Ovvero, migranti alla ricerca di un’idea di paese civile
Questo articolo uscito su Domani (17 novembre 2022) era stato scritto nell’interludio fra una giornata di speranza e di pietà, e il tempo perdurante della distruzione, che in Italia prende la forma e il peso di una lastra tombale: il cinismo. Endemico, e oggi totalizzante. Non spetta agli autori decidere i titoli dei loro pezzi sui giornali – ma almeno qui il titolo originale vorrei conservarlo. Certo, anche quello che gli hanno dato ha un perché: ma solo come sottotitolo. Scaricalo qui, col suo riassunto in tre righe.
Sembra già lontana la grande manifestazione per la pace – quella del 5 novembre a Roma, intendo, quella che per un giorno almeno ci ha allargato il respiro all’orizzonte del mondo. Roma piena di vento e bandiere, con tutti i colori e tutte le canzoni di questa festa della speranza e della pietà. Ignara per un giorno almeno dei leader politici nazionali, ancora tutti rattrappiti dentro la corta spanna delle loro tattiche, perdenti o vincenti: erano lì magari, ma solo i giornalisti gli correvano dietro. Perché era questa la differenza fra la piazza di Roma e quella di Milano, tutta imbrigliata nei calcoli di alcuni professionisti dell’amministrazione di sé stessi più che del potere politico, mediocri al punto da usare la nausea delle stragi e il dissesto del mondo come palcoscenico di autopresentazione a fini elettorali locali. Mediocrità morale, sostanza di meschinità politica. E’ possibile che la violenza dei tempi abbia avvelenato anche le intelligenze migliori, inducendole a confondere l’idealità con l’ideologia? Questa confusione si chiama cinismo. C’è chi– forse in un gesto di disperazione – arriva ad auspicare il riciclo in campo progressista di chi non esitò a usare menzogna e calunnia a fini elettorali, e confuse il liberalismo conservatore con l’interesse privato in atto pubblico. Ma che opinione ha questa gente – quei politici, intendo – dei concittadini cui chiedono fiducia? Che opinione ne hanno quei giornalisti che seguono minuziosamente i loro calcoli e amplificano i loro ragionamenti da uccellini, facendo di tutto per scorporare la politica non dirò dall’etica, ma dalla sostanza delle angosce e delle speranze umane, dall’intelligenza della storia, dall’immaginazione del futuro, dal fuoco stesso che l’amore del mondo, della bellezza e degli oppressi accendono nella ragione umana? Ma siete sicuri che “la gente” abbia bisogno di meno idealità e più grasso per la pancia, e che non sia vero proprio il contrario? Disfare quel partito, rifare quell’altro, cambiare i nomi o gli uomini: ma è questo il tema, quando la posta in gioco è o rinnovarsi nella mente e nell’anima, o perire, insieme con la civiltà che dopo la seconda guerra mondiale, in Europa, avevamo costruito – sempre inadeguata rispetto ai suoi ideali, e tuttavia migliore del mondo di prima e – purtroppo – di quello che sembra venire?
In piazza le parole dei poeti
Ecco: quel giorno a Roma – e fosse pure solo quel giorno – ha bucato questa angustia con una fame di idee più nobili di cosa sia l’umano, uno sgomento plenario di fronte all’orrore del presente, uno sguardo che riusciva ad abbracciare le vittime della violenza e dell’ingiustizia ben oltre confini europei, dalle donne iraniane alle prigioni a cielo aperto in Palestina, dalla Siria alla Libia, dai curdi agli afgani ai deserti africani alle vittime di tutte le guerre che stanno infuriando sotto lo sguardo impotente delle Nazioni Unite. Le parole stesse parevano nuove. Le più belle, forse, rubate ai poeti, come quelle scritte sui brevi striscioni di Assopace Palestina, le parole che Christa Wolf mette in bocca a Cilla, contro la scelta tragica delle amazzoni e di Pentesilea: “Fra uccidere e morire c’è una terza via: vivere”. Che non vuol dire affatto “sopravvivere”: è proprio un bisogno di rinascere al mondo vero benché sconvolto, di vivere all’altezza del suo pianto e non nelle bassure dei decreti sui contanti e la libertà di mazzetta, o della proroga del superbonus fiscale sull’edilizia delle villette. Perfino in piazza San Giovanni, dove non riuscivano ad affluire tutti centomila, le parole parevano nuove nella bocca degli oratori, che non erano capipopolo ma preti, operatori di pace, sindacalisti. Là sul palco Landini lamenta il suono ancora troppo materiale, economico della parola “solidarietà”, e ne propone una più intima e impegnativa: “fraternità”. Il più bel discorso è il suo, del resto, che intuisce l’orizzonte e il respiro storico di questa piazza (altro che “campo largo”!) e chiude con l’auspicio che Roma chiami tutte le altre capitali d’Europa a riempire di umanità le piazze. Poco prima era stata letta la lettera del cardinale Zuppi, che rivolgendosi non al popolo, ma a ciascun singolo manifestante, prima chiedeva rispettosamente il permesso di dargli del tu, e alla fine i concetti della “Fratelli tutti” li trasmetteva a ciascuno con le parole di Blowin’in the Wind (tanti di noi le ritrovano incise nei luoghi più remoti e proustiani della memoria: How many ears must one man have/ Before he can hear people cry?/Yes, and how many deaths will it take ’til he knows/ That too many people have died?). In italiano avevano un suono strano, nuovissimo. Come se questa lingua avesse dimenticato fin l’abc dell’umano, i suoi primi perché.
Idealità e menzogna: le radici del nostro cinismo
Già: questa lingua “di poeti di artisti di eroi/di santi di pensatori di scienziati/di navigatori…” –come recita – restiamo a Roma – l’iscrizione scolpita sulle quattro facciate del Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, sopra le sei file di nove archi romani che danno al bianco parallelepipedo la sua levità sognante o spettrale, secondo il cielo e il vento. Avrebbe dovuto raccogliere i prodotti delle diverse attività del genio italico, simboleggiate dalle ventotto statue che popolano il pianterreno, in occasione dell’Esposizione Universale di Roma, assegnata per il 1942 all’Italia – che era da poco diventata impero coloniale. L’Esposizione naturalmente non ebbe luogo a causa della guerra: del resto nel’35 l’Italia aveva subito le sanzioni della Società delle Nazioni – a proposito di umanità e talenti – per i metodi inumani usati nella guerra d’Etiopia. Mussolini fece fatica a trovare l’acciaio necessario per armare l’anima di cemento di questo sogno ricoperto di bianco travertino. Ma l’idea di civiltà è una cosa seria, e forse la luce che ne emana ispirò i suoi ideatori, scelti fra molti candidati da Marcello Piacentini: perché questo palazzo, che sorge su un cumulo di sanguinose menzogne, al centro di un’area che con sprezzo del ridicolo fu chiamata Quadrato della Concordia, resta pur sempre un monumento al sogno della ragione, di goyana memoria. Un sogno più che un sonno, un sogno di ordinato e insieme poetico splendore, privo di ogni protervia, scandito dolcemente dal ritmo di queste arcate la cui levità contrasta con gli intenti apologetici, come una sorridente reminiscenza di quattrocentesche Città Ideali. Ma sempre un sogno, destinato a morire nelle tristi geometrie degli anni Trenta che lo circondano, coi loro colonnati di portici quadri e la burbanza dei marmi bianchi che albergano la sostanza finanziaria e burocratica dello stato, INA, INPS, coi nomi scolpiti per esteso nei frontoni. E’ questo misto di freddezza e desolazione, sublimità e vuotezza – ma anche, appunto, spettrale levità – che la mente italiana intende, probabilmente, per “metafisica”, e De Chirico aiuta. Fellini stesso parlava dell’EUR come uno dei suoi quartieri preferiti: una scenografia raggelata e astratta, la cosa più simile a Cinecittà quando le produzioni sono dismesse. Ha radici profonde, lo scetticismo che circola come le correnti d’aria fra le quinte della nostra teatralità.
I palazzi della civiltà
Non è per mescolare il taccuino del turista alla perorazione sulla pace che evoco tutto questo, ma perché dobbiamo indagarle, queste radici profonde, capire quale maledizione da sempre toglie ogni serietà, in Italia, alla vita civile, e riduce l’idea di civiltà in burletta. La civiltà può pensarsi come una Città i cui palazzi bianchi non sono retti da anime di cemento armato, ma da figure dell’idealità: valori, possibilmente universali. Roma – la Roma di tutti i giorni – all’idealità ha rinunciato, e affoga nello sterco dei maiali, nel pattume dei ratti. Si inaugurava in questi mesi appunto all’EUR, che un pietoso oblio ha reso abbreviazione di Europa e non acronimo di Esposizione Universale di Roma, il Muciv, ossia il Museo delle Civiltà – al plurale – che ristruttura il patrimonio della memoria antropologica ed etnica secondo le perplesse domande del pensiero post-coloniale. A proposito di violenza e sogni imperiali. E ben venga: ciò non impedisce al Palazzo della Civiltà Italiana, che di questo museo dovrebbe essere il centro, di restare inaccessibile, circondato da un recinto più squallido di quello di una discarica. Per forza: ne dispone la Maison Fendi, e lo apre solo in occasione dei suoi show d’arte e moda, senza sognarsi di mantenere il patto “culturale” col governo italiano: e nella più generale indifferenza. Lì di fianco c’è un palazzetto scalcinato che si chiama ancora, in lettere latine, “Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma”, e di fronte un mercatino rionale dell’usato.
Un popolo di trasmigratori
Pochi giorni sono passati da quella straordinaria giornata di Roma, per un attimo all’avanguardia della cognizione del dolore del mondo, e del rifiuto di quella “parata delle sovranità” (copyright Gorbacëv) che sta forse finendo di affossare l’Unione europea e le Nazioni Unite. E l’attuale sovranismo italiano, alle prese con la questione dei migranti, nel suo impari duello con quelli tedesco e francese, ha fatto la sua pulcinellata degna di un chapliniano Napoloni, peggio di Capitan Fracassa (nessuno scende – scendono solo i fragili – scendono tutti, vive la France). La memoria corre a quella scritta sopra le arcate del sogno, che rovescia, più trombona e dannunziana che fascista, la gerarchia platonica delle vite: prima i poeti e i guerrieri, e poi tutti gli altri. Beffardo, un guizzo da maschera dell’arte colpisce la mente: quell’ultima parola funambolica che riesce ad esprimere una verità in vesti di menzogna. Un popolo di Poeti e di Eroi, eccetera eccetera…. e di Trasmigratori. Vulgo, migranti. Come eravamo. Come forse siamo rimasti: migranti disperati, in cerca di un’idea di paese civile.
Un tempo eravano maestri d’intuizione, capaci di scorgere nel flusso magmatico della storia le invarianze essenziali dell’essere. Un tempo eravano una civiltà animata dall’idealità, come vocazione e orizzonte di senso. Ne abbiamo lasciato traccia nell’arte, nella letteratura, nel valore di certe esemplarità individuali e nei fondamenti della nostra Costituzione. A tratti, purtroppo, siamo stati anche protagonisti di derive ideologiche, che sono naufragate nel loro delirio, proprio quando hanno perso contatto con l’idealità. Oggi temo che il senso fondamentale dell’idealità si sia profondamente assopito e che l’esigenza di un orizzonte ideale (foss’anche idealistico!) sia stata soppiantata da altre priorità (benessere individuale, pluralismo debole, etc.). La classe politica (da qualunque versante la si prenda) palesa questa mancanza di fondamenti e di orizzonte in modo purtroppo esemplare. Tanto nelle proposte di chi governa, quanto negli emendamenti di chi si trova all’opposizione, osserviamo in genere una mancanza di progettazione; constatiamo una ricorrente auto-contraddittorietà e, più in generale, un’imbarazzante instabilità strategica. Tutto si riduce a risposte frammentarie, per lo più animate dalle urgenze e dalla fame di consensi. Se la cultura è la culla della politica e la politica è una delle principali protagoniste del destino della civiltà, occorre oggi più che mai impegnarsi in una nuova forma di resistenza militante contro il degrado della coscienza collettiva. Occorre cioè raccogliere le idee e le energie di tutti coloro che non ci stanno, che non vogliono consegnare se stessi e la loro collettività a questa radicale frammentazione. Occorre andare oltre la denuncia (per altro sempre preziosa e necessaria), con proposte ontologicamente efficaci. Prima di tutto bisogna creare nuovi presidi educativi, dove si allena il pensiero a interagire con il mondo nella prospettiva della sua complessità. Bisogna sempre e di nuovo riscoprire il valore di un Logos ideale, ma profondamente concreto, in quanto rigorosamente fondato in un rapporto intimo e responsabile con l’essere. Inoltre, occorre dare vita a luoghi di esercizio critico (quotidiani, riviste, web-radio, podcast, etc.) in cui dare a questo Logos la possibilità di interpretare gli eventi e di proporre risposte sostenibili, coerenti e, soprattutto, giuste. Insomma, occorre prima di tutto organizzare una militanza del pensiero, contribuendo alla formazione di un Logos militante. Di conseguenza, bisogna trovare anche modi e risorse per rinnovare le vie di accesso alla classe politica, che consentano ai migliori (ai più preparati, ai più consapevoli, a coloro che hanno dimostrato di possedere un maturo senso di responsabilità sociale, etc.) di governare. Inoltre, bisogna restituire alla politica il suo senso originario, come professione di utilità pubblica, che ha come sua priorità inemendabile la promozione del bene comune, in un orizzonte universale di diritti. Tutto questo può e deve essere fatto, a mio parere, in un orizzonte europeo di cittadinanza, promuovendo un movimento complessivo che faccia dell’Europa quel luogo in cui le persone siano capaci di governarsi liberamente, lasciandosi liberamente educare dal lume della ragione. Tutto questo comporta un lavoro molto complesso, pieno di criticità e inesauribile. Tuttavia, tutto questo rimane sempre e di nuovo possibile, perchè l’idealità non è un mero costrutto delle convenzioni umane, ma è quella voce dell’essere che rimane sempre a nostra disposizione per un rinnovamento continuo e universale.
Vedo solo ora questo commento, che va precisamente nella direzione che la mia riflessione accoratamente indicava. Ecco, possiamo ricominciare da qui. Rendere questo piccolissimo forum (che non rinuncia al nome della corrente di pensiero più fraintesa della modernità, la fenomenologia, perché ne rivendica il nucleo vivo più fedele alla grande tradizione socratica e illuministica) un vero luogo dove il “logos militante” vive. E non soltanto una bacheca per iniziative accademiche. Ma siamo in così pochi a credere – esattamente! – alla “maestria in intuizione” di cui, con un’intuizione veramente illuminante, Marco Di Feo ci richiama. Davvero, la civiltà europea in questo è stata maestra. Riprendiamo questo esercizio!