Mi chiedo in questi giorni come sia possibile che i più fra noi soffrano – ma ignorandolo, imperturbati – di una doppia cecità, al passato e al presente. Se, almeno, il mainstream nei media riproduce grosso modo quello dell’opinione pubblica, cosa che però è molto discutibile. Comunque, moltissimi o abbastanza che siano: come avviene, quando avviene, che si prenda partito con tanta sicurezza, con tanto disprezzo per le altrui ragioni, ma anche con tanta sufficiente noncuranza per quello che si ignora, volontariamente o no? Che cosa ci toglie la memoria del passato e la vista del presente, del peggiore dei mali possibili che cresce illimitato con la sua marea di sangue, e che continuiamo ad alimentare senza fine? Eppure succede, a chi sputa contro il pacifismo “peloso” di quelli che (come pochi di noi) implorano chi può (Ue, ONU, diplomazie, Vaticano) di provare a fermare questa guerra, prima che sia distrutta ogni ragione di combattere e ogni speranza di futuro, insieme con la giovinezza di un’intera generazione, da una parte e dall’altra (vedi la riflessione in questo senso di Domenico Quirico su “La Stampa” di oggi, 4 febbraio 2023). Ma succede anche, sempre più gravemente, in relazione a un’altra escalation di sangue e orrore che si svolge in terra di Palestina, e forse – qualcuno lo ha annunciato – prelude a un allargamento del conflitto verso una dimensione più globale. Lo fa notare Francesca Albanese, Relatrice Speciale dell’ONU, nella presentazione italiana del suo rapporto. Albanese denuncia “il fatto che oggi si fatichi a parlare liberamente di Palestina e diritti del popolo palestinese: basti pensare che non di rado eventi come quello odierno sono oggetto di pressioni politiche ed intromissioni volte a ostacolarne la realizzazione. Malgrado la garanzia giuridica e istituzionale della libertà d’espressione e del diritto all’informazione in questo Paese come nel resto del mondo occidentale, e malgrado gli sviluppi in ambito di diritto internazionale, ci ritroviamo spesso, nel 2023, a dover affrontare episodi di censura, e autocensura.“
Lo dice con garbo, Francesca Albanese, dal momento che per questo suo rapporto è stata violentemente accustata di antisemitismo. Da questo fatto e da altri consimili ha preso le mosse la riflessione che qui ripropongo, e che è uscita su “Domani” online il 26 gennaio 2023, vigilia dele Giorno della Memoria, col titolo “Come salvare la memoria della Shoà”.
La Shoà: memoria e rimozione. Liliana Segre può rompere “il silenzio dei giusti”.
Che rapporto c’è fra memoria e rimozione? Questa è senza dubbio una delle questioni più profonde di tutta la ricerca sulle cose umane, interdisciplinarmente parlando: una questione filosofica, psicologica, neurobiologica, sociologica, storica, e riguarda nei suoi risvolti anche le discipline normative: etica, diritto, teoria politica.
Quale migliore occasione di risollevarla che l’affermazione amara di Liliana Segre, ricorrente in tutte le interviste da lei concesse in occasione del Giorno della Memoria, a proposito della “noia” che susciterebbe ormai fra i più la rievocazione della Shoah: “presto non ne resterà che una riga sui libri di storia per le scuole”. Ci aiuterà in questo La stella polare della Costituzione (Einaudi), un libro a cura di Daniela Padoan, con introduzione di Alessia Rastelli, che contiene il famoso discorso tenuto dalla Senatrice a vita a Palazzo Madama il 13 ottobre 2022, per l’inaugurazione di questa legislatura.
Come funziona la memoria
L’oblio, il velo di indifferenza che il tempo distende sugli eventi più dolorosi man mano che sprofondano nel passato, è certamente un modo della rimozione. Potremmo chiamarlo “rimozione secondaria”: ed è un meccanismo insito nello stesso modo di funzionare della memoria, quello di rimodularsi, come la nostra memoria fa, giorno dopo giorno, riscrivendosi quasi: come il computer riscrive i nostri file a ogni modifica. Un fenomenologo l’ha chiamato “il problema della rilevanza” (Alfred Schütz 1971): in base a ciò che più “conta” oggi noi ristrutturiamo quotidianamente quella parte delle nostre credenze che è “viva”, cioè non solo abituale ma attuale, carica oggi e qui di peso motivazionale. Insomma, quella parte che orienta la nostra attenzione e ci permette di mettere prontamente a fuoco le sfide presenti: di stare, come si suol dire, “sul pezzo”, ma anche di rielaborare costantemente il progetto di futuro, in relazione al modo in cui il passato ha cambiato il mondo, le sue minacce, le sue opportunità. Nel piccolissimo orizzonte quotidiano di ciascuno, o nel largo orizzonte di tutti, dove il passato è storia.
Il pessimismo di Liliana Segre
Ma anche Liliana Segre lo dice, in fondo: il suo pessimismo ha una radice “naturale”, anche se questa non è una scusa per abbandonare la buona causa di farsi “noioso” assillo nei confronti delle istituzioni e del dibattito pubblico, come il tafano di Socrate. Solo i santi, e a volte i poeti, sfuggono a questo meccanismo della rimozione secondaria, parallelo nel tempo a quello che in termini “spaziali” è l’enorme divario nella rilevanza percepita di un dolore a seconda che sia “vicino” come il mio dito mignolo o “lontano” come un terremoto con migliaia di vittime in Cina. Un’altra fenomenologa ha chiamato “il realismo dei santi” questa capacità di sentire secondo giustezza e proporzione di gravità, indipendentemente dalla contingenza dell’io che sente, del vicino e del lontano (Edith Stein 1942). Ma io ricordo più vividamente ancora un verso di Antonio Machado: “Che immensa lacerazione/essere tutto intero/in ogni cosa”. Perché è un grido di impotenza e di dolore, che l’uomo lancia alla “sovrumana” coscienza del poeta (quello vero). La ragione, che è universale, ci vorrebbe tutt’interi presenti ad ogni male al mondo, in proporzione alla sua gravità: e questo squarcerebbe la fragile trama delle nostre vite particolari.
Eppure, per quanto riguarda l’oblio della Shoà, il discorso non finisce certo qui: semmai, da qui comincia. Torniamo al libro su Liliana Segre e il suo intervento al Senato. Aveva molto colpito il passaggio sulla “vertigine” di quella sovrapposizione, a distanza di una vita, fra il suo banco di scuola, che la piccola Liliana si trovò costretta ad abbandonare a otto anni in quanto ebrea, “per la sola colpa di essere nata”, e “il banco più prestigioso del senato”, su cui la grande Liliana si trovò quel giorno dello stesso mese di ottobre, 84 anni dopo. La vertigine, appunto, è il titolo del bel saggio di Daniela Padoan a commento di quel discorso: davvero un ausilio straordinario per la memoria degli insegnanti e dei loro studenti, per la ricchezza di citazioni dai discorsi e dai testi dei protagonisti della nostra storia. Da Mussolini a Matteotti, Calamandrei, Salvemini, Bobbio, Primo Levi…
“Voltarsi dall’altra parte”
Ma la cosa che più mi ha colpita è la ricorrenza che Padoan registra, nelle dichiarazioni di Liliana Segre, del dolore inflitto alla vittima dal silenzio dei contemporanei, dei presenti: dal loro “voltare la faccia dall’altra parte”. Dall’indifferenza, dall’omertà. O addirittura dalla latitanza dei giusti. Lo scrisse anche Einstein: “Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare”.
Perché questa latitanza è il vero nome della rimozione – la rimozione primaria, quella che neutralizza gli eventi carichi di male, mentre accadono sotto i propri occhi. Ed è proprio da qui che dovrebbe ricominciare il discorso sulla memoria della Shoà, e del suo oblio. Perché a questo oblio c’è un rimedio infallibile: il presente. Qual è infatti lo scandalo immenso che dobbiamo impedire che venga mai dimenticato o banalizzato? Che ci siano esseri umani che “per il solo fatto di essere nati”, dice Liliana Segre, si vedono negare dignità e libertà, o addirittura la vita. Ecco: se chi questo scandalo non l’ha vissuto lo vivesse oggi, o attraverso il grido delle vittime o dei testimoni oculari lo percepisse in atto adesso e non in un passato storico, se venisse a sapere che tocca a persone che gli sono vicine o potrebbero esserlo, si potrebbe mai dare che il racconto di questo scandalo “gli venisse a noia”? Evidentemente no: se pure rifiutasse o evitasse di ascoltare o guardare, non è certo di noia che parleremmo. Sarebbe rimozione “primaria”, non “secondaria”. La differenza di impatto emotivo salta agli occhi: tant’è vero che più una rievocazione è vivida, offerta ai sensi e al cuore, più avrà effetto. E’ del resto per non lasciarmi sconvolgere che mi volto dall’altra parte.
E allora? Voglio forse dire che far memoria della Shoà sarebbe più efficace se chi la fa ricordasse anche tutte le persone che oggi, anche molto vicino a noi, si vedono negare dignità, libertà o addirittura la vita per il solo accidente della sua nascita – per dove o quando o da che sangue o di che sesso sono nate? No. Vera o falsa che sia, questa tesi suonerebbe come una banalizzazione: non terrebbe conto di una cosa che sta molto a cuore a chi vuol tener viva la memoria della Shoà: la sua unicità.
Come dobbiamo intendere l’unicità della Shoà?
Ma come dobbiamo intenderla, questa unicità? Io credo, come un divieto di relativizzare questo male che viene detto “assoluto”. Cioè di usarlo – Dio non voglia, verrebbe proprio da dire – come un’arma di parte, come una “narrazione” che sia lecito opporre ad altre “narrazioni”, quindi come un punto di vista che non presenta affatto una verità assoluta, ma solo una verità relativa a una “parte” – come si fa in guerra. Dio non voglia davvero. Lo sterminio degli ebrei (e limitiamoci pure a loro per il momento e per amor di discussione, sappiamo che non fu solo lo sterminio degli ebrei ma questo ora non è rilevante) è uno scandalo per l’umanità tutta, proprio in quanto tale, proprio in quanto nega agli ebrei la loro umanità. Ma se è così, allora chi rinnova pubblicamente la memoria di questo scandalo è per definizione un giusto. E’ in quanto giusto che ne rinnova la memoria: lo fa come si obbedisce a un imperativo categorico, lo fa perché uno scandalo davanti all’umanità esige di non essere rimosso né obliato. Sarebbe devastante infatti se si scoprisse che chi ricorda la Shoà lo fa, come diceva Kant, non “per” dovere, ma solo “in conformità” a un dovere: come dire, è un dovere, certo, ma mi serve anche ad altri scopi, ad esempio scopi di propaganda politica, o bellica. La stessa causa etica e umana che la memoria difende ne verrebbe relativizzata. L’assolutezza di quel male ne sarebbe distrutta.
Einstein non sprecava le parole. Non si è riflettuto abbastanza sulla profondità di quell’espressione: “l’inerzia dei giusti”. Non l’inerzia di chicchessia. Se un giusto, uno che sappiamo tale, tace o latita di fronte a una causa che ci pare giusta, cominciamo a dubitare della sua giustezza. Per questo Gaetano Salvemini provava un senso di colpa infinito quando Matteotti viene ucciso. “Me ne stavo fra i miei libri…”. Salvemini lo scrive alla vedova di Matteotti, e il fatto ce lo racconta Daniela Padoan nel libro su Liliana Segre.
Il ricatto dell’antisemitismo
E allora? Cosa voglio dire? E’ molto semplice. La memoria della Shoà è una barriera contro l’antisemitismo, e opporsi all’antisemitismo è sacrosanto, se è assolutamente giusta la causa dell’umanità che nel corpo degli ebrei fu negata, e se l’averla così negata è un male assoluto. Ma tutti questi assoluti sono relativizzati se l’accusa di antisemitismo diventa un’arma di parte, un ricatto pendente sulla testa di chi denuncia la dignità, la libertà, il possesso della propria casa e della propria terra, e troppo spesso la vita stessa, negate ai palestinesi che vivono da più di mezzo secolo sotto occupazione militare nel poco che resta della Palestina storica (o anche del pezzo loro “assegnato” nel ’48 per far posto allo stato di Israele). In spregio di tutte le risoluzioni dell’Onu e dei suoi disperanti resoconti, ultimo e recentissimo quello della relatrice speciale Francesca Albanese (A.77.356_210922.pdf (un.org)), che è stata da molti accusata di antisemitismo. Ecco: equiparare questo tipo di denuncia all’antisemitismo è quello che ha ufficialmente fatto l’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), identificando all’antisemitismo la critica del sionismo. E purtroppo è un ricatto internazionalmente sempre più diffuso. The Guardian l’ha denunciato già il 29 novembre 2020, pubblicando una lettera firmata da 122 accademici e intellettuali arabi contro questa equazione, che relativizza tutto quello che è assoluto: e davvero, allora, svuota anche la memoria della Shoà della sua unicità e della sua spina, lo riduce – Dio non voglia – a retorica di parte.
Senatrice Segre, spezzi questa immorale in-differenza. Basterebbe una sua parola a rompere il silenzio dei giusti.
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