora a venire, andasse presa alla lettera come un contratto immobiliare di origine divina!
E allora vale la pena di tornare a quella definizione della “fede” come “prova” delle cose che non appaiono ancora, perché in Palestina di gente messa alla prova anche solo per continuare a esistere, gente per cui tutta la vita è una prova del futuro e dell’invisibile, ce ne è abbastanza da arricchire la definizione paolina, da fare della fede una versione del sumud, la resistenza nei luoghi dove anche solo esistere è resistere. Le greche cose invisibili qui diventano le cose a venire, della cui speranza questa fede si nutre. Cose nuove, vita nuova. Ma c’è un’altra cosa che Héring suggerisce a proposito di questa figura di Abramo prototipo di uomo di fede. E’ che questa “fede” sia “prova”, anche nel senso di ciò che si prova, che si esperisce già qui. Tutte le cose proseguono nell’invisibile: il loro fragile senso, il loro nascosto valore.
Fa impressione rileggere questo sermone nel momento in cui si rivela il senso ultimo, reso ormai ben visibile, di quegli Accordi di Abramo firmati da Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Barhein, Sudan e Marocco nell’estate del 2020, che ignorano a tal punto la sorte dei Palestinesi da essere, si dice, una delle cause dell’azione terroristica di Hamas. Era comparso già nel dicembre 2023 il marketing di un progetto di costruzione di ville di sogno, al mare, lungo la costa di Gaza, spianata dalle bombe, ed era apparso senza infingimenti, con tanto di rendering e nome dell’impresa: “Harey Zahav” (Montagne d’oro), «leader nel mercato immobiliare in Giudea e Samaria» (Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2023). Il 19 marzo 2024 compariva sull’edizione online del “Guardian” il resoconto di un’intervista concessa a Tarek Masud, direttore della Middle East Initiative, un programma della Harvard’s Kennedy School of Government, da Jared Kushner, il genero di Donald Trump. Quello che era stato coinvolto nella preparazione del piano di normalizzazione dei rapporti arabo-israeliani sfociato poi negli Accordi di Abramo. Un’intervista in cui Kushner apprezzava – a proposito di valori nascosti! – l’alto valore potenziale delle proprietà affacciate al mare nella Striscia di Gaza, e auspicava che Israele “finisse il lavoro” di rimuovere i civili, spostandoli ad esempio nel Nagheb, mentre “ripuliva la striscia”. “D’altra parte – aggiungeva – di Gaza non resta molto, e a pensarci bene a Gaza non c’era un vero precedente storico”.
Se poi interessano le cose invisibili e future, si può andare a recuperare, sul blog di uno dei maggiori studiosi di geoeconomia, Adam Tooze, un’incredibile pagina della rivista israeliana online “The Architect’s Newspaper”, che riproduce un piano “Gaza 2035”, recentemente prodotto dall’ufficio del Presidente Netanyahu per la costruzione della ““Gaza-Arish-Sderot Free Trade Zone”, un mega-progetto riportato anche dal “Jerusalem Post” e poi da “Al-Jazeera”. Il rendering imita Abu-Dhabi o Singapore, vi si vede la costa di Gaza coperta di grattacieli, impianti a energia solare, navi container, impianti petroliferi offshore, a perdita d’occhio. Il tutto sovrastato da un titolo a caratteri cubitali: “Israel Prime Minister Benjamin Netanyahu unveils regional plan to build a “massive free trade zone” with rail service to NEOM”. Colpisce, in particolare, il servizio ferroviario che collegherà Gaza al Neom, la regione “Futuro nuovo” in Arabia Saudita, progettata da Mohammed Bin Salman, con un budget che nel 2022 era calcolato a 320 miliardi di dollari (ma ora “Milano Finanza” (09/04/2024) dice che è un po’ diminuito, e se lo dice dobbiamo fidarci, perché a quanto pare la partecipazione italiana a questo progetto è ingente). Il bello è che The Line, la fantastica città che attraversa i deserti per 270 km, restando larga 200 metri, già in costruzione, sarà un paradigma di virtù ecologica, come tutto il progetto, di cui anche Netanyahu sottolinea la grandiosa visione innovativa, con al centro (o su una linea?) l’Umano e la Natura. Come dice Netanyahu, il nuovo mondo, per quanto riguarda il suo polo israeliano, sarà “costruito dal nulla”. Il nulla è Gaza, naturalmente, che sarà così consegnata “dalla crisi alla prosperità”.
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