Riceviamo e pubblichiamo col consenso dell’autore questa Risposta in forma di lettera, che fa parte di un dialogo aperto da due interventi su Domani:
https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/governo-netanyahu-antisemitismo-israele-i9o3jmvy
Cara Roberta,
comprendo in questa risposta le ulteriori obiezioni da te proposte sulla base dell’intervento di Antonio Longo (https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2023/01/la-questione-della-democrazia-in-israele/#comments). Partirei col chiederti a cosa tu ti riferisca quando parli di una legislazione che attua «una sistematica diseguaglianza di diritti fra ebrei e “arabi”, inclusi gli “arabi isreaeliani”, residenti entro i confini di Israele ma con diritti estremamente limitati». Dal punto di vista legislativo e formale, come chiaramente espresso nella Carta d’Indipendenza del ’48, i cittadini arabi, come di qualunque altra etnia o confessione, hanno gli stessi identici diritti di quelli ebrei. Ovviamente parlo degli arabi-israeliani, chi abita fuori dai confini dello Stato rientra in una altro ambito legislativo. Certamente, come ogni minoranza in qualunque parte del pianeta, si subiscono dei pregiudizi sociali che anche possono tradursi in pratiche discriminatorie, ma in Israele cittadini arabi occupano posti di dirigenza, sono regolarmente membri eletti della knesset, e partiti arabi hanno persino fatto parte di maggioranze governative. Paragonare questo stato di cose all’apartheid sudafricana è semplicemente un falso storico. In Sud Africa esistevano autobus per i neri e autobus per i bianchi, quartieri per i neri e quartieri per i bianchi, stati giuridici diversi, dov’è tutto questo in Israele? Altra cosa è salvaguardare i confini del proprio Stato in conseguenza di molteplici attacchi militari e infinita serie di attentati, suicidi e non. Ma, chiedo, mi sai fare l’esempio di un altro Stato al mondo che riceve quotidianamente missili sul proprio territorio senza reagire, così come fa Israele fino a che i missili non raggiungono il cuore del proprio Stato, cioè Gerusalemme e Tel Aviv? Immagina se la Svizzera lanciasse missili su Como un giorno sì e l’altro pure, l’Italia che farebbe? Cosa direbbe la comunità internazionale? Ti ricordo che la Francia la sera stessa degli attentati al Bataclan ha fatto partire 40, dicasi 40 raid aerei su Racca (hai presente la potenza di fuoco di 40 raid aerei?). Cosa c’entrasse Racca con gli attentatori francesi del Bataclan è per me ancora un mistero. Ma che dire delle guerre di Bush per gli attentati dell’11 settembre? Interi Paesi portati al collasso per dare dimostrazione generica di forza ad un mondo che si sospettava connivente ideologico degli attentatori. E poi Guantanamo e tutto il corredo che conosciamo benissimo. Aggiungo che Israele è, piuttosto, da osservare come modello di convivenza interculturale. Pensa se esistesse da noi un 20% di popolazione araba che percentuale avrebbero i partiti di destra a vocazione identitaria? E questo senza avere un conflitto armato con quel mondo. Pensa cosa faremmo noi se quegli stessi cittadini a cui è garantito il welfare israeliano, come è giustissimo che sia, festeggiassero in piazza a Roma, o a Milano al suono delle sirene antimissile esattamente come succede a Tel Aviv? Quale sarebbe la reazione del nostro governo, di destra o sinistra che fosse? Quale sarebbe la reazione dell’opinione pubblica? Per far capire la differenza porto un esempio personale. Mi sono trovato a Tel Aviv al termine del Ramadan. Stavo a Yaffo-Jaffa, il quartiere arabo sempre più bello. Per mia curiosità mi sono fatto un giro durante la preghiera conclusiva del mese di digiuno. C’era una tale quantità di gente che dovevano pregare nelle strade perché le numerosissime moschee erano stracolme. Non solo, ho scoperto in quell’occasione che ai musulmani è concessa una settimana di ferie dopo il mese di digiuno (cosa non concessa a me in Italia per un giorno di Kippur). Per abitudine, anche questo non lo sapevo, vanno a farsi la gita a Tel Aviv. Ti dico che si tratta di una vera e propria «invasione» con decine di pullman e centinaia e centinaia di persone in spiaggia ogni giorno. Una festa bellissima, in pieno stile medio orientale, che significa un casino senza confini. Bene, la mattina ascoltavo via web la rassegna stampa di Radio3, la radio colta italiana. Telefona un milanese imprecando contro il comune perché lui, «che paga le tasse», si è dovuto svegliare col muezzin che chiamava a raccolta i musulmani al velodromo Vigorelli (sic!). E sì, perché nell’internazionale Milano non esiste uno straccio di grande moschea dove la gente possa riunirsi civilmente a pregare. Bene, a Tel Aviv, così come ovunque in Israele, il muezzin canta ogni giorno agli orari di preghiera stabiliti. Le moschee sono ovunque e, ripeto, nonostante il conflitto in corso, nessuno si permette di chiederne la chiusura come da noi hanno fatto Le Pen e compagnia danzante. Israele è una realtà multiculturale come poche al mondo e garantisce libertà di culto (chiedere ai drusi e ai baha’i). Ciò non significa che possa rinunciare alla propria difesa e a quella dei suoi cittadini, così come qualunque altro Stato. Sarebbe facile dire che, se non sono contenti, gli arabi israeliani possono tranquillamente andare a vivere in uno dei tanti Paesi arabi al mondo. Se non lo fanno è perché, per quanto vittime di pregiudizio, Israele garantisce loro standard di vita inimmaginabili altrove. E non voglio aprire il capitolo della discriminazione subita dai palestinesi nel mondo arabo, che, quasi ovunque, nega loro pure la cittadinanza. Quando non ha direttamente tentato di sterminarli in toto.
Il reale fondamento delle tue osservazioni è quello che tu affermi esplicitamente nella risposta ad Antonio: è il concetto di Stato ebraico a non venir tollerato da una certa, sempre più esigua per fortuna, intellighenzia europea. Non è altro che il riproporsi dell’antico pregiudizio anti ebraico che chiede agli ebrei di non essere più tali e di adeguarsi a una fantomatica identità universale in cui tutti siamo uguali. Una sorta di riedizione del mito agostiniano della Gerusalemme celeste, o del monito ellenistico, «Scrivete sulle corna del bue che rinuncerete ai vostri riti». Bene, allora io suggerisco quanto segue: non partiamo da Israele, visto questo popolo dalla «dura cervice», partiamo da qui, dall’Europa. Aboliamo i nostri elementi identitari. Aboliamo il calendario gregoriano, aboliamo la domenica come giorno festivo, aboliamo il Natale, la Pasqua, comunioni, cresime. Solo così non erigeremo steccati identitari che provocano inevitabili discriminazioni verso chi cristiano non è. Sciogliamoci in un’identità priva di fondamento storico. Un’identità eterea, senza immagini e segni che la caratterizzino. Vediamo come reagirà l’opinione pubblica, la stessa che balza dalla sedia quando una maestra decide di non far cantare alla classe le canzoni di Natale. Sono chiare provocazioni per dire che agli ebrei deve essere concesso il diritto all’autodeterminazione previsto per tutti i popoli. Una ragazza ed un ragazzo ebreo hanno il diritto di crescere in un immaginario ebraico, così come qui si cresce in un immaginario cristiano. Il concetto di Stato ebraico non è affatto incompatibile con parametri democratici e rispetto della differenza, così come l’Europa cristiana ha garantito a me tutti i diritti che hanno avuto i miei amici. Sionismo e apartheid, anche se gli afrikaner hanno provato ad usare l’’identificazione come scudo, non c’entrano nulla. L’apartheid è un prolungamento dell’ideologia imperiale europea che ha considerato altre culture come incivili da emancipare, chiedendo loro di abbandonare i propri percorsi identitari per adeguarsi ai parametri della «tolleranza» europea. Insomma, ha chiesto loro ciò che ha sempre chiesto agli ebrei. E’ la traduzione politica di una visione astratta dell’universale, che implica le logiche assimilazioniste e imperialiste che hanno fatto dell’Occidente la più grande macchina genocidiaria della storia. L’ebraismo propone un modello relazionale diverso, in cui l’universale si concretizza nel rapporto fra diversi, in una dialettica eterna col particolare che la filosofia conosce dai tempi del parricidio platonico. Per questo l’ebraismo non prevede il proselitismo.
Per tutte queste ragioni io rivendico il diritto all’esistenza dello Stato ebraico e rifiuto ogni ipotesi di stato binazionale costruita dalla retorica araba solo dopo aver dovuto ammettere che i tentativi di cancellare Israele manu militari erano falliti. Chiaro che le tendenze demografiche e un’astuta politica migratoria farebbero diventare in un baleno quello Stato uno Stato arabo. Ma anche non fosse, io chiedo il diritto all’esistenza di uno Stato ebraico. Lo stesso copione retorico ad uso e consumo dell’Occidente cristiano (in arabo il registro è assai diverso), a cui appartiene la cosiddetta Nakba. A parte, come tu ricordi, che non esisteva nessuna realtà territoriale palestinese a cui sottrarre territori. A parte che gli ebrei erano lì da sempre, dunque, per parità di misura, si sarebbe dovuto garantire anche a loro autonomia statuale (che poi è appunto la logica assunta dai britannici). A parte che chi è arrivato lì non ha occupato con le armi le terre, ma le ha comprate dai legittimi proprietari per consentire la creazione di città ebraiche (Tel Aviv costruita dai Rothschild è l’esempio principe). A parte tutto ciò, gli Stati nazionali nascono sempre da amputazioni territoriali degli imperi. Non mi risulta, però, che l’Austria celebri la propria Nakba il giorno dell’unità d’Italia. Quindi rifiuto senz’altro un approccio culturale come quello di Francesca Albanese, chiaramente fondato su quella logica assimilazionista che evoca i peggiori ricordi alla memoria ebraica e, soprattutto, dovrebbe evocarli alla memoria europea. Per quanto riguarda i confini dello Stato e le questioni pratico-politiche che poni, rinvierei ad una seconda replica. Questo che ho tentato di evidenziare mi sembra l’ostacolo maggiore. Sempre grazie per parlare di questi temi, purtroppo mai elaborati abbastanza dalla coscienza europea.
Caro Davide, questo dialogo dovrebbe essere qualcosa di più che una contrapposizione di punti di vista. E lo sarà.
In due sensi: il primo e più importante è che in questione sono dei fatti, e i fatti – io credo, possono bensì acquisire maggiore o minor peso nelle argomentazioni: ma non si possono negare o ignorare – dunque è in primo luogo sul piano dei fatti che proverò a risponderti: ma non in un semplice commento. Troppo c’è da dire.
Il secondo senso in cui non è semplicemente un punto di vista quello che proverò a opporti è la domanda radicale che motiva il mio interesse alle tue argomentazioni e il tentativo di replicarvi. Questa domanda è: perché? Qual è l’origine di questa tenace volontà di rimozione di una asimmetria tanto enorme quanto foriera di una spirale di male, all’infinito? La guerra che ora abbiamo sotto gli occhi ci ha abituato all’universale riconoscimento di un fatto: quale sia l’occupante e quale l’occupato. Di per sé questo non vorrebbe necessariamente dire che non possano esserci ragioni da entrambe le parti, anzi! Ma la prima condizione per discuterne è riconoscere questo fatto di base: chi è l’occupante, chi l’occupato. Questa differenza causale originaria, per così dire.
La domanda è per me tanto radicale e tanto dolente quanto è vasto il numero degli amici che ho, e che condividono le tue certezze. Lo stupore è sincero di fronte all’apparente buona fede, adamantina in certi casi, che sostiene la rimozione sistematica di questa differenza. Com’è possibile? Io non riesco a credere che l’appartenenza – come chiamarla? – religiosa? (ma è un’aggettivo che stona con tutti questi amici); etnica? (ma fa un po’ ridere, io non ho opinioni legate al mio essere lombarda più di quanto ne abbia di legate all’esser battezzata, e perché dovrebbe esser diverso per questi amici, italiani o lombardi quanto me, del resto, oltre che ebrei?) – Culturale? Ma da quando in qua un’identità culturale ha il diritto di negare i fatti?
(Poi questo stupore si fa doloroso non appena ne intuisci il risvolto: questa mia stessa domanda “ma perché non vuoi vedere che…” viene immediatamente letta come…antisemita! E questo è un punto che in un poaso precedente della nostra discussione (https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2023/02/oblio-del-passato-e-rimozione-del-presente/) avevo toccato, denunciando l’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che identifica all’antisemitismo la critica di certo sionismo. Ma chissà, su questo punto forse torneremo).
L’ultima premessa è che non mi sfugge quanto tragica sia la questione palestinese, e uso “tragica” nel senso specifico del termine: ci sono aspetti irredimibili della questione, cioè ingiustizie che non possono essere riparate senza nuova ingiustizia, come sarebbe, anche fosse mai possibile, il ripristino dello status quo ante – prima del ’48 e della Nakba, di cui non hanno colpa le generazioni nate nello Stato di Israele molto più tardi. Proprio riconoscere quanto tragica sia la terra di Palestina mi pare un’altra condizione per discuterne, infatti che ci siano ingiustizie irredimibili non significa che tutte lo siano. E del resto irredimibili non vuol dire irreparabili: vuol dire riparabili solo in parte, e per vie indirette e complicate. Ma anche solo per cominciare a parlarne occorre riconoscerlo, questo aspetto tragico: e non ignorarlo, invece, o peggio tacere pezzi enormi di verità: dio mio, Davide, frasi come
“chi è arrivato lì non ha occupato con le armi le terre, ma le ha comprate dai legittimi proprietari per consentire la creazione di città ebraiche”
è un frase che stringe lo stomaco e provoca vertigine per l’enormità di verità che tace, sotto quella che dice: compreso se si limitasse a Tel Aviv e Giaffa! Dio mio, Davide, proprio Giaffa. Almeno di solito c’è l’ipocrisia di chiamare “problema demografico” le politiche etniche dello stato occupante.
Riconoscere lo scandalo tragico sembra a me altrettanto necessario per poter anche solo cominciare a discutere, quanto lo è riconoscere i fatti. Si tratta in entrambi i casi del fondamento di verità da cui partire: rispettivamente, il fondamento di verità fattuale e quello valoriale.
E ora ai fatti, alla tragedia, alle questioni che poni e cui proverò a rispondere. Nel prossimo post.