Mentre si spengono le polemiche suscitate dalle parole di pietà del papa per la giovane figlia di Dugin vittima di un attentato a Mosca, e le discussioni sulla sua “innocenza”, questa terribile immagine non dovrebbe essere rimossa dalla nostra memoria. Forse è un’immagine stravolta e capovolta di noi stessi – della nostra pulsione suicida. Un pensiero anti-socratico e anti-illuministico, indifferente alla logica quanto all’etica e ai vincoli della politica, ha colonizzato anche filosofia europea nella seconda metà del XX secolo, e corroso dall’interno gli ideali di un’Europa nuova in costruzione. Abbiamo ignorato il suo potenziale nichilista e suicida, e perduto le occasioni di realizzare una vera casa comune prima che il conflitto esplodesse. Scarica qui l’articolo uscito su Domani il 2 settembre.
«La filosofia nasce laddove vi sono la morte e la vita in contemporanea, dove c’è l’io e l’altro, dove vi sono la differenziazione e il superamento di questa alterità.
Per me la Novorossija è spazio del senso filosofico, proprio in questo istante è lo spazio di formazione della Russia e grazie a questo orizzonte del fronte noi esistiamo come Russia, come Russia indomabile, Russia sollevatasi contro il liberalismo totalitario che è dovunque nel mondo.
Il viaggio in Novorossija mi ha fatto tornare alle basi della filosofia: alla riflessione sull’epifania, sulle intuizioni… Per me è stato importante vedere questa autenticità, che oggi non c’è nelle nostre capitali, impolverate e allagate dal fattore della morte. Bisogna andarci in Novorossija, per capire cosa è la vita, come bisogna vivere, cos’è il respiro dell’impero e cos’è l’impero…».
Le aveva quasi appena scritte, queste parole che sembrano uscite dal diario di un liceale innamorato di se stesso, ubriaco di giovinezza, di retorica, di girandole dialettiche. Ed è volata in aria, polverizzata. E’ esplosa in un fuoco che non era più d’artificio, la sua giovinezza. Non aveva trent’anni, si firmava Darja Platonova e più che di se stessa forse era innamorata di suo padre, Aleksandr Dugin, traduttore di Julius Evola, espulso persino dal partito ultranazionalista Pamiat per satanismo e nazismo, fondatore con Eduard Limonov del partito Nazional-bolscevico: un uomo il cui minuzioso delirio degno di un demone dostoevskjano riesce a coniugare il più sprezzante decisionismo alla Carl Schmitt (con l’annessa critica del capitale finanziario giudaico e sradicatore) con l’esoterismo di una specie di Evola travestito da pope, e i frequenti contatti con i leader politici dell’estrema destra europea con la mistica eurasiatica e il “respiro dell’impero”. Un bric-à-brac che somiglierebbe semplicemente a un ghigno dadaista se l’uomo non si prendesse così sul serio da farsi consigliere del principe anche nella sanguinaria impresa ucraina, e da lanciare – sciagurato – la figlia sotto i riflettori mediatici della propaganda putiniana.
Un’Ofelia dagli occhi vuoti, in un fiume di altri cadaveri
Ecco, non lui ma lei, la figlia, è nel fuoco di questa riflessione. Mentre si spegne l’eco delle polemiche sul papa che ha espresso la pietà e l’orrore per questa giovinezza volata in frantumi, mentre ben pochi condividono lo sconcerto di fronte a uno Zelensky che richiama l’ambasciatore dal Vaticano (o anche a chi ritiene usurpato il nome di Francesco: ma perché? Non dialogava con i lupi, il Santo?), vorrei provare a dire come mi sia improvvisamente accaduto di vedere in questa ragazza la nostra immagine stravolta e capovolta, una metafora del nostro suicidio. Come una specie di Giovanna d’Arco vittima di un inganno atroce, e trasformata nel suo contrario: una specie di Ofelia, affogata nel fiume della morte scambiata per vita autentica – ma è un fiume straripante d’altri cadaveri. Ofelia che passa con gli occhi vuoti davanti ad Amleto. Suo padre? No: Amleto siamo noi. Da chi ha imparato i suoi poveri filosofemi, questa ragazza che volle chiamarsi Platonova? Immaginatela mentre scrive la sua tesi di laurea sul pensiero politico di Platone nell’opera di Proclo, il più vertiginoso fra i teologi neoplatonici, ai quali i dottori della Chiesa carpirono la più anti-idolatrica idea del divino, la trascendenza assoluta che né parole umane possono catturare né mani umane usare e brandire a troppo umani fini – e pensate all’uso che ne fecero tutte le chiese cristiane, invece, nei secoli insanguinati dalle loro guerre. Acqua passata: immaginatela all’università di Bordeaux, Darja che torna entusiasta degli studi francesi sul neoplatonismo…No, non l’avrebbe aiutata Pierre Hadot, mansueto terapeuta spirituale, a prestare a Platone il volto del padre, e diventare “Platonova”. Il padre – questo modesto lucifero confuso – lei lo ritrovò nella vulgata filosofica parigina ed europea, che dai tempi di Jean Beaufret ha costruito il canone della filosofia continentale sulle eredità di Hegel e di Heidegger. I quali hanno in comune il ripudio dell’anima socratica, indissolubilmente etica e logica, critica e autoironica: il demone che diffida sempre delle certezze che abbiamo, che chiede ragione, chiarezza, distinzione, insomma responsabilità nell’uso delle parole, esatta pesatura del loro contributo al vero o al falso di ciò che uno dice. Che, per intenderci, non associa alcun pensiero a quell’ebbra dialettica di vita e morte con cui si apre questo articolo, alla differenza di “io” e “altro” e al “superamento” di questa differenza – tranne vederne evocate le bombe sui palazzoni degli ucraini che non volevano essere annessi alla madre Russia (a proposito, Novorossija è il nome dato già da Caterina II ai territori meridionali dell’Ucraina attualmente contesi). Chissà se la musica elettronica di quella certamente talentuosa Ofelia, una musica che si ispira a Heidegger e al teatro della crudeltà di Antonin Artaud – e che ancora, con una stretta al cuore, troviamo in rete (https://vk.com/daseinmayrefuse) – più che i dubbi di Amleto volesse esorcizzare il teschio del povero Yorick.
Un’Europa che ha licenziato l’anima socratica – e smarrito la sua idea
Ma perché dico che siamo noi, l’Amleto di questa sciagurata Ofelia? Noi, l’Europa. Perché c’è un fatto del Novecento europeo, sul quale non si è ancora riflettuto abbastanza. Un fatto all’origine di quel sempre più inquietante fenomeno che è la diffusione di una divertita simpatia, quando non di una sarcastica complicità, nei confronti di chi spara a zero contro ogni coscienza decente – antitotalitaria, liberal, democratica, umanistica, magari perfino sostenitrice dei diritti umani. Si pensi al successo mondiale della biografia romanzata dell’altro fondatore del partito nazional-bolscevico, anche lui letteralmente nazista e stalinista, divenuto una star globale, Eduard Limonov (Emmanuel Carrère, 2011. Come scrisse Julian Barnes, forse troppo malignamente, a proposito di Carrère: “L’intellettuale parigino tipicamente odia tutto ciò che l’intellettuale parigino rappresenta” (https://www.theguardian.com/books/2014/oct/24/julian-barnes-limonov-emmanuel-carrere-punk).
Questo fatto è che attraverso un suo filosofo la Germania ha vinto nelle menti la guerra che i nazisti hanno perso – ma a differenza della Grecia, che colonizzò le menti dei suoi dominatori romani, la sua filosofia era peggiore, non migliore di quella dei vincitori. Nel 2014, mentre iniziava la crisi Russo-Ucraina e Putin si annetteva la Crimea, la pubblicazione dei Quaderni neri svelava con una brutalità pari all’assenza di argomenti la priorità, nel pensiero di Heidegger, del principio di comunità e destino, Blut und Boden, su quello di dignità e autonomia personale: “il respiro dell’impero”, come scriverà Dugina, e pazienza se questa volta intenderà quello eurasiatico. Ma già molto prima era cominciata in Europa, nel segno della critica alla modernità illuministica sradicatrice, una inquietante alleanza del pensiero di quello che era a tutti gli effetti un noto e fervente nazista con l’ultima progenie della sinistra hegeliana, il marxismo (soprattutto attraverso Alexandre Kojève, l’emigrato russo che diresse negli anni Trenta a Parigi un famoso seminario sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel). Come tutto, nella nostra epoca, questo fatto ha assunto proporzioni globali. A Canton e a Pechino come in chissà quanti altri campus universitari di quest’epoca inquietante, la filosofia si insegna e si studia come se fosse indipendente dalla libertà di dissentire, dall’autonomia intellettuale, morale e politica, e dalla democrazia.
Non voglio dire che è colpa dei cattivi filosofi europei se anche nella Russia di Putin “il respiro dell’impero” ha soffiato via la speranza gorbacioviana di un nuovo ordine del mondo, che ricollocasse anche la Russia dov’è – nella “casa comune” europea. Voglio dire, al contrario, che siamo noi europei ad avere destituito in noi stessi quell’idea d’Europa che era cresciuta, grande e carica di speranze, nella seconda metà del secolo scorso. Secondo questa idea, Europa più che un continente è una società animata da un doppio movimento di liberazione: dall’ovvio e tradizionale verso il dubbio critico e la ricerca di ragioni; dal potere dell’arbitrio al governo della legge democraticamente deliberata. Anche e soprattutto oltre i confini delle singole comunità nazionali o etniche, là dove ancora, agli immediati confini dell’Unione europea, vige la selva geopolitica degli equilibri di potenza e prepotenza. Insomma, Europa era la via della federazione universale delle repubbliche, non quella degli imperi e delle nazioni sovrane, o addirittura delle piccole comunità etniche, linguistiche, religiose. Non era la via della balcanizzazione delle coscienze. Semmai quella dell’esplosione pacifica delle ecceità, delle singolarità personali e locali, dei patrimoni unici di memoria paesaggi e cultura, delle libere invenzioni in tutti i campi della libertà creativa, compresi i modi in cui ci aggrada vivere, amare, morire.
Le occasioni perdute di ridare alla politica un etica e un futuro, e il rischio di suicidio europeo.
Ci sono state, anche alla fine del secolo scorso e agli inizi di questo, “ore stellari”, occasioni uniche in cui gli europei, compresi i russi e gli ucraini, che tali inconfutabilmente sono, avrebbero potuto riprendere la via di questa “casa comune” (https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/gorbacev) – ma certo occorreva, perché ci riuscissero, che anche l’Unione europea non avesse dimenticato gli ideali per cui era nata, e soprattutto che li avesse incarnati in una politica estera unica, fatta perché il diritto non taccia neppure dove infuriano le armi (Tacito). Tomáš Masaryk, uno dei pochi filosofi cui fu dato, sia pure per poco, regnare con la ragion pratica edificando democrazia (https://www.editorialedomani.it/longform/il-tradimento-di-kant-nel-paradosso-di-kaliningrad-mae83jbk) aveva capito che senza il respiro dell’alto la democrazia muore asfissiata nel conflitto degli interessi economici e nazionali, smette di motivare la giovinezza, e perde la sua essenza, che è di rinnovarsi ogni giorno dalle sue fonti etiche: non c’è speranza di futuro senza respiro dell’alto – ed è questa che volle chiamare “una politica dell’eternità”. Un’iniezione di spirito che dissesta gli ingranaggi dell’amor proprio e della volontà di potenza. Nel suo grande libro su La rivoluzione mondiale (1925) lesse con sguardo lucidissimo e puro l’inutile strage che avrebbe insanguinato il globo; e vi vide lo scatenarsi di una tendenza assassina, omicida e suicida, di proporzioni planetarie, l’”oggettivazione violenta”, nata dalla confusione di dio con l’io. Un io perfettamente liberato, prima, dal demone di Socrate e dai fastidiosi vincoli della giustezza, e poi da ogni cristiana pietà. E da allora cosa ha fatto l’Amleto filosofico europeo, oltre a giocherellare con il teschio di Yorick, palleggiandoselo in videoconferenze attraverso tutte le accademie del globo?
Forse è tempo che la giovinezza di Darja Platonova volata in frantumi scuota la giovinezza d’Europa. Che le risvegli dentro la pietà – anche di se stessa.
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