Mentre notizie sempre più drammatiche si succedono sulla spirale di violenza innescata dal massacro di Jenin (dieci persone uccise dalle forze di difesa israeliane in un raid improvviso, vedi qui qualche traccia dell’estrema violenza usata contro le abitazioni civili https://www.assopacepalestina.org/2023/01/27/video-i-risultati-delloperazione-israeliana-di-sicurezza-nel-campo-profughi-di-jenin/), con il massacro di Gerusalemme Est (sette morti per mano di un ventunenne palestinese a sua volta ucciso) e i ferimenti di oggi (https://www.editorialedomani.it/politica/mondo/nuovo-attacco-a-gerusalemme-est-due-feriti-42-arresti-per-la-strage-della-sinagoga-apeyvjqm ) sempre a Gerusalemme Est, mi sento quasi costretta a interrompere i racconti e le riflessioni che avevo intenzione di far seguire a un mio recente viaggio di conoscenza in Palestina (https://www.assopacepalestina.org/2022/08/17/prossimo-viaggio-in-palestina-israele/). Dove il nostro gruppo aveva toccato con mano, da un lato, cosa sia la politica dell’occupazione israeliana e della negazione dei più elementari diritti umani non solo a Gaza (che il nostro viaggio non ha toccato) ma in quel che resta (ben poco) del frammentato territorio occupato di Cisgiordania (West Bank), dove la politica degli insediamenti e tutto quello che essa comporta (muri, rapina di terre, di acqua, di elettricità, libertà di movimento totalmente conculcata, crudeltà estrema dei militari israeliani, totale parzialità a favore dei coloni anche quando gli insediamenti, illegali secondo il diritto internazionale, lo sono anche in termini israeliani). Ma dall’altro avevamo conosciuto persone e associazioni straordinarie, che da decenni conducono battaglie di resistenza nonviolenta: e di tutto questo no, non rinuncerò a parlare, come della letteratura crescente sul cambio di paradigma necessario a leggere il “che fare?” nella tragedia della Palestina nei termini che già Nelson Mandela aveva previsto e auspicato, quando scrisse nel 1997, in occasione della Giornata Internazionale della Solidarietà con il popolo palestinese:
“Sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei Palestinesi”.
Dove “liberazione” vorrebbe dire esattamente ciò che è avvenuto in Sudafrica, con la fine dell’apartheid e l’equiparazione dei diritti almeno formali dei cittadini della parte oppressa a quelli dei cittadini della parte opprimente. Possibile? Impossibile? Occorrerebbe comunque una presa di coscienza dell’illusorietà della soluzione “Due stati” (se non altro per mancanza di materia territoriale, ormai, per il secondo) e del configurarsi di questa situazione, dopo oltre settant’anni che non hanno visto che drammatici peggioramente in barba a tutte le disposizioni e risoluzioni internazionali, come una vera e propria situazione di violenza coloniale, preparata da una pulizia etnica (che provocò, e non seguì la guerra arabo-israeliana: Cf. Ilan Pappè 2008, La pulizia etnica della palestina, Fazi editore, pp. 58-59). Consiglio a tutti la lettura, almeno, del dibattito fra Noam Chomsky e Ilan Pappè 2015, a cura di Frank Barat, trad. it. di Michele Zurlo, Palestina e Israele: che fare?, Fazi editore.
Ma appunto, nel mezzo di questa recrudescenza occorre fermarsi, e segnare almeno il perimetro possibile di una discussione non sterile. Le dimostrazioni spettacolari, a Tel Aviv e altre città israeliane, contro il disegno dell’attuale governo di ultradestra di annientare l’autonomia della Corte suprema, al contempo sembrano dimostrare l’esistenza di una democrazia in Israele e il reale pericolo di una sua soppressione (insieme con l’abiolizione della formale divisione dei poteri). E hanno suscitato grandi speranze.
E speriamo che queste dimostrazioni non siano rintuzzate dalla spirale di violenza montante. E tuttavia, la reale questione che avevo provato a porre in un articolo pubblicato su Domani il 22 gennaio scorso, La questione palestinese e la democrazia israeliana (scaricalo qui) è se possa definirsi in senso ordinario “democrazia” quella di uno stato che in primo luogo non riconosce affatto appartenenza a tutti i suoi cittadini, perché è istituzionalmente e costituzionalmente lo Stato ebraico di Israele; in secondo luogo, se sia una democrazia un regime in cui cinque milioni di persone (i palestinesi) vivono senza diritti (con l’approvazione della corte suprema, peraltro).
David Assael – che il mio articolo già citava dissentendone su questo punto, ha risposto oggi in modo garbatissimo sul Domani (28 gennaio), con un articolo Israele – Palestina: Le domande utili e le risposte scomode (scaricalo qui). Dove fra l’altro mi risponde che “La narrazione dell’occupazione come progetto imperialista è completamente fuorviante”. Ora, io non so se definirei l’occupazione “progetto imperialista” – mi basta che sia riconoscibile come un’occupazione che occupa, e sempre più crudelmente, sempre più territorio. E mi chiedo se in questa erronea narrazione, caro Davide, tu includa la relazione della relatrice speciale all’ONU Francesca Albanese (A.77.356_210922.pdf (un.org)), recentemente fatta oggetto di veementi accuse di antuisemitismo.
Ma questa dell’antisemtismo è un’altra faccenda. E ora il cuore si stringe al punto che non c’è più fiato per continuare a discutere. Niente di peggio poteva succedere, di quello che è successo fra l’altro ieri e oggi.
Non vedo indicazioni sull’alternativa politica, oltre l’indicazione che la soluzione “due popoli due stati” è impraticabile, oltre che, a mio avviso, teoricamente e politicamente errata: dal conflitto tra due comunità si passerebbe al conflitto tra due stati, cioè guerra permanente.
La federazione istaelo-palestinese è l’alternativa, anche se appare utopica. Come lo era la federazione europea nel 1941. Eppure quell’indicazione del Manifesto di Ventotene cambiò la storia d’Europa.
Concordo in pieno che la soluzione “due popoli due stati” è impraticabile, oltre che teoricamente e politicamente errata (ma Davide Assael non sarebbe d’accordo, anche se non ho potuto capire dalle sue risposte come creda possibile uno stato totalmente privo di continuità territoriale, o se creda possibile una restituzione delle terre inglobate all’interno del tortuoso muro, e che ormai costituiscono più di metà della Cisgiordania, “colonizzta” con insediamenti mostruosi da centinaia di migliaia di coloni). Ed è anche vero che da decenni si va delineando una visione più esatta della natura di questa occupazione, che non è certamente la conquista militare di uno stato da parte di un altro. Infatti non c’era uno “stato” palestinese, ma un paese, la Palestina, che faceva parte dell’Impero Ottomano e poi, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, del Protettorato britannico. Tuttavia la Palestina come paese e come popolo esisteva senza dubbio fino al ’48, e bisognerebbe prendere atto del fatto che lo Stato di Israele deve la sua esistenza alla soppressione della Palestina storica (l’espressione invalsa, guerra per l’indipendenza, è in questo senso fuorviante: indipendenza da chi? I britannici se ne erano andati, e la Guerra Arabo-Israeliana è una conseguenza, non una causa, della progressiva espulsione dei Palestinesi dai loro villaggi, a partire dalla Nakba). Imputare alle rappresentanze palestinesi la colpa di non riconoscere lo Stato di Israele appena proclamato sulla base di questa occupazione e pulizia etnica non è quindi veramente onesto – mi pare. Ciò detto, la soluzione dello Stato binazionale è certamente auspicabile: ma naturalmente sarebbe impossibile senza una completa decostruzione dello Stato EBRAICO di Israele, che configura in tutta la sua legislazione una sistematica diseguaglianza di diritti fra ebrei e “arabi”, inclusi gli “arabi isreaeliani”, residenti entro i confini di Israele ma con diritti estremamente limitati. Si tratterebbe insomma, non certo di passare da due stati a uno stato federale, ma di demolire dapprima lo stato di apartheid vigente, come successe in Sudafrica, ed è questo il modello, necessariamente anti-sionista (o quanto meno, contrario al sionismo POLITICO, per usare una distinzione prooposta da Chomsky), e rendere possibile uno stato senza muri, che riconosca pari diritti a tutti i suoi cittadini, a prescindere da etnia, lingua e religione. Il problema però è che nel 2018 la Corte suprema – quel bastione di democrazia che l’attuale governo sta cercando di assoggettare – ha validato la legge sullo stato-nazione del popolo ebraico (lo stato EBRAICO di Israele), che nega l’autodeterminazione a chiunque non sia ebreo in quel paese (e purtroppo “ebrei” non si può diventare, come ci si può naturalizzare italiani). La Corte suprema ha cioè inscritto letteralmente l’apartheid nella legge fondamentale dello stato. Quanti che oggi giustamente si oppongono alla coalizione di estrema destra sono pronti a rinunciare a questo tipo di stato? E i palestinesi potranno sostenere la pace senza che sia ripristinata almeno in parte la giustizia, cioè – nella loro prospettiva- il “RITORNO” alle loro terre e alle loro case?