Omelia per un uomo giusto – di Dario Cornati

lunedì, 18 Dicembre, 2023
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Il 13 dicembre una piccola folla di amici – non poi così piccola se riempiva la grande chiesa di Santa Francesca Romana, a Milano – si è riunita per l’ultimo saluto a Giuseppe Tarantola, a molti noto come “il giudice di Mani Pulite” – in effetti del suo processo più emblematico, quello a Sergio Cusani. Cosa che anche fu, ma che certo non basta a definirlo, neppure per cominciare. Chi visse quell’epoca imparò a conoscerne l’equanime, impeccabile autorevolezza che bastava a restituire dignità a quell’aula di giustizia, divenuta trasparente a milioni di persone incollate ai televisori, a seguire le fragorose deduzioni del pubblico ministero  Antonio Di Pietro e le volpine evoluzioni dell’avvocato Giuliano Spazzali. Ma chissà perché l’immagine di Giuseppe Tarantola sembra fatta apposta per esemplificare “l’antico principio cristiano in base al quale, ‘ceteris paribus’, il bene rimane più sconosciuto del male: l’uno fiorisce nel silenzio, l’altro fa più rumore nel mondo” (Max Scheler). Però Giuseppe se lo era scelto bene il suo angelo, e con molto anticipo, pare, lo aveva incaricato della sua difesa di fronte a un collega Giudice ancora più silenzioso di lui, a quanto ne sappiamo. Trovammo bellissima l’omelia di don Cornati – e con il suo permesso e la gratitudine degli amici di quest’uomo giusto, la riprendiamo qui: preceduta come fu, naturalmente, dalla lettura di un passo del Vangelo. [Nella foto: Giuseppe con una sua grande amica e ammiratrice, la Milli, forse in gioventù compagna di ascensione alle Tredici cime]

Dal vangelo di Giovanni

Il primo giorno della settimana, la mattina presto, mentre era ancora buio, Maria Maddalena andò al sepolcro e vide la pietra tolta dal sepolcro. Allora corse verso Simon Pietro e l’altro discepolo che Gesù amava e disse loro: «Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’abbiano messo». Pietro e l’altro discepolo uscirono dunque e si avviarono al sepolcro. I due correvano assieme, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse primo al sepolcro; e, chinatosi, vide le fasce per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro, e vide le fasce per terra, e il sudario che era stato sul capo di Gesù, non per terra con le fasce, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro, e vide, e credette. Perché non avevano ancora capito la Scrittura, secondo la quale egli doveva risuscitare dai morti. I discepoli dunque se ne tornarono a casa. [Gv 20,1-10]

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In quest’ora, densa di fede e di affidamento, in cui la liturgia ci aiuta a camminare sul «crinale» della nostra esistenza, in attesa di un incontro che la riscatta, non sono certo io la persona più indicata a tirare il filo e a tessere la trama della vita, spesa per molti, dal giudice e dall’amico, Giuseppe Tarantola: uomo delle istituzioni, interprete mite e autorevole dell’esperienza giuridica di questo nostro paese, ricercatore acuto delle cose che Dio, da sempre, predilige. Altri al posto mio, a partire dai suoi affetti più cari e dai suoi collaboratori più stretti, ne sarebbero davvero all’altezza, potendo raccontarvi, nella ricchezza dei dettagli e nella precisione dei giorni, l’incredibile percorso, compiuto da questo servitore appassionato del «bene comune»: giunto a Milano, quasi per caso, da una terra alpina e coriacea, che ci guarda tutti dall’alto. Nato a Sondalo, l’8 gennaio del 1939; figlio di mamma, Mariuccia, e di papà Edoardo – primario ospedaliero di rientro dal fronte; laureatosi presso la Statale, con una tesi in diritto penale ed entrato molto presto in magistratura; protagonista, meno televisivo e assolutamente intelligente, del processo più importante celebrato dalla storia economico-politica in Italia: Giuseppe ha saputo trasformare tutta la sua vita in un limpido dono: in un vero e proprio «capolavoro» di premura tenace e di dedizione nascosta, del tutto simile al principio del seme evangelico che, per dare il miglior frutto e sbocciare più forte, scompare dentro la terra, umida e sassosa, del nostro limite.

Eccolo, dunque, al di là dell’encomio, il compito che più mi si addice e al quale, Giuseppe, quindici anni fa, segretamente mi aveva destinato. Provare a vestire, come piaceva a lui, con un pizzico di fantasia e una punta di innocente sfrontatezza, i panni di un angelo: imitando, quasi sulla soglia del «suo sepolcro», il gesto e la parola dei messaggeri di Dio. Gli angeli, nella Bibbia, sono personaggi strepitosi e operativi, tutt’altro che incorporei, immateriali e sbadati. Ciò che li contraddistingue non sono le ali, ma il tratto insolito della loro spigliata sollecitudine. A Betlemme, sopra il capanno, gli angeli suonano e accolgono i pastori. Davanti alla tomba, presidiata dai soldati, vedono invece l’invisibile, spingono via la pietra; ma soprattutto danno un valore inestimabile a segni, per noi apparentemente minori e inutili: le bende, le fasce; ma anche un lenzuolo di lino e un copricapo, stranamente piegato, con estrema cura, in un angolo della stanza.

Perfetto: perché io vorrei parlarvi, adesso, dei segni di Risurrezione che Giuseppe ci ha lasciato! Simboli e tracce di un’esistenza che non morirà più. Eredità spirituale di un fratello, che in queste ore ci interpella per non essere vanificata altrove! Si tratta di segni, altrettanto semplici, come quelli osservati per la prima volta da Simon Pietro. Facili da ricordare e da mandare a memoria nei giorni a venire. In stretta sequenza: la catena montuosa delle tredici cime; la toga, piegata e appoggiata sulla canna di una bicicletta; l’anello scambiato con una donna, di nome Nicoletta; e, infine, lo sguardo di un bambino, che si tuffa nelle acque di un lago, un tempo assai pescoso.

Il primo dei segni è, almeno per me, piacevolmente sorprendente: non solo la cultura della montagna, lo spirito dell’arrampicata, ma più singolarmente questa catena alpina, che si snoda, costantemente sopra i 3.000 metri, per ben 17 km. di dura traversata: dal rifugio Casati verso il Pizzo Tresero, dalla vetta del Cevedale al Palon della Mare, dal Vioz fino alla punta del San Matteo. Quando Giuseppe, me le indicava a distanza, ne era ancora orgogliosamente abbagliato: perché quello era il sigillo delle sue radici; la ‘chiave’ per entrare nel suo mondo interiore; la metafora di un’intera esistenza! Andare in montagna è, per quelli come lui, un grandissimo esercizio di volontà e di umiltà. Sopravvalutarsi in parete, non conviene: se esageri nel ritmo, sei finito. La cima per lo scalatore è, del resto, una visita brevissima. Salire e rientrare a casa: quello è il vero privilegio, intriso, come un mugo dell’Alta Valtellina, di  amicizie silenziose, di fatiche condivise; ma soprattutto di un senso di disciplina e di un’attitudine alla resistenza, che è formula diventata ormai rarissima della condivisione che tutti ci convoca. Giuseppe non è mai stato un uomo rigido, aspro; tantomeno, una persona scontrosa. Severo come gli uomini della montagna; rigoroso e affilato come le tredici cime, quello sì, ma sostanzialmente solo verso sé stesso!

Il secondo segno, portato nel sepolcro da Giuseppe, non potrebbe che essere la toga, simbolo sacro del suo amore per la giustizia. La grande Dike degli antichi greci e di Re Salomone, la virtù teologale di San Tommaso e la «rectidudo per se servata» di Anselmo! Ovvero: quel disegno di un dover-essere del mondo, che trascende finanche i codici e le aule dei tribunali, pur rispettandoli sempre, per diventare poi ‘sapienza’, che impara a restituire a ognuno il suo, senza mai fare preferenza, senza cedere alle pressioni dei potenti! Una giustizia che Giuseppe viveva naturalmente, senza scorta e senza auto di lusso, molto più simile a un missionario in bicicletta! Riassumendola un giorno, in una rapida intervista, rilasciata proprio a Bormio, la legava a due figure verbali efficacissime: «ascoltare»: ascoltare senza fretta, dando rilievo alla forma dell’udienza; e «valutare», valutare nell’assoluto disinteresse e nel timore di Dio, che Isaia poeticamente ci ha dipinto. «La mucca pascolerà con l’orsa, i loro piccoli si sdraieranno assieme, il leone mangerà il foraggio come il bue. Il lattante giocherà sul nido della vipera» (Is 11,6-8).

Il terzo simbolo, da raccogliere nella Pasqua di Giuseppe, è invece un nome: un nome, inciso su di un anello sponsale. Nicoletta è quel ‘nome’! La sua sposa invidiabile: per bellezza e per garbo, per eleganza e attaccamento ai valori; ma, sopra tutto, per una dimensione di fede contagiosa, ancora oggi indimenticata da questa comunità di Santa Francesca! In un epoca, in cui i legami si rivelano sempre più liquidi e sciolti; in cui la fedeltà della promessa è normalmente accordata «a tempo» e l’intimità della donna vergognosamente umiliata, Giuseppe cantava l’affetto come il cantore di un «dolce stil novo» contemporaneo: col gusto e lo stile di un trovatore cortese, da noi non sempre capito. Innamorato di lei come il primo giorno, appena dopo il primo incontro: non è difficile adesso immaginarlo, correre estasiato, a perdifiato, verso il suo corpo e il suo spirito, per riabbracciarla dentro la nuova casa di Dio e non lasciarsi mai più!

Resta, infine, l’ultimo dei simboli da scoprire e da conservare di lui. Nel caso, è una fotografia nitida, un’immagine a colori, messa a fuoco da un cuore, più che da un obbiettivo fotografico. È l’immagine scattata di Giuseppe che, quasi ottantenne, se ne sta seduto, rapito, raccolto in preghiera, sulle sponde del lago di Genezaret: il lago di Gesù, il lago della folla evangelica e dei suoi discepoli, tanto diversi dai cristiani impettiti e dai devoti orgogliosi che infastidivano già allora le mosse graziose del Maestro! Lui, Giuseppe, un gigante nello spazio della Legge e un purosangue della maturità del diritto, tirava fuori, tutte le volte, l’ingenua curiosità di un bambino, quando il «vangelo» entrava in campo. Si produceva in mille e mille domande; aguzzava l’occhio e l’ingegno; scavava per approfondire: dando corso a un’inquietudine del credere, che è diventata merce( perla), preziosissima e quasi introvabile, nel cristianesimo odierno.

Il finale è già scritto. In quest’ora per noi greve, in cui vorremmo umanamente trattenerti, tu, giudice navigato ed esperto, probabilmente, assieme ai tuoi angeli, già sei arrivato al cospetto della gloria di Dio. Continueremo a pensarti, te lo promettiamo, proprio così: come l’alpinista delle tredici cime, come il giudice che viaggiava con la toga in bicicletta, come lo sposo di Nicoletta e il cercatore dell’Assoluto di Dio! Ma forse, ancora meglio, come il figlio e il fratello, non l’imputato, che di fronte al suo Giudice eterno, stranamente non prova paura, non avverte terrore e nemmeno minaccia, riconoscendolo, finalmente, in viso come un giudice per lui Crocefisso! Crocifisso e il terzo giorno Risorto.

Grazie, Giuseppe, nel tuo «dies natalis»!

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