La radice dolente del fuoco che divampa. Risposta a Davide Assael e a molti altri amici

mercoledì, 22 Febbraio, 2023
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Caro Davide,

Come accennavo nel mio commento alla tua lettera pubblicata QUI, questo dialogo dovrebbe essere qualcosa di più che una contrapposizione di punti di vista. Da un lato c’è una verità dei fatti che va stabilita indipendentemente dal peso e dal valore che le si dà (il “punto di vista”); dall’altro c’è la domanda di fondo che motiva ancora, da parte mia, questo dialogo. Con te, certo: ma – mi perdonerai – anche con molti altri amici che in diverse occasioni hanno saputo stupirmi con le loro certezze: certezze alle quali tu dai ora parola. Questo non giustifica ma forse può spiegare, allora, la lunghezza di questa risposta. Come una piena che rompe: mi perdonerai? [i]

 

  1. I fatti e la questione della rimozione.

I fatti: per riprendere una distinzione proposta da Edward Said, che ha meditato profondamente sulla questione nel suo senso più generale in Dire la verità (Ed. orig. 1994, Representations of the Intellectual), tr. it. 1995, Milano: Feltrinelli), i fatti della questione palestinese non sono per nulla nascosti: piuttosto, da una gran parte del mondo, ebraico e non, ignorati o negati[ii]. Questa è la vera questione, quella che vorrei rivolgere a te e non solo a te: perché? In una lettera non pubblicata tu dici che non rifiuti i dati e i numeri (ad esempio delle agenzie dell’ONU o di Amnesty International), ma “la narrazione in cui sono inseriti, chiaramente orientata verso lo Stato binazionale che nega al popolo ebraico il sacrosanto diritto all’autodeterminazione”.

Io vorrei sospendere ogni giudizio sulle soluzioni possibili, per le quale non ho il minimo titolo di competenza reale, anche per la precisa ragione, cui pure ho già accennato nel commento alla lettera, che sento come tragica la questione palestinese, e uso “tragica” nel senso specifico del termine: ci sono aspetti irredimibili della questione, cioè ingiustizie che non possono essere riparate senza nuova ingiustizia, come sarebbe, anche fosse mai possibile, il ripristino dello status quo ante – prima del ’48 e della Nakba (a proposito, perché dici “cosiddetta”?), di cui non hanno colpa le generazioni nate nello Stato di Israele molto più tardi. E neppure quei profughi ebrei dall’Europa dopo i pogrom russi prima, dopo lo sterminio nazista poi, quelli che nessuno voleva, in Europa.

Ma certamente non ne hanno colpa neppure i palestinesi: queste vittime storiche di tutte le forze in gioco, a partire dalle potenze coloniali europee che si erano spartite i domini ottomani alle spalle delle popolazioni arabe da loro incitate alla rivolta, e usate come carne da cannone per disfare l’impero del Turco; fino agli stessi stati arabi da queste potenze create, che a più riprese prima e dopo la guerra da loro perduta del ’48, e poi dopo quella del ’67, alla causa palestinese preferirono di gran lunga la difesa dei loro interessi locali.

Proprio riconoscere quanto tragica sia la terra di Palestina mi pare un’altra condizione per discuterne. Anche se: che ci siano ingiustizie irredimibili non significa che tutte lo siano. E del resto irredimibili non vuol dire irreparabili: vuol dire riparabili solo in parte, e per vie indirette e complicate. Ma anche solo per cominciare a parlarne occorre riconoscerlo, questo aspetto tragico.

E dunque, la questione. La formulo a partire da parole di Edward Said, per attenermi al massimo di obiettività e ormai – direi – “classicità”. C’è una semplice verità: che “sino al 1948 vi è stata un’entità chiamata Palestina e che lo stato ebraico deve la sua esistenza alla sua soppressione”[iii]. Per “soppressione” non si intende solo la Nakba, vale a dire la pulizia etnica[iv] che si realizzò con l’eliminazione o lo sradicamento dalla loro terra di due terzi della popolazione preesistente, ma l’intero processo precedente e successivo alla Partizione del 1947, sfociato, con la fondazione di Israele,  nell’ininterrotta politica che fino ad oggi ha perpetuato un regime di occupazione militare spietato su quello che ne resta.

Insomma, c’è un occupante e un occupato. Ma i tuoi argomenti non solo non ne tengono conto, ma sembrano ignorarla del tutto, paragonando ad esempio l’indipendenza di Israele a quella d’Italia dopo il Risorgimento, o la minoranza araba in Israele a quelle magrebine in Francia. La questione, dunque: perché questa rimozione (tua e di molti altri) dell’asimmetria, anzi della differenza causale originaria, per così dire: rimozione tanto grande quanto foriera di una spirale di male, all’infinito?

La questione è sottesa a tutto il nostro dialogo fin dal suo inizio, come una miccia che appena toccata divampa in un fuoco di passione e ti fa come levare una mano, quasi una spada di fuoco, a fermare l’interlocutore: altolà, o passi la linea dell’antisemitismo.  Come se fosse proprio l’identità ebraica a essere in questione non appena si parla di sionismo, inteso come ideologia politica che giustifica la fondazione dello stato “ebraico” di Israele e ispira la politica dei suoi governi.

Ma dobbiamo essere più specifici. C’è un solo aspetto del sionismo politico che qui è centrale, ed è precisamente insieme cognitivo e pratico: la rimozione delle ragioni della resistenza palestinese. Rimozione che non è propria soltanto dei governi israeliani succedutisi nel tempo: no, quello che rende la nostra discussione di interesse molto più generale, credo, è quanto diffusa nel mondo sia questa ignoranza, o questo ignorare.  E’ l’invisibilità che continua ad affliggere il popolo palestinese, nonostante la vasta letteratura – poesia, narrativa, storia, teoria –  anche palestinese, ormai accessibile a tutti.

E’ una rimozione che prolunga quella, tendenziale, dell’esistenza stessa della popolazione palestinese nel sogno di Chaim Weizmann, presidente del Congresso Sionista Mondiale e primo presidente dello stato d’Israele: l’uomo che nel 1914 aveva reso popolare l’idea onirica formulata da Israel Zangwill alla fine dell’Ottocento, quella di “un paese senza popolo per un popolo senza terra”[v].

E’, questo sentimento dell’identità ebraica come minacciata da ogni denuncia della sofferenza palestinese, un aspetto talmente ricorrente nelle discussioni, e non solo della nostra –  da assurgere alla dignità di un fenomeno. Ma non è un fenomeno stranissimo, veramente enigmatico? Perché mai l’identità ebraica dovrebbe essere messa in questione da chi critica quell’aspetto del sionismo che ha ispirato le politiche dei governi israeliani volte a ridurre il più possibile il radicamento territoriale dei palestinesi entro i variabili confini dello stato di Israele e a popolare di colonie ebraiche i Territori occupati? Chi mai potrebbe decretare che queste politiche siano per definizione le uniche in cui possa esprimersi il “diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico”? E perché la loro critica dovrebbe minacciare l’identità ebraica?

In vari punti del nostro dialogo tu equipari la critica al sionismo con l’antisemitismo, condividendo evidentemente questa posizione con l’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che questa identificazione ha proposto nel 2016, suscitando le proteste di numerosi intellettuali di ogni provenienza (https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2023/02/oblio-del-passato-e-rimozione-del-presente/).

Su questo punto tornerò nell’ultima parte di questa risposta, ma vorrei per chiarezza già indicare il filo che ci condurrà fino alla fine, e per farlo mi servo delle parole di un classico.

“Criticare il sionismo oggi non è tanto criticare un’idea o un’ideologia ma, piuttosto, un muro di negazioni e rifiuti”.

Sono parole di Edward Said, autore di Orientalismo, l’opera che più di ogni altra ha illuminato il lato oscuro della modernità europea e occidentale, nei suoi risvolti imperiali e coloniali. Le parole che ho citato risalgono agli anni ‘90 e riassumono anche il filo conduttore del suo La questione palestinese[vi]. Non potevo trovarne di più limpide, per riassumere brevemente il tema di fondo di questa mia risposta.

Said mette in luce l’aspetto, possiamo dire, letteralmente, negativo del sionismo. E mostra che questo aspetto è nella storia di Israele continuo e trasversale rispetto al colore politico dei suoi governi. Lo fa attraverso centinaia di citazioni, ricavate da tutte le espressioni del pensiero sionista, da quelle più liberal e mainstream nell’opinione pubblica statunitense, a quelle socialiste  delle origini e dei kibbutzim,  fino a quelle dichiaratamente razziste di alcuni esponenti dell’attuale ultradestra israeliana al governo. Questo aspetto è la negazione o rimozione del fatto che

“la liberazione nazionale ebraica  (come talvolta viene definita) è avvenuta (e avviene) non in astratto, ma sulle rovine di un’altra realtà nazionale”[vii].

Innegabile, e perciò stesso tragico. Ma non implica affatto una messa in questione del “diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione”. La tragedia è cioè nel modo in cui è di fatto stato realizzato questo diritto, non in una necessità della storia, che non esiste se la storia la fanno gli uomini, in particolare quelli che decidono per tutti, cioè che conquistano ed esercitano un potere politico. E se factum infectum fieri nequit, il presente e il futuro sono per definizione aperti all’alternativa.

  1. Lo Stato “ebraico” di Israele

Alle questioni stesse, dunque, le tue.

“Partirei col chiederti a cosa tu ti riferisca quando parli di una legislazione che attua “una sistematica diseguaglianza di diritti fra ebrei e “arabi”, inclusi gli “arabi isreaeliani”, residenti entro i confini di Israele ma con diritti estremamente limitati”.

Questa questione è naturalmente fondamentale: ci sono indubbiamente circa 5 milioni di palestinesi nei territori occupati che vivono in stato di occupazione militare, quindi certamente privi di diritti civili e spesso addirittura di diritti umani (vita, riparo, acqua, terra)  prima e dopo gli accordi di Oslo del 1993 e 1995. Un’occupazione che la comunità internazionale considera illegittima perché prolungata oltre ogni misura di tempo ragionevole, anche se ripartiamo dalla guerra del ’67 e tralasciamo ciò che, avvenuto prima, aveva causato quella guerra. Ma tu sembri considerarli un problema a parte, e quindi ne parliamo dopo. Tu dici:

“Dal punto di vista legislativo e formale, come chiaramente espresso nella Carta d’Indipendenza del ’48, i cittadini arabi, come di qualunque altra etnia o confessione, hanno gli stessi identici diritti di quelli ebrei. Ovviamente parlo degli arabi-israeliani, chi abita fuori dai confini dello Stato rientra in una altro ambito legislativo”.

Io non so se sia inconsistente la Carta o se il linguaggio giuridico inganni gli inesperti (e io sono certamente fra quelli) ma ti debbo contraddire su questo punto.

E’ verissimo che la Carta proclama un’eguaglianza di diritti: Lo Stato di Israele

“assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”.

E naturalmente si potrebbe dire: accade dappertutto che una cosa siano i principi, un’altra la loro effettiva realizzazione. Ma qui c’è un punto che riguarda i principi. Mentre proclama lo stato ebraico di Israele, la Carta implicitamente distingue fra cittadinanza e nazionalità o etnia. Niente di male se poi la nazionalità come tale non comportasse disuguaglianza nei diritti di cittadinanza, cioè di appartenenza allo stato. “Di chi è” lo stato di Israele? Di tutti i suoi cittadini?

Nel 2019 Netanyhau ha pubblicamente affermato che “Lo stato di Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini ma del popolo ebraico esclusivamente”. Lo ha fatto riferendosi all’avvenuta approvazione, l’anno precedente, del Nation-State Bill (disegno di legge sulla nazione), che definisce lo stato di Israele “Stato-Nazione del popolo ebraico” , e che è ora legge costituzionale in seguito alla sua approvazione (con 62 in favore, 55 contro, e due astensioni)—il 19 luglio 2018 (legge in seguito dichiarata non anticostituzionale dalla Corte suprema di Israele. Vedi https://en.wikipedia.org/wiki/Basic_Law:_Israel_as_the_Nation-State_of_the_Jewish_People).

Questa però era indubbiamente già la dottrina di Ben Gurion e della maggior parte dei governi di Israele; che la formula Judenstaat di Theodor Herzl[viii] risulti ambigua, diventa evidente una volta che questa legge ne ha esplicitata l’interpretazione esclusivista, tanto è vero che è stato necessario passare per un vaglio di costituzionalità.   Fra gli uomini di Stato israeliani che tentarono di opporsi a questa legge, sottolineando come essa violi la norma universalistica di una democrazia e avvicini  Israele a uno Stato di apartheid, è da menzionare almeno Reuven Rivlin, che in occasione della sua elezione a Presidente di Israele nel 2014 si dichiarò contrario a questo disegno di legge.

La disambiguazione della formula avviene con una distinzione illuminante fra “diritti umani” e “diritti nazionali”.

Presentando il disegno di legge, Amir Ohana (Likud), speaker alla Knesset, affermò: “Questa è la legge delle leggi. E’ la legge  più importante nella stora dello Stato di Israele, e dice che ognuno gode dei diritti umani, ma i diritti nazionali in Israele appartengono soltanto al popolo ebraico. Questo è il principio fondante sulla base del quale lo stato fu stabilito”. Il ministro Yariv Levin (Likud) lo chiamò “l’emblema stesso del sionismo”: avrebbe portato ordine “chiarendo quello che era sottinteso” ed esplicitando la natura di Israele: “un paese diverso da ogni altro, cioè lo stato-nazione del popolo ebraico”.

Ora cosa siano questi diritti nazionali non è un segreto per nessuno: nella città di Gerusalemme, ad esempio, la popolazione ebraica non deve mai scendere sotto il 60 % della popolazione. Molte disposizioni ne seguono, come l’impossibilità di ritornare, per un “arabo” – normalmente un palestinese – che si trovasse costretto a trasferirsi fuori Gerusalemme; come l’impossibilità di ottenere il permesso di soggiorno a Gerusalemme per quello dei coniugi che non vi abitasse già; per non parlare dell’inaccessibilità, così per un arabo israeliano come per qualunque altro non-ebreo dentro o fuori degli incertissimi confini di Israele, delle terre e dei permessi di costruire (che vengono invece concessi ad abundantiam ai coloni ebrei per i loro insediamenti nei Territori).

Più in generale, la separazione fra diritti nazionali e diritti umani comporta ovviamente due categorie di cittadinanza. La cittadinanza riservata ai soli ebrei conferisce un accesso preferenziale alle risorse materiali dello stato come anche ai sevizi sociali e di welfare, con relativa discriminazione dei cittadini non ebrei, in particolare per quanto concerne – come sempre – l’accesso ai permessi di edificare, all’abitazione, alla terra e all’acqua. Anche entro i confini (ripeto, assai vaghi) di Israele.

Ma poi: in che senso almeno i “diritti umani” sarebbero garantiti agli arabi israeliani, quando per legge non si può più diventare israeliani se non si è ebrei, anche potendo dimostrare di aver abitato per generazioni – poniamo – a Gerusalemme o a Giaffa? Eppure l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo recita al capo 2:

“Ogni individuo ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”.

In aggiunta, la Commissione delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo ha stabilito che

“a. Tutti hanno il diritto, senza distinzione di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinini politiche o di altro tipo, origini sociali o nazionali, proprietà, nascita, matrimonio o altro status, a tornare nel proprio paese.

  1. Nessuno deve essere arbitrariamente privato della propria nazionalità obbligato a rinunciarvi al fine di privarlo del diritto a tornare nel proprio paese.
  2. Nessuno deve essere arbitrariamente privato del diritto a rientrare nel proprio paese.”

E’ per queste ragioni che la famosa risoluzione 194 dell’Assemblea generale della Nazioni Unite dell’11 dicembre 1948, in cui si affermava il diritto dei palestinesi di ritornare alle loro case e alle loro proprietà, è stata riconfermata non meno di 28 volte.[ix] Ricordo come fatto verificabile a chiunque che per poter entrare nell’ONU il neonato stato di Israele si era impegnato a ottemperare a questi principi, garantendo dunque anche ai non ebrei il ritorno alle proprie terre d’origine.

Invece, per via delle leggi del 1950 e del 1970 che ora brevemente discuteremo, questo ritorno è formalmente proibito ai palestinesi della diaspora: e allora  in che senso hanno diritti umani “eguali” a quelli degli ebrei, che invece, in forza della famosa “Legge del ritorno”, hanno diritto di chiedere immediatamente la residenza e la cittadinanza israeliana, ovunque siano nati, e riducono quindi sempre di più, anche nei confini di Israele, lo spazio a disposizione dei palestinesi?

E’ questo, caro Davide, il “modello relazionale diverso” che l’ebraismo propone, in cui “l’universale si concretizza nel rapporto fra diversi”? E’ questo il tuo “modello di convivenza interculturale”?

Lasciamo pur perdere in caso scandaloso di Hebron, Cisgiordania (fuori dai “confini”), dove dall’alto delle case occupate dai coloni si getta la pattumiera sui piani bassi e le strade della città araba. Restiamo “in” Israele. Prendi Nazareth. E Nazareth Alta. Zero risorse amministrative per la manutenzione e lo sviluppo della città araba, dispiego più che imponente di risorse governative per la comunità ebraica che abita quella città nuova eretta sulle colline – “su migliaia di acri che sono stati espropriati con la forza ai villaggi arabi, in particolare a Nazareth e a Rana”[x].

Per non parlare, appunto, delle espropriazioni forzate, come nel famoso quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. A questo punto davvero la distinzione fra « arabi israeliani » e «arabi» o più semplicemente, per la maggior parte dei casi, palestinesi, diventa difficile da tenere.

  1. L’espansione continua

E’ di questi giorni (14 febbraio) la notizia che Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si dicono « profondamente turbati » dall’annuncio del nuovo governo israeliano del pino di insediamento di ulteruiori 10.000 unità abitative, per una popolazione ulteriore di 70.000 coloni, nelle aree ancora non occupate della Cisgiordania. Mi pare sia la prima volta che viene sollevato questo clamore, ed è un segno di speranza che possa cessare almeno la rimozione questo continua sottrazione di terra e vita a una popolazione preesistente. Rimozione che rende più irrimediabile l’ingiustizia, in quanto cancella la verità dalle coscienze: Simone Weil vide lucidamente questo fenomeno quando disse che il cuore della giustizia è la verità. Forse è questo, paradossalmente, l’effetto della svolta di destra suprematista del governo di Israele, che tu giustamente aborrisci, e che – altro segno di speranza – sembra risvegliare anche la coscienza civile, se anche oggi ci sono centomila persone a protestare nelle piazze israeliane.

E meno male. Perché Amnesty International prevede altre 150.000 espropriazioni forzate, mentre gli insediamenti dei coloni hanno ormai non soltanto mangiato una gran parte della Cisgiordania, ma distrutto ogni continuità territoriale, isolando i centri abitati dai terreni coltivabili, erigendo quel famoso sistema di muri che lungi dal garantire sicurezza agli israeliani servono a proteggere le colonie illegali. Di strade che lungi dal garantire la viabilità a tutti servono a non vedere mai, viaggiando da Israele a una colonia, o da una colonia all’altra, la gente derubata di terra, acqua, vita, futuro. Costretta a vivere in spazi ridotti, a perdere quotidianamente ore e ore ai check point, ad avere completamente impedita la libertà di movimento e di viaggio, perfino di accesso a diverse aree sia della Palestina storica sia di Israele, impossibilitata a vedere il mare o Gerusalemme….

(Questa è del resto la ragione per cui non capisco come tu possa ritenere “l’unica possibile” la soluzione a due stati: dov’è più la continuità territoriale e per così dire la materia stessa del secondo stato? Puoi davvero credere che i palestinesi dei Territori e della diaspora, che insieme ammontano a circa 8-9 milioni di individui, semplicemente ci starebbero, nell’11% rimasto della Palestina storica?[xi])

Ma andiamo finalmente al dunque: quando dici che “ovviamente… chi abita fuori dai confini dello Stato rientra in una altro ambito legislativo” pare tu voglia di nuovo rimuovere il fatto che questa non è gente che appartiene a un altro stato, ma gente sottoposta al regime di occupazione in una terra che era effettivamente la loro prima che fosse a loro spese creato lo stato di Israele, e gente che a questa occupazione, in modi non violenti o, purtroppo, violenti, non si rassegna. E quando parli di una forte minoranza araba dentro lo stato, che rende Israele un “modello di convivenza interculturale” “come se esistesse da noi un 20% di popolazione araba”, tralasci che al 20% sono stati ridotti dalla politica costitutiva dello Stato ebraico di Israele, a partire da una condizione in cui la “forte minoranza” erano gli ebrei, anche dopo le forti immigrazioni dall’Europa negli anni ’20 e soprattutto negli anni ’30: immigrazioni  pour cause, naturalmente! “La tragedia di essere vittime delle vittime”, come scrive Edward Said.

E’ come se tu ignorassi che il quadro legislativo in cui si esplica la politica costitutiva dello Stato ebraico di Israele è basato sulla stessa strategia con la quale i padri fondatori hanno creato la base territoriale e abitativa dello stato fino alla sua proclamazione. La stessa strategia che, dopo la sua proclamazione, si concreta in attività legislativa. A partire dall’Absentees’ Property Law, approvata nel 1950, con cui lo Stato di Israele assumeva il controllo dei beni di tutte le persone che avevano lasciato il territorio alla fine del 1947: e che fossero scappati di propria volontà, cacciati dall’esercito o perseguitati dalle milizie sioniste, non aveva alcuna importanza.

Ricordo dati reperibili ormai con facilità estrema. Prima del 1948, i Palestinesi erano circa il 75% della popolazione, e possedevano il 90% della terra privata. Gli ebrei, in grande maggioranza immigrati dall’Europa, formavano il 30% della popolazione, e  possedevano il 6% delle terre. Solo durante il processo di costituzione dello Stato di Israele, centinaia di villaggi palestinesi furono distrutti e circa  780.000 persone furono espulse dalla propria terra, dati Amnesty International. Molti passati per le armi, molti soltanto messi in fuga, certo : c’è un passo struggente di Mahmut Darwish, che parla del nonno, cui le forze d’occupazione israeliane avevano promesso un pronto ritorno, appena le cose si fossero messe tranquille. E che passò il resto della sua vita a rimpiangere di non esser rimasto, anche a rischio della vita (M. Darwish, Una trilogia palestinese, Feltrinelli 2017, p. 27). In cambio, subito dopo la guerra e la nascita dello Stato di Israele 146.000 ebrei israeliani si sistemarono in case che erano appartenute a profughi palestinesi in città come Akko, Giaffa, Haifa e Gerusalemme (Dati Amnesty International).

Giaffa, appunto. Ci sono pagine fra lo straziante e lo straniato nel romanzo di humour tragico di Suad Amiry, Sharon e mia suocera, Feltrinelli 2021, sulla ricerca della casa avita di Giaffa, ovviamente espropriata con la violenza. Il che non esclude che poi – da privati – sia stata comprata, una volta che lo stato se l’era appropriata. A meno che non facesse semplicemente parte del quartiere arabo completamente raso al suolo, ad eccezione delle due moschee e delle chiese armena, ortodossa e cattolica, nell’aprile del 1948. Nel ’47, l’ONU aveva tracciato la Green Line, la linea della partizione, separando Giaffa, enclave a larga maggioranza palestinese, dai sobborghi settentrionali annessi a Tel Aviv, con più densa popoolazione ebraica. Tuttavia la partizione non fu rispettata: le milizie dei combattenti per la fondazione di Israele, Lechi e Irgun, terrorizzavano la popolazione fin dal gennaio, tanto che avevano messo in fuga, a ondate, una parte enorme dei circa 80.000 residenti di Giaffa. Tanto che quando Haganah ( per chi non è esperto come te: l’organizzazione paramilitare operante nella Palestina del Mandato britannico fra il 1920 e il 1948 destinata a divenire il nucleo dell’esercito israeliano) prese il controllo di Giaffa il 14 maggio del 1948, i palestinesi rimasti erano ridotti a 3800.[xii] L’amministrazione indipendente di Giaffa fu sciolta e la città annessa a Tel Aviv: e a quel punto potè certo nascere un fiorente mercato immobiliare, naturalmente sotto lo scudo dell’Absentees’ Property Law del 1950, cui venne ad aggiungersi la Legal and Administrative Matters Law del 1970. La quale stabilisce che le proprietà requisite dallo Stato ebraico nel 1947 possano essere trasferite solo ad ebrei[xiii]. Se a tutto questo aggiungiamo che è vietato ai palestinesi reclamare le proprietà da loro possedute prima del 1948, si vede un po’ di più della verità taciuta sotto quella enunciata. E senza dubbio, dagli anni novanta, il quartiere “arabo” di Giaffa è diventato “sempre più bello”: popolatissimo di studi d’artisti israeliani trasferitisi lì dai quartieri di Tel Aviv.

Ma c’è uno sviluppo recentissimo di questa situazione che leva ogni residuo velo sullo stato delle cose. Ne scrive addirittura il Corriere della Sera, il 27 febbraio 2023, riprendendo ampi stralci di un articolo comparso su Haarez. “Per decenni” – scrive l’autore, Gianluca Mercuri – “i vari governi israeliani — prima quelli laburisti di quelli del Likud, va detto — hanno evitato la definizione dei confini orientali proprio per non rinunciare alla colonizzazione progressiva della Giudea e della Samaria, ovvero della Cisgiordania”. E che fosse questa la ragione, e non presunti motivi di sicurezza, lo dimostra  “il «disimpegno unilaterale» dalla Striscia di Gaza, lasciata in mano a un’organizzazione, Hamas, che della minaccia permanente alla sicurezza di Israele fa la sua ragione d’essere”, deciso da Ariel Sharon nel 2004. Queste osservazioni, ci ricorda l’articolista, sono “conventional wisdom” tra gli osservatori: un altro esempio sorprendente di come i fatti spariscano facilmente dalla coscienza pubblica anche quando sono tanto palesi. Ma ora la creeping annexation, l’annessione de facto è diventata de jure (uso questo termine in senso amaramente ironico). Infatti “il ministro della Difesa Yoav Gallant ha ceduto al ministro delle Finanze Bezalel Smotrich gran parte della giurisdizione dell’Amministrazione Civile della Cisgiordania, sottraendola al comando militare. Scrive Haaretz che in questo modo «Smotrich diventerà a tutti gli effetti il governatore della Cisgiordania, con poteri che gli consentiranno di controllare quasi tutti i settori, comprese la pianificazione, l’edilizia e le infrastrutture, che intende utilizzare per espandere gli insediamenti e bloccare ogni sviluppo palestinese»”. La sola domanda che mi sale alla gola : ma come fa la sinistra in Israele, del resto sostenuta dalle recentissime ammonizioni della Presidenza statunitense contro l’eccesso di espansione coloniale, a sostenere ancora possibile, in queste condizioni, la creazione di uno stato palestinese indipendente? Invece di prendere almeno in considerazione la sola soluzione che almeno sulla carta è ancora possibile – la rinuncia dello stato di Israele ad essere (esclusivamente) “ebraico”? E questo ci porta alla prossima, impellente, questione.

  1. La questione dell’apartheid

Tu scrivi:

“Paragonare questo stato di cose all’apartheid sudafricana è semplicemente un falso storico. In Sud Africa esistevano autobus per i neri e autobus per i bianchi, quartieri per i neri e quartieri per i bianchi, stati giuridici diversi, dov’è tutto questo in Israele?”

Ecco: non di autobus si tratta ma di case, di strade, di muri, di permessi, di mobilità – e senza nessunissimo dubbio anche di “stati giuridici diversi”: per i palestinesi dei territori, neanche a parlarne, ma anche per gli arabi israeliani come abbiamo visto (in nota i dati Amnesty International)[xiv]. Complessivamente per i non ebrei ci sono, com’è noto, quattro differenti tipi di carte di identità a seconda del luogo di residenza, e anche quelle degli arabi israeliani non equivalgono affatto a quelli degli ebrei israeliani, dato che i primi precisamente non godono dei “diritti di nazionalità” (e non ne godevano neppure prima che la distinzione fosse esplicitata).

Naturalmente però non li puoi paragonare alle minoranze di immigrati in Italia o in Francia, perché per definizione non sono immigrati ma nativi e figli di nativi, e perché là anche gli immigrati, una volta naturalizzati, diventano francesi o italiani, mentre gli arabi israeliani non possono evidentemente diventare ebrei. Credo sia interessante, avendo un po’ di tempo, consultare l’elenco delle 65 leggi discriminatorie sul sito di Adalah, questa organizzazione per i diritti umani e centro legale (Adalah in arabo ignifica « giustizia ») sulla cui base anche Amnesty International ha applicato allo Stato di Israele  la seguente definizione di « apartheid » :

“L’apartheid può essere considerata come un sistema di trattamenti discriminatori prolungati e crudeli da parte di un gruppo etnico su un altro per controllare questo secondo gruppo”. (https://www.amnesty.it/apartheid-israeliano-contro-i-palestinesi).[xv]

Tu scrivi:

“Sarebbe facile dire che, se non sono contenti, gli arabi israeliani possono tranquillamente andare a vivere in uno dei tanti Paesi arabi al mondo. Se non lo fanno è perché, per quanto vittime di pregiudizio, Israele garantisce loro standard di vita inimmaginabili altrove. E non voglio aprire il capitolo della discriminazione subita dai palestinesi nel mondo arabo, che, quasi ovunque, nega loro pure la cittadinanza. Quando non ha direttamente tentato di sterminarli in toto”.

Questo, un po’ di vertigine la fa venire. Io immagino di essere riuscita a conservare la mia casa avita nonostante minacce e traversie innumerevoli, poniamo, a Milano, requisita dai vincitori dell’ultima guerra.  Magari dovendoci ospitare tutte le generazioni successive che non possono accedere ad altre case, perché sono per legge destinate ai vincitori. Resterei un po’ basita se i miei vicini di casa, russi o canadesi, poniamo, mi suggerissero più o meno garbatamente che se non mi piace così posso andare altrove. E’ casa mia, era la mia città. Se riconosciamo la tragedia – non è più la mia città, e non potrebbe mai ridiventare la città soltanto mia  – quanto importante sarebbe che entrambi, io e i canadesi e i russi – la riconoscessimo ora “nostra”, di tutti.

Parlando fuor di metafora, questa sarebbe la soluzione con uno stato e due popoli, naturalmente con identici diritti di cittadinanza. Mi sembra di capire che proprio questa ipotesi la ritieni contraria al “diritto di autodeterminazione” che va garantito al popolo ebraico come a tutti gli altri popoli. Lasciamo pure da parte quell’imbarazzante “come” – che chiamerebbe una sola risposta: appunto. Anche ai palestinesi. No, restiamo al tuo ragionamento per analogia. Rinunciare alla qualifica di stato “ebraico” – ovviamente, con l’intero supplemento di diritti esclusivi che ne discende, altrimenti è solo una vuota questione di parole – significherebbe rinunciare all’identità ebraica. Sarebbe come, per analogia, la rinuncia all’identità cristiana da noi (e non importa se l’esempio non è calzantissimo per le secolarizzate metropoli europee, dove in generale almeno commercialmente non c’è veramente più la domenica):

“Aboliamo i nostri elementi identitari. Aboliamo il calendario gregoriano, aboliamo la domenica come giorno festivo, aboliamo il Natale, la Pasqua, comunioni, cresime. Solo così non erigeremo steccati identitari che provocano inevitabili discriminazioni verso chi cristiano non è. Sciogliamoci in un’identità priva di fondamento storico. Un’identità eterea, senza immagini e segni che la caratterizzino”.

Ma quale mai può essere il nesso fra un’identità culturale, per essenza così “materiale”, e uno status giuridico, per essenza “formale”, anche se cruciale per i diritti che porta con sé? Non è forse vero che più universali sono i diritti, e maggiore è il riconoscimento, appunto, delle diversità culturali e della loro dignità? In che modo uno stato multiculturale, o plurinazionale, che garantisse un solo tipo di cittadinanza a tutti a prescindere dall’identità nazionale o culturale, distruggerebbe queste identità, o una di esse? Questo è l’ultimo grande enigma che mi inviti ad affrontare.

  1. Stato e identità. A proposito del sionismo politico.

E con questo siamo tornati alla miccia che divampa e diventa fuoco di passione, come dicevo all’inizio, cioè a quella risposta che è talmente tipica da assurgere alla dignità di fenomeno: il fenomeno di un’identità ebraica che si sente minacciata non appena il discorso verta sul sionismo.

Ma cos’è il sionismo? In un precedente articolo  avevi sostenuto che

“per chiunque abbia voglia di studiare, è chiarissimo che il dibattito sionista è uno dei vertici della cultura ebraica ed europea degli ultimi due secoli, tutto incentrato sulla ricerca di un equilibrio fra principi universali e identità particolare chiaramente espresso nella Carta d’indipendenza del 1948”.

Qui certo non oserei neppure entrare in argomento, per difetto di competenze. Ma trovo illuminante una distinzione proposta da Chomsky fra il sionismo dell’epoca precedente alla fondazione dello Stato e quello successivo.

“Io stesso, a metà degli anni Quaranta, sono stato un leader studentesco sionista, per quanto fermamente contrario a uno Stato ebraico… allora il sionismo non era ancora una religione di Stato”

Chomsky cita la corrente di Ahad Ha’am, cui aderivano anche i suoi genitori, “alla ricerca di un epicentro culturale in cuila diaspora potesse finalmente convivere con i palestinesi”. E’ dal 1948, sostiene Chomsky, che

“il sionismo è diventato l’ideologia e anzi la religione dello Stato, esattamente come l’americanismo o l’eccezionalismo francese” [xvi].

Chiamiamo, con Chomsky, sionismo “politico” questa religione di Stato. Bene, niente di male ancora in una religione civile, no? Come mostrano gli esempi. Perché dovremmo obiettare a una religione civile, e non alle altre? Perché non dovremmo riconoscere Israele come Stato “ebraico”, così come riconosciamo la Francia come Stato “francese”? Immagino che questo tu intendessi con questa affermazione:

“E’ il concetto di Stato ebraico a non venir tollerato da una certa, sempre più esigua per fortuna, intellighenzia europea. Non è altro che il riproporsi dell’antico pregiudizio anti ebraico che chiede agli ebrei di non essere più tali e di adeguarsi a una fantomatica identità universale in cui tutti siamo uguali”.

Però, caro Davide, questa tesi, che in effetti giustificherebbe il sentire come minaccia dell’identità ebraica ogni critica del sionismo politico, gioca purtroppo sull’ambiguità del concetto di Stato “ebraico”, che abbiamo già sviscerato. Sarebbe pienamente giustificata se “ebraico” come qualifica di “Stato” non comportasse diseguaglianza di diritti fra due classi di cittadini israeliani. Ma la comporta invece, e l’ha sempre comportata, ben prima che il Nation-State Bill la esplicitasse formalmente nel 2018. In effetti la qualifica “ebraico”, riferita allo Stato, l’appartenenza al quale è fonte di diritti, distingue in linea di principio fra cittadinanza ebraica e non ebraica, come è impossibile avvenga tanto per gli Stati-nazione (Francia) quanto per gli Stati plurinazionali  (Svizzera).

“Non importa chi tu sia: se sei un cittadino francese, sei francese a tutti gli effetti. Se vivi in Israele e sei un cittadino israeliano, non per questo sei ebreo”: così riassume Chomsky. Che per questo conclude: “Il concetto di Stato ebraico è un’anomalia che non ha eguali nel mondo moderno”[xvii].

Questa analisi però getta un fiotto di luce anche sulle ragioni per rigettare la legittimità di questa anomalia, almeno se si condivide la costituzionalizzazione del concetto di pari dignità e diritti che definisce le democrazie moderne. Se la qualifica di “ebraico” non descrive soltanto le politiche di fatto dei governi israeliani, che in linea di principio possono sempre cambiare, ma proprio la natura dello Stato israeliano: perché mai dovremmo riconoscere legittimo uno Stato di questa natura? E soprattutto, perché dovrebbero riconoscerlo i palestinesi?

Ecco perché, caro Davide, tu getti in uno stato di totale schizofrenia chiunque, come me, non chiederebbe di meglio che accogliere, e di tutto cuore, l’appello che lanci in un precedente articolo, a proposito dell’attuale governo israeliano “fondato su una componente razzista, anti araba e suprematista”, di non cadere nella tentazione di vedere in questa componente la verità del sionismo, come, tu dici, l’intellighenzia antisionista europea ha già cominciato a fare :

“Non cedete a questa tentazione, supportate la parte liberale in Israele e nella diaspora come facciamo con le piazze iraniane e cinesi”. (https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/governo-netanyahu-antisemitismo-israele-i9o3jmvy)

Eccome vorrei farlo! Ma per farlo devo rigettare l’idea che sia nella natura dello Stato di Israele di essere uno stato ebraico. E affermare che questa qualifica identitaria etnica non debba riferirsi allo stato, ma solo alle pessime politiche dei suoi governi, e di questo in particolare! Altrimenti come potrei sperare in un altro governo, che modifichi queste politiche fino a svuotare di ogni senso normativo il concetto di Stato “ebraico”, e a fare di Israele, finalmente, uno stato che riconosce e protegge gli eguali diritti di tutti i suoi cittadini?

Ed ecco la mia crisi schizofrenica : perché tu invece stai predicando proprio la natura identitaria dello Stato di Israele quando affermi che obiettare al concetto di Stato ebraico ripropone “l’antico pregiudizio anti ebraico che chiede agli ebrei di non essere più tali e di adeguarsi a una fantomatica identità universale…”. Cioè, obietta all’identità ebraica come tale. E’ antisemita.

Tutto questo non mi chiarisce il fenomeno dell’identità ebraica che si sente minacciata dalla semplice contestazione della legittimità di uno stato etnico. Questo fenomeno resta per me un mistero. Però forse ci aiuta a fare un passo avanti sul concetto di sionismo politico.

Il sionismo politico non è solo una religione civile. E’ una ben strutturata diffida contro ogni ipotesi di trasformazione possibile dello stato di Israele in un senso non identitario, effettivamente binazionale, o federale. Perché ogni ipotesi del genere equivarrebbe a mettere in questione lo stato ebraico, e “dunque” l’ebraismo. Quel “dunque”, che a me pare un non sequitur, naviga sul grande equivoco che ti ringrazio di avermi stimolato a chiarire.

  1. Un orizzonte di speranza?

Il tuo argomento mi sembra una classica replica di questa diffida. In effetti, come notavo all’inizio, quando tu equipari la critica al sionismo all’antisemitismo, sembri condividere la presa di posizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che questa equiparazione ha proposto nel 2016. Indagando la cosa più da vicino, mi accorgo di quanta ragione tu abbia nel descrivere come “sempre più esigua” l’intellighenzia europea che rigetta questa equiparazione!

Perché l’indicazione dell’IHRA è stata adottata da 39 stati! Inclusa l’Italia (Consiglio dei ministri 17 gennaio 2020), e perfino l’Ue (non l’ONU). Come è stata fatta propria da molte associazioni, imprese, centri di ricerca, istituti accademici. Il Parlamento europeo con risoluzione del 1 giugno 2017 ha invitato gli Stati membri a adottare la definizione (pur non giuridicamente vincolante), allo scopo di facilitare la repressione giudiziaria di pratiche ed espressioni antisemite[xviii]. C’è da restare esterrefatti. Istituzioni nate per tutelare la giustizia globale e il diritto sovranazionale che si mobilitano per blindare un’ideologia politica nazionalistica, riconoscibilmente responsabile della sofferenza di un popolo e della perpetua insicurezza di intere società – mediante il ricatto dell’antisemitismo imputato a chi la critica. Ma cosa è successo all’umanità contemporanea?

Il valore operazionale del documento si riduce a una serie di esempi. Sarebbero antisemiti, ad esempio, le teorie sul sionismo come parte integrante dello sviluppo imperialistico e colonialista europeo, o il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), più in generale quella tendenza  che Ilan Pappè nel libro del 2014 descrive come relativamente nuova, che si orienta precisamente sulla descrizione dell’attuale Israele come uno stato di apartheid: modificabile, quindi, come è avvenuto in Sudafrica (ed è stato lo stesso Nelson Mandela a sostenere questa nuova prospettiva anche per la Palestina).

“Un regime può mutare in modo drammatico e drastico, ma il cambiamento può anche avvenire gradualmente e senza spargimenti di sangue…Per l’ortodossia tale cambiamento risiede nel processo di pace, quasi che Israele e Palestina fossero stati in passato due stati indipendenti e Israele avesse poi invaso parte della Palestina, da cui ora dovesse ritirarsi per il bene della pace. Il nuovo approccio propone invece…la sostituzione dell’attuale regime con una democrazia aperta a tutti, mettendo quindi in discussione non solo le politiche di Israele ma anche la sua ideologia”[xix]

Lungi dall’essere, come da una comunicazione informale tu sembri credere, l’eco immobile della propaganda della sinistra europea anni ’70, questo movimento e questa tendenza costituiscono secondo Ilan Pappè una svolta rispetto all’ “ortodossia pacifista” che cercava nei negoziati per la soluzione a due stati la fine del conflitto. Dopo il fallimento e la sistematica violazione degli accordi di Oslo si è affermata una più profonda consapevolezza di quanta parte di verità sulla Pulizia etnica della Palestina – titolo famoso del libro di Ilan Pappè uscito solo nel 2006 –  fosse stata letteralmente sepolta sotto il silenzio del mondo.

Questo indicibile è forse ancora la vera dolentissima radice del fuoco di passione che divampa e oppone un’accusa di antisemitismo contro chiunque rompa il silenzio, e levi la rimozione. Eppure proprio quella dolentissima radice andrebbe curata, e lenito il dolore con la luce del giorno, del presente, del possibile – del perdono, forse. Purché davvero curata, e non si può se non levando la rimozione: una cura che certo quando comincia fa male. Mi sembra questa la sola – ma grande – credibilità del nuovo approccio: che in qualche senso, come avvenne dove avvenne il miracolo della riconciliazione etnica, la via della giustizia si cerchi attraverso la cura della malattia invece che la violenta soppressione del male, e non escluda ma anzi richieda un lento reciproco darsi salute – la ricerca di un balsamo per le reciproche ferite. Lo chiamano “principio di riparazione”. Anche così si respinge il sospetto che l’ipotesi di un unico stato neghi a Israele il diritto di esistere.

Ma è impossibile che una tale grande speranza si instauri prima che il mondo riconosca tutta la falsità del principio di parità su cui si era basato il fallito progetto di pace : dividere la colpa fra le due “parti in conflitto” e trattarle come egualmente responsabili. Credo sia vero che “partizione”, sia nel 1947 che nel 1993, abbia significato, in questa universale sepoltura del vero contrabbandata alla coscienza europea e americana come obiettività,  una “complicità internazionale nella devastazione, non una proposta di pace”. Credo sia vero che la partizione “abbia significato in pratica autorizzare l’imposizione di uno stato ebraico razzista sul 56 percento della Palestina nel primo caso, e su oltre l’80 percento nel secondo caso”[xx].

Credo sia vero, infine, che prendere per buona l’interpretazione mainstream di quella equiparazione e di quella partizione – come sembra si continui a fare se è vero che 39 paesi e Ue hanno adottato l’equazione dell’IHRA fra antisionismo e antisemitismo – corrompa ogni sentimento umano e umanitario nel cosiddetto Occidente: azzoppi la ragione e uccida la pietà, e non solo per le vittime di una parte, ma di entrambe. Ecco cosa è successo all’umanità contemporanea.

Non è certo il solo caso di verità universalmente, globalmente ignorata: ma un caso paradigmatico per le immense implicazioni morali che la Shoà poneva all’umanità posteriore. Che la Shoà potesse servire – forse non per volontà di qualcuno, ma per acquiescenza di molti – a nascondere altro male, è stata la peggior sventura che potesse abbattersi sull’umanità europea, la peggior rovina dei sui ideali.  Sventura e rovina non incolpevoli.

Ogni mente umana onesta l’ha sentito: l’esatta conoscenza e il pieno riconoscimento dei torti e delle ragioni, di tutti i torti e tutte le ragioni, è già giustizia (e il resto è secondario, punizione e risarcimento non entrano neppure nel senso della parola “rivelazione”, e negli affreschi del Giudizio Universale Inferno e Paradiso non sono che la scenografia della visione del vero, “che tutti possano vedere”). E’  Simone Weil che lo dice: “la giustizia è nel suo nucleo è: verità”. Ma io l’ho ritrovato scritto, questo pensiero, sul muro della piccola corte interna di un edificio fra i più antichi di Beit Sahour, un borgo vicinissimo a Betlemme: “Una mezza verità è la più vile di tutte le menzogne”.

Ecco perché, nello spirito di questo nuovo approccio, che prolunga lo spirito di condivisione nella cognizione del dolore che fu propria delle Donne in nero, Donne di entrambe le parti, vorrei concludere questa riflessione evocando una risposta particolarmente netta al documento dell’IHRA. Una risposta che sale da Gerusalemme, come un coro di voci di chierici – vale a dire di dotti, esperti ricercatori e docenti con tutte le disciplie umanistiche che alimentano la riflessione sulla Shoà, israeliani e no, dotati di opinioni politiche anche molto diverse, compreso sulla questione Israele-Palestina. E spezza in modo limpido, icastico e definitivo il nesso postulato fra anti-sionismo e antisemitismo.

Si tratta della Jerusalem Declaration on Antisemitism (JDA:  https://jerusalemdeclaration.org/), che nega esplicitamente carattere antisemitico non solo alle prese di posizione a sostegno delle richieste palestinesi di giustizia e alle rivendicazioni di pieno godimento dei diritti umani, civili, politici e nazionali riconosciute dalle istituzioni di diritto internazionale, ma anche alle critiche del sionismo come una forma di nazionalismo, alle critiche anche radicali alle politiche di Israele, comprese quelle che denunciano il loro carattere discriminatorio. Infine, menzionano esplicitamente  i movimenti BDS e scagionano dall’accusa di antisemitismo tanto la lettura dello stato di Israele come regime di apartheid quanto ogni soluzione di radicale riforma dello stato stesso, anche nel senso binazionale, federale, unitario: tutto questo è esplicitamente dichiarati non contrario al diritto di esistere di Israele.

Non è una grande speranza, che una simile Dichiarazione esista, e provenga dai quattro angoli del globo e da molte delle sue più prestigiose università, e si levi unanime da Gerusalemme?

 

[i] Scrivo, del resto, all’inizio di questo drammatico 2023, che ha visto più morti in Israele e in Palestina che negli anni precedenti (60 palestinesi in 53 giorni, una decina di coloni israeliani in due attentati), mentre si sta procedendo alla demolizione di 900 strutture (case, scuole, cliniche, musee e cisterne) e a 1500 trasferimenti forzati nella zona di Masafer Yatta, Cisgiordania, Area C. In queste pagine tuttavia non si parlerà di Gaza: pagine estremamente utili nella loro sobrietà descrittiva si trivano in Chomsky 2014, Incubo a Gaza, in: Noam Chomsky, Ilan Pappé 2014, Palestina e Israele: che fare?Roma: Fazi editore, pp. 169-179.

[ii] E. Said 1992. La questione palestinese. Prefazione di R. Fisk. Milano: Il Saggiatore, p. 96.

[iii] Ibid., p. 59.

[iv] Ilan Pappè 2008, La pulizia etnica della Palestina, Roma: Fazi editore.

[v] Fu lui a riprendere la famosa formulazione onirica che per primo avanzò Israel Zangwill alla fine del XIX secolo (E. Said 1992. La questione palestinese, cit. p.61; Weizmann, 28 marzo 1914, in Barnet Litvinoff, (a cura di), The Letters and Papers of Chaim Weizmann, Vol. I, Serie B, Gerusalemme, Israel University Press, 1983, pp.115–6.

[vi] Ibid., p. 101.

[vii] Ibid., p.102.

[viii] Come è noto, Theodor Herzl (autore di Der Judenstaat, 1896) e fondatore del Movimento Sionista (1897) sostenne il diritto degli ebrei di fondare uno stato ebraico, ove possibile in Palestina (ma non necessariamente, tanto che una prima ipotesi fu l’Uganda).

[ix] Ascoltiamo su questo punto ancora Edward Said:“Il diritto umano e politico di ciascuno di tornare nel proprio luogo di origine e di residenza è riconosciuto ovunque, ma non in Israle. Il ritorno dei palestinesi è stato impedito prima con una serie di leggi in base alle quali le terre dei proprietari arabi venivano dichiarate ‘abbandonate’e quindi passibili di esproprio da parte del Jewish National Fund (che legalmente possiede la terra in Israele per tutto il popolo ebraico, una formula che non trova riscontro in nessun altro stato o entità) e, in secondo luogo, con la  ‘Legge del ritorno’, grazie alla quale qualunque ebreo (ovunque nato) ha diritto di chiedere immediatamente la residenza e la cittadinanza israeliana”. E. Said 1992. La questione palestinese, cit., pp. 98-99.

[x] E. Said 1992, cit., p. 152

[xi] “Finora circa il 92 percento dei terreni della Palestina è stato gestito dal Keren Kayemeth, il Fondo Nazionale Ebraico, un ente parastatale incaricato di operare esclusivamente a vantaggio delle ‘persone di razza, religione e origine ebraica’ (le parole usate sono proprio queste), il che significa che tutto il ginepraio di disposizioni, strutture amministrative e burocrazia attribuiva in pratica il controllo di circa il 90 percento della terra agli ebrei, liberandola dagli arabi. Di recente, si è aperta una falla in quel sistema: circa quindici anni fa, la Corte suprema ha invalidato questo principio con una decisione su uno specifico insediamento….purtroppo non mi risulta che quella sentenza abbia avuto ricadute positive su altre controversie simili”. Noam Chomsky, Ilan Pappé 2014, Palestina e Israele: che fare?, cit., pp. 112-113)

[xii] Morris, B. 1987The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947–1949. Cambridge: Cambridge University Press.

 

[xiii] A quelle citate si possono aggiungere: la Law for Requisitioning of Property in Time of Emergency del 1949, la Land Acquisition Law del 1953 e la Rescription Law del 1958 (E. Said 1992, La questione palestinese, cit., p. 153.

[xiv] l rapporto di Amnesty International 2022 documenta “come i palestinesi non possano effettivamente stipulare contratti di locazione sull’80 per cento dei terreni di stato israeliani a seguito di requisizioni di terreni e di una serie di leggi discriminatorie sull’assegnazione delle terre, di piani edilizi e di regolamenti urbanistici locali.

La situazione della regione del Negev/Naqab, nel sud di Israele, è un efficace esempio di come le politiche e i piani edilizi israeliani escludano intenzionalmente i palestinesi. Dal 1948 le autorità israeliane hanno adottato svariate politiche per “ebraizzare” la regione, ad esempio designando ampie zone come riserve naturali o poligoni di tiro e stabilendo obiettivi di crescita della popolazione ebraica. Ciò ha avuto conseguenze devastanti per le decine di migliaia di beduini palestinesi che vivono nella regione.” (https://www.amnesty.it/apartheid-israeliano-contro-i-palestinesi-un-crudele-sistema-di-dominazione-e-un-crimine-contro-lumanita/#:~:text=In%20Cisgiordania%20e%20a%20Gaza%2C%20dove,vivere%20e%20lavorare%20nei%20territori.)

[xv] Sulla questione se Israele sia uno Stato di apartheid v. questo video a cura di Amnesty International: (28) Perché in Israele esiste un sistema di apartheid contro la popolazione palestinese – YouTube.

[xvi] Noam Chomsky, Ilan Pappé 2014, Palestina e Israele: che fare?, cit.,p. 62

[xvii] Ibid., p. 70.

[xviii] In effetti la dichiarazione era stata messa a punto a scopo operativo, come per agevolare il compito di raccolta statistica di episodi di antisemitismo. Kenneth Stern, dell’America Jewish Commettee, notava quanto vaga può essere la definizione di antisemitismo, quando è semplicemente associata a una certa percezione degli ebrei, intesa come odio, azioni ostili etc. Desumo queste notizie dal D Dibattito recentemente organizzato dalla Domus Mazziniana di Pisa ((37) Antisemitismo e antisionismo: quale relazione? – YouTube)

[xix] Noam Chomsky, Ilan Pappé 2014, Palestina e Israele: che fare?, cit., p. 29.

[xx] Ibid., pp. 46-47.

5 commenti a La radice dolente del fuoco che divampa. Risposta a Davide Assael e a molti altri amici

  1. giovedì, 23 Febbraio, 2023 at 09:39

    Grazie, Roberta De Monticelli, “dire la verità ” . Grazie per essere piena di passione e di sapere. Grazie per essere dalla parte “degli ultimi” . Grazie per essere una filosofa che sta sulla terra. Insomma leggere le cose che scrivi, mi hanno commossa e rassicurata. Si sono dalla parte giusta per la giustizia e la verità, e sono certi che tante e tanti proveranno come me, il brivido della conoscenza , che non è fine a se stessa, conoscere per cambiare.

  2. Monica
    giovedì, 23 Febbraio, 2023 at 10:31

    Cara Roberta, sempre precisa ed esaustiva nelle tue argomentazioni. Tuttavia ci vuole sensibilità e onestà intellettuale perché certi temi vengano compresi.

  3. Daniele
    giovedì, 23 Febbraio, 2023 at 12:51

    Complimenti per la chiarezza e la completezza dell’analisi

  4. patrizia
    giovedì, 23 Febbraio, 2023 at 22:35

    grazie, Roberta De Monticelli. Lettura lucida e drammaticamente necessaria al fine di un cambiamento innanzitutto di prospettiva sul dato di realtà e, in seguito, di azioni conseguenti. Grazie!

  5. Irene Dones
    venerdì, 24 Febbraio, 2023 at 06:59

    Grazie Roberta. Condivido in pieno tutte le argomentazioni. Ciò che mi ha aiutato a comprendere è stato anche il viaggio in Palestina e il fatto di poter vedere con i propri occhi.

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