Ermeneutica e filosofia trascendentale. Rileggendo Senso e consenso – di Claudio La Rocca

mercoledì, 18 Maggio, 2022
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Volentieri ospitiamo il testo dell’ intervento di Claudio La Rocca al convegno dedicato alla memoria e all’opera di Leonardo Amoroso (https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2022/01/lestetica-italiana-ricorda-leonardo-amoroso/ )  –  Vedi anche la rievocazione che il nostro Lab fece della figura di questo studioso  in occasione della sua inattesa e tanto prematura scomparsa nel gennaio del 2021 (era nato a Livorno nel 1952; laureatosi e addottoratosi alla Normale di Pisa, aveva proseguito le sue ricerche ad Amburgo e Friburgo, divenne in seguito Ordinario di Estetica, prima a Padova e poi a Pisa):  https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2021/02/leonardo-amoroso-o-della-bellezza-e-della-filosofia/

Nel mio contributo al volume in ricordo di Leonardo Amoroso[1] ho cercato di coniugare il suo interesse per due filosofi, Heidegger e Kant, che sono stati, pur nella molteplicità dei suoi interessi e dei suoi lavori, forse gli assi portanti del suo percorso filosofico. Non parlerò però del mio piccolo contributo nel volume, ma di quello di Leonardo al dialogo tra questi autori. Credo che anche i due motivi chiave individuati così bene nel titolo del volume – “ragione estetica” ed “ermeneutica del senso” – seppure declinati in una molteplicità di prospettive, trovino in Heidegger e Kant per così dire dei poli di attrazione molto forti. L’immagine dei poli, tuttavia, se può rendere conto della forza di attrazione che i due autori esercitano sulle elaborazioni filosofiche in questione, forse non consente di render conto del fatto che si tratta di due orizzonti di pensiero, intanto, storicamente connessi, com’è ovvio, ma che, inoltre, possono contaminarsi ed intersecarsi ulteriormente anche come modelli di pensiero. Credo che il punto più forte di intersezione e di dialogo tra i due autori nel percorso di Leonardo Amoroso sia stato il suo libro Senso e consenso,[2] pur essendo un libro dedicato a Kant, e in cui Heidegger compare direttamente poco, citato quattro-cinque volte. Vorrei ricordare qualche aspetto di questo libro, e il significato che ha avuto e può ancora avere, tutt’altro che secondario.

Leonardo era partito da Heidegger e non da Kant. Io lo avevo conosciuto, da studente, in un seminario su Heidegger nel mio primo anno a Pisa. Era stato poi correlatore della mia tesi, nel 1982, ed il suo avvicinamento a Kant risale proprio al periodo di poco successivo. Non c’è bisogno, per certi aspetti, di ricercare ragioni di questo avvicinamento – allievo di Francesco Barone, collaboratore di Massimo Barale, attivo nel dipartimento dove operava Silvestro Marcucci, anche lui allievo di Barone, e Marcello Pera, era in qualche senso “circondato” da un ambiente di studi su Kant e di attenzione teorica verso il suo pensiero. Pera gli aveva proposto la traduzione della Logica di Kant, apparsa lo stesso anno, 1984, di Senso e consenso. E tuttavia l’accostamento a Kant non era un passo scontato. Leonardo era un giovane studioso già affermato, soprattutto appunto come heideggeriano – nel 1983 era apparso nel volume Il pensiero debole, curato da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, il suo saggio sulla Lichtung,[3] precedentemente apparso in tedesco nel «Philosophisches Jahrbuch», che era stato concepito durante un soggiorno a Freiburg presso Friederich von Herrmann. Eppure, il suo primo libro è quello su Kant, ed è un libro particolare, perché – seppure con una prospettiva peculiare ed originale – si confronta in modo diretto con “tutto” Kant: non si presenta, non è, non vuole essere un libro “specialistico”. Ricordo che l’occasione, se vogliamo dire così, per la sua stesura era stata la presentazione l’anno prima, nel 1983, della tesi di perfezionamento presso la Scuola Normale – ho già ricordato una volta come Leonardo tornasse molto soddisfatto dalla discussione alla quale, oltre a relatore e correlatori – Barone, Barale, Cesa, Vattimo – era presente Eugenio Garin, che (lo raccontava appunto Leonardo con particolare, legittima soddisfazione) all’osservazione di qualcuno secondo la quale un lavoro del genere era quello grazie al quale un tempo si sarebbe concessa la libera docenza in filosofia teoretica, aveva aggiunto: “anche in storia della filosofia”.

È però il senso teorico – non soltanto riguardante il pensiero di Kant – di quel libro che vorrei oggi brevemente sottolineare. Quel primo libro non soltanto affrontava – coraggiosamente, bisogna dire – una rilettura originale e ricca di sviluppi del pensiero di Kant, ma lo rimetteva in dialogo con il pensiero ermeneutico di matrice heideggeriana (non solo Heidegger, dunque) in una forma allora nient’affatto scontata e non facile da proporre. Per apprezzarlo, bisogna ricordare la situazione, il clima della filosofia italiana e non solo italiana di quegli anni.

Il momento in cui appare Senso e consenso – ricordo ancora, il 1984 – era quello in cui il pensiero filosofico era fortemente percorso dalle tematiche ermeneutiche. Si può dire che l’ermeneutica in Italia si era profilava come koiné, anche se l’esplicita autocaratterizzazione in questo senso è di poco successiva. Era già apparso, come ricordavo, il volume collettaneo Il pensiero debole, che aveva dato luogo a molte discussioni e profilava, o cercava di farlo, un movimento di pensiero in cui l’ermeneutica di matrice heideggeriana aveva un ruolo centrale. La sua autodefinizione come koiné è appunto di qualche anno dopo, precisamente del 1987; venne avanzata da Gianni Vattimo introducendo un fascicolo di «aut aut», dedicato ai “Margini dell’ermeneutica”.[4] Vattimo precisava che la tesi «secondo cui l’ermeneutica è la koiné della filosofia o, più in generale, della cultura degli anni Ottanta» esprimeva il fatto che «oggi, se c’è un idioma comune della filosofia e della cultura, esso va individuato nell’ermeneutica», così come era avvenuto prima col marxismo, negli anni 50-60, o con lo strutturalismo, negli anni ’70. Naturalmente Vattimo era abbastanza avvertito da considerare questa solo una constatazione di fatto, che nulla diceva circa la legittimità di questa “egemonia”, ma che indicava come le discussioni di filosofia (ma anche, sottolineava, di critica letteraria o metodologia delle scienze umane) dovessero fare i conti con l’ermeneutica «anche» – scriveva – «senza accettarne le tesi»: come era avvenuto, appunto, con marxismo e strutturalismo.

In questa koiné non vi era molto spazio per Kant – forse paradossalmente, si può dire oggi, ma per delle ragioni. Una ragione era messa in evidenza dallo stesso Vattimo, sottolineando come a suo modo di vedere l’ermeneutica fosse «la forma in cui un’esigenza storicistica si fa nuovamente valere dopo l’egemonia strutturalista» (p. 4) – esigenza storicistica «in senso largo», che lui declinava in una accezione “emancipatoria”, in favore, scriveva, di «una posizione non contemplativa, ma impegnata», per ritrovare «una, sia pur paradossale, filosofia della storia» (p. 10), in cui la storia dell’essere heideggeriana veniva giocata anche contro l’ermeneutica di Gadamer. Per qualche ragione – per più ragioni, alcune già si possono intuire – si pensava non vi fosse spazio per Kant in questo contesto. Il kantismo veniva identificato con una «’descrizione’ di strutture dell’esperienza» (p. 9) fuori dalla storia. Questa assunzione si legava anche ad una presa di distanza dalla teoria dell’agire comunicativo di Habermas: gli esiti di Habermas erano considerati troppo «legati ad una ripresa del kantismo, e dunque ancora da un’idea di soggettività ‘astorica’» (p. 8) – inaccettabile per «ermeneutici che non vogliono essere solo filosofi trascendentali» (p. 9).

Ma l’“estraneità percepita” – se vogliamo dire così – di Kant all’ermeneutica non si limitava a questo, ed alla particolare lettura che veniva così proposta. Se si pensa che Kant è stato forse l’autore con cui Heidegger più profondamente si è confrontato, che egli ha indicato in qualche modo anche come colui che per primo ha pensato la differenza ontologica, questa percezione, allora diffusa, può apparire, come dicevo, paradossale. Pesava però in quel contesto non solo la declinazione storicistico-emancipativa verso la quale muoveva Vattimo (naturalmente ci si può chiedere anche perché mai Kant non dovesse trovare spazio in una prospettiva emancipativa), ma anche, più radicalmente, il ruolo della lettura del secondo Heidegger, che inseriva Kant nel tratto epocale del soggettivismo moderno. Lo Heidegger di Holzwege legava il soggettivismo all’«imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato», il cui esito è l’installarsi nella «uniformità organizzata». In questo orizzonte la libertà si rovescia in altro da sé: «La libertà moderna della soggettività» – che non perde il suo carattere ma si rafforza nell’ «inquadramento della egoità nel noi» – «si risolve completamente nella oggettività ad essa conforme».[5] In realtà anche il rapporto con Kant nel secondo Heidegger ha una notevole complessità. Già nel 1929 Heidegger affermava che  se non si sta a «ciò che Kant dice, ma a ciò che avviene in Kant», allora vediamo che Kant «attraverso la sua fondazione scuote dalle fondamenta questa antropologia e mostra così, senza saperlo, che l’antropologia» – l’impianto antropologico della metafisica – «appunto non è sufficiente»;[6] ma nonostante aperture simili anche nel secondo Heidegger,[7] il coniugarsi di una interpretazione tutta interna al soggettivismo con una “filosofia della storia” (dell’essere) riduceva davvero gli spazi per considerare salonfähig, come dicono i tedeschi, accettabile in società (o in koiné) il pensiero kantiano. Si pensi anche che ancora Vattimo prendeva le distanze – siamo nel 1981 – da quella che Apel chiamava una «trasformazione semiotica del kantismo» dicendo che «non lo modifica però abbastanza da evitare che, alla fine, l’operazione si risolva in una trasformazione kantiana della semiotica e dell’ermeneutica».[8]

Questo non riguardava solo la situazione culturale italiana.  Naturalmente le posizioni o i posizionamenti erano diversi e variegati rispetto all’eredità kantiana, com’è ovvio. Nello stesso fascicolo in cui scriveva Vattimo, un bellissimo saggio di Paul Ricoeur da un lato sottolineava a più riprese i legami molteplici della ermeneutica o delle ermeneutiche con problematiche di tipo trascendentale, fino a indicarla come «un trascendentalismo, ma di un genere speciale»;[9] dall’altro revocava, in relazione ad Apel, una simile caratterizzazione come fuorviante, a causa della «profonda differenza tra la pretesa, inerente al trascendentalismo, di conferire ad un soggetto epistemologico la trasparenza nei confronti di se stesso […] e la dichiarazione, essenziale per l’ermeneutica, di radicale non-governabilità e non trasparenza delle condizioni di ogni discorso». [10]

Ma gli spazi stretti per Kant venivano anche dal trascendentalismo, se così lo si può chiamare, di Habermas e dello stesso Apel, che insistevano, per profilare la loro proposta, sul carattere “prelinguistico” e non “intersoggettivo” della filosofia di Kant. Lo stesso Gadamer, che aveva usato la formula non felice della “soggettivizzazione dell’estetica” da parte di Kant in Verità e metodo, da un lato ricordava come il tardo Heidegger ritenesse che lui (Gadamer) non avesse «realmente abbandonato il campo dell’immanenza fenomenologica, a cui Husserl si era attenuto in modo conseguente, e che stava» – scriveva –  «anche alla base della mia originaria formazione neokantiana»;[11] dall’altro aveva dedicato nel 1975 un articolo sulle «Kant-Studien» a Kant e l’ermeneutica filosofica,[12] ricostruendo questo rapporto in modi tutto sommato riduttivi. Gadamer leggeva la vicenda del neokantismo – in cui appunto si era formato – come quella di un «eigentümlich verkürzter Kant» (p. 396), un Kant peculiarmente “abbreviato”, di orientamento (inconsapevolmente) più fichtiano che kantiano, che aveva finito per condizionare nella stessa direzione anche Husserl. Al contempo (premettendo che «ciò che oggi si chiama ‘filosofia ermeneutica’ sta in buona parte su un fondamento fenomenologico», p. 396), insisteva molto sui motivi che a suo giudizio avevano alla fine fatto saltare anche il nesso con la fenomenologia trascendentale, mettendo in gioco tematiche – di nuovo – della scuola storicistica (Dilthey, Yorck) e della Lebensphilosophie, sostanzialmente antidealistiche, che convergevano nella nozione di una “opacità” della vita (Das Leben ist diesig, pare dicesse Heidegger): l’idea che appartenga all’essenza della vita «non aprirsi ad alcuna chiarificazione nell’autocoscienza» (p. 399). Così anche il “senso dell’essere” risultava una formulazione quasi paradossale, come la stessa espressione di una “ermeneutica della fatticità”, che colpiva in due direzioni, sia l’idealismo trascendentale che la filosofia della vita. Gadamer sottolinea che è su questa strada che Heidegger ritrova «un nuovo accesso al Kant originario» (p. 400), identificato con quello della datità, dell’immaginazione. Nello Heidegger dopo la svolta, tuttavia, dice Gadamer, «sparisce il tono kantiano» (p. 401) e il suo proprio tentativo di «seguire le intenzioni della tarda filosofia heideggeriana» prende le strade dell’esperienza dell’arte e della storia, con la delineazione dell’idea del wirkungsgeschichliches Bewusstsein – che, Gadamer significativamente ci tiene a sottolinearlo in quell’articolo, è più Sein che Bewußtsein, è più essere che coscienza. Il problema e il rischio diventano per Gadamer il muoversi, partendo dalla analisi dell’esperienza ermeneutica, nell’orizzonte però delle intenzioni heideggeriane dopo la Kehre, «nella zona di pericolo (die Gefahrenzone) della filosofia moderna della soggettività» (p. 401).

Sono solo cenni su una situazione teorico-storica molto complessa, problematica e ancora aperta, nella quale si inserisce anche il rapporto con la tradizione fenomenologica e di questa con Kant.  Ma mi interessava solo dare qualche linea del contesto culturale in cui il libro di Leonardo Amoroso prende forma e poi si inserisce. Se prendiamo invece la prospettiva dall’altro lato, non quello dell’ermeneutica filosofica, ma quello degli studi su Kant, la situazione era quasi di pari “estraneità”, se così vogliamo dire. Nella Kant-Bibliographie per gli anni 1896-1944 la voce Hermeneutik non compare neanche.[13] (Va ricordato che questa bibliografia si basava sui titoli dei contributi, non esistevano keywords, ma l’assenza resta tuttavia significativa). Nel volume successivo, per gli anni 1945-1990, il primo contributo citato sotto questa voce è proprio quello di Gadamer del 1975.[14] Va detto che il primo volume che affronta direttamente questa tematica è comunque interno alla ricerca kantiana italiana, anche in questo caso pioneristica: è il libro di Giuseppe Giannetto del 1978, Kant e l’interpretazione.[15] Il libro di Giannetto, che ha i suoi meriti, indaga tuttavia la problematica in una prospettiva limitata e interna al discorso kantiano, senza un interesse ad un dialogo filosofico con la prospettiva ermeneutica.  La ricerca sull’ermeneutica di Kant, sul peso delle sue teorie ermeneutiche si svilupperà poi in anni successivi, sempre con un particolare rilievo della produzione italiana; si può ricordare il libro Kant e l’ermeneutica di Giuseppe D’Alessandro, del 2000, incentrato però sull’ermeneutica religiosa;[16] poi verranno i lavori, molto importanti, di Gerardo Cunico,[17] i contributi di Franco Camera e altri. Per avere un volume che valorizzasse non solo la tematica dell’ermeneutica, ma il dialogo con l’elaborazione teorica dell’ermeneutica heideggeriana e post-heideggeriana novecentesca e ne facesse una prospettiva per rileggere aspetti del pensiero di Kant, e in particolare la capacità di giudizio, bisogna attendere il libro Imagination and Interpretation in Kant di Rudolf Makkreel del 1990, che non soltanto cerca di evidenziare le hermeneutical implications della terza Critica, ma cerca di definire una idea di transcendental orientation legata al senso comune ed in confronto esplicito con l’ermeneutica filosofica.[18] Anche la tematica del linguaggio in Kant – che in Italia risentiva della singolare pronuncia di Tullio De Mauro sul preteso “silenzio” – attendeva di diventare un tema imponente di ricerca (ricordo all’ultimo Kant-Kongress di Oslo due relazioni plenarie sul tema, una di Mirella Capozzi) che potesse incrinare le idee di Apel e Habermas in proposito: l’unica sponda seria sul tema era il libro del 1974 di Wolfram Hogrebe, Kant und das Problem einer transzendentalen Semantik, promosso non a caso da Emilio Garroni in Italia.[19]

Quando viene scritto Senso e consenso, Amoroso si muove dunque – per quanto riguarda il rapporto con l’ermeneutica – se non nel vuoto, in una terra disabitata con pochi rifugi. Il suo non è un libro su Kant e l’ermeneutica, eppure pone le basi per una fusione di orizzonti, è il caso di dire, che era da un lato naturale, ma dall’altro era divenuta per altre ragioni, che abbiamo accennato, difficile e per certi versi impervia. Lo fa in due modi, convergenti e interagenti fra di loro: con la presentazione di un impianto teoretico – quello che espone in modo sintetico e limpidissimo nel primo capitolo, L’istanza trascendentale e l’esperienza – e con una lettura interna del pensiero di Kant che ne evidenzia e ne valorizza gli aspetti in grado di entrare in un dialogo reale con le prospettive dell’«idioma comune», della koiné di allora, e di offrire sviluppi. Ne ricordo i motivi principali: l’idea del trascendentale come “apertura originaria”, con il connesso problema di non convertirla in chiusura – leggi: di non identificare solo un trascendentale astorico e “naturalizzato”; quella dell’esperienza come costruzione, orientata da strutture che costituiscono i modi e le forme in cui essa si svolge; la rilettura del “soggettivismo”, così oggetto di tabù nel clima post-heideggeriano ricordato, con la nozione di “coinvolgimento ontologico”, che Amoroso leggeva come una dissoluzione delle nozione di soggetto e oggetto – favorita dalla lettura kantiana del soggetto come funzione e dell’oggetto come costrutto – «in direzione» (cito) «di un pensiero che riconosca come solo livello adeguato della considerazione trascendentale la dimensione ontologia originaria di cui sopra» (p. 19), ovvero, «una corrispondenza più originaria , per esprimere la quale gli stessi termini “soggetto” e “oggetto” sembrano infine risultare inadeguati» (p. 126); l’idea della totalità di senso come «contesto dei contesti» delle esperienze. Il modo in cui questi fili venivano snodati e tessuti insieme poi con l’impianto del pensiero di Kant e con l’idea di una fenomenologia ermeneutica dell’esperienza è stato ed è credo davvero uno dei migliori contributi per sdoganare almeno in certi ambiti culturali la rilettura teoretica del pensiero di Kant.

Naturalmente poi c’è questa rilettura stessa, che non ho bisogno qui di ricordare né sarebbe possibile ricostruire adeguatamente. La sottolineatura del peso teorico della terza Critica, con il “primato ermeneutico” della capacità di giudizio, come «condizione trascendentale della stessa esperienza trascendentale» (p. 87) quella della dimensione intersoggettiva, l’idea particolare di un “senso” diffuso, come lo chiamava, o “in sospensione” che si manifesta nell’esperienza estetica, la centralità dell’idea cosmopolitica di filosofia, sono da un lato tematiche acquisite oggi, ma tutt’altro che evidenti ieri  (viene in mente quanto Kant diceva ad Eberhard: quante cose sono viste con grande chiarezza, dopo che è stato mostrato in che direzione guardare…); dall’altro si tratta di tematiche naturalmente aperte alla discussione, ma cruciali.

Per concludere vorrei almeno ricordare – dopo aver sottolineato gli aspetti di esplorazione di terre poco abitate – quello che era stato in quel momento e in anni successivi un importante punto di riferimento e poi compagno di strada, forse fuori dalla koiné ermeneutica in senso stretto, ovvero Emilio Garroni, che non solo aveva già offerto straordinarie aperture, su Kant e a partire da Kant, sulla tematica delle condizioni estetiche dell’esperienza, sulla rilettura trascendentale della semiotica, in libri come Estetica ed epistemologia (1976) e Ricognizione della semiotica (1977) (Senso e paradosso sarebbe apparso nel 1986, richiamando anche il libro di Leonardo), ma che  offriva un punto di riferimento importante per una visione non standard e non ingessata dell’eredità kantiana dal punto di vista teorico. Lo ricordo anche perché – come Leonardo mi raccontò poco dopo la pubblicazione di Senso e consenso – lo stesso Garroni disse di essersi sentito confortato da quel libro (di allora un giovane studioso) nella sua sensazione di non trovare sponde per il suo discorso (molti anni dopo, nel 2004, in una intervista, Garroni, ribadendo la sua stima per Amoroso, disse: «molti che si occupano di Kant non si occupano molto di me, e io non mi occupo molto di loro» – nominando però dopo una non piccolissima serie di eccezioni).[20] La convergenza con Garroni, quasi sotterranea, si manifestò curiosamente poi in un convegno in Francia, a Cerisy La Salle[21] (lo ricorda anche Garroni, ma io ne fui in quei giorni testimone diretto), nello scoprire, di stare entrambi traducendo la Kritik der Urteilskraft nello stesso momento.

Mi fermo qui, mi interessava ricordare un libro e il contesto in cui era sorto. Quando lo recensii, nelle «Kant-Studien», nel 1987, scrissi che le questioni che il libro lasciava da rispondere erano state però aperte e rese possibili solo da quel libro, o potevano essere poste in modo nuovo solo grazie ad esso. Concludevo: «Di più non ci si può attendere da una interpretazione di Kant». Leggendo la recensione in anteprima, Leonardo disse sorridendo: «questa frase te la tagliano sicuramente». Non la tagliarono, e dopo tanti anni mi sento di ripeterla: di più da una interpretazione di Kant non ci si può attendere. Dobbiamo ancora gratitudine a chi ce l’ha proposta.

[1] L’imperativo categorico di Heidegger, in Ragione estetica ed ermeneutica del senso. Studi in memoria di Leonardo Amoroso, a cura di A. Siani, Pisa, Edizioni ETS, 2022, pp. 347-360.

[2] Senso e consenso. Uno studio kantiano, Napoli, Guida, 1984.

[3] La Lichtung di Heidegger come lucus a (non) lucendo, in Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 137-163.

[4] G. Vattimo, Ermeneutica come koiné, «aut aut», 217-218, gennaio-aprile 1987, pp. 3-11.

[5] M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M. 19947, p. 111; trad. it di P. Chiodi: L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 77.

[6] M. Heidegger, Der deutsche Idealismus (Fichte, Schelling, Hegel) und die philosophische Grundlage der Gegenwart (1929) GA 28, Klostermann, Frankfurt a.M. 1997, p. 39.

[7] Leonardo Amoroso sottolineava spesso questo passo dal Nietzsche, che dava a Kant nei confronti dell’estetica un ruolo dirompente: «Die geschichtliche Tatsache, daß jede wahre Ästhetik, z. B. die Kantische, sich selbst sprengt, ist das untrügliche Zeichen dafür, daß einerseits das ästhetische Fragen nach der Kunst nicht zufällig, daß es aber andererseits auch nicht das Wesentliche ist» (M. Heidegger, Nietzsche. Erster Band, GA 6.1., Klostermann, Frankfurt a.M, 1996, p. 132).

[8] G. Vattimo, Al di là del soggetto, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 74. Nello stesso volume torna il motivo “storicistico” delle distanze da Kant: si parla della «filosofia come modo di riflettere, di “ritornare su” queste condizioni trascendentali – ma storicamente mutevoli, come il linguaggio e la cultura – dell’esperienza»,  e si afferma: «La novità del pensiero novecentesco , e soprattutto di Heidegger, consiste nell’aver visto che queste strutture, che Kant credeva uguali per la ragione in tutti i tempi e in tutti i luoghi, sono esse stesse eventi storico-destinali» (p. 16).

[9] P. Ricoeur, “Logica ermeneutica”?, «aut aut», 217-218, gennaio-aprile 1987, pp. 64-100; qui p. 91.

[10] Ibid.

[11] H-G. Gadamer, Testo e interpretazione, «aut aut», 217-218, gennaio-aprile 1987, pp. 29-58; qui p. 34.

[12] H.G. Gadamer, Kant und die philosophische Hermeneutik, «Kant-Studien», 1975, pp. 395-403 (ripubblicato in Kleine Schriften IV: Variationen, Tübingen, Mohr, 1977, pp. 196-204).

[13] Kant-Bibliographie 1896-1944, begründet von Rudolf Malter, hrsg. von M. Ruffing, unter Mitarbeit von P. Natterer, Frankfurt a.M., Klostermann, 2007.

[14] Kant-Bibliographie 1945-1990, begründet von Rudolf Malter, hrsg. von M. Ruffing, Frankfurt a.M., Klostermann, 1999.

[15]  Napoli, Giannini, 1978.

[16]  G. D’Alessandro, Kant e l’ermeneutica. La Religione di Kant e gli inizi della sua recezione, Soveria Mannelli, Rubettino, 2000.

[17]  Ricordo solo il più recente, La speranza e il senso. Metafisica ed ermeneutica in Kant, Milano, Mimesis, 2018.

[18]  R. Makkreel, Imagination and Interpretation in Kant. The Hermeneutical Import of the Critique of Judgment, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1990.

[19] W. Hogrebe, Kant und das Problem einer transzendentalen Semantik, Freiburg-München, Alber, 1974; trad. it.: Per una semantica trascendentale, Roma, Officina, 1979 (Prefazione di E. Garroni, pp. ix-xiv).

[20] Fiorenzo Ferrari, Intervista ad Emilio Garroni, https://www.cieg.info/wp-content/uploads/2017/03/Ferrari_intervista_Garroni.pdf. Nella giornata in ricordo di Leonardo Amoroso, in cui ho esposto quanto sopra, sue allieve e suoi allievi recenti hanno ricordato come Leonardo sconsigliasse vivacemente negli ultimi anni di leggere Senso e consenso. È difficile comprendere fino in fondo perché lo facesse, credo tuttavia che l’importanza che Garroni abbia attribuito a quel “conforto” teoretico sia un segno chiaro di quanto questa percezione così autocritica fosse ingenerosa.

[21] Gli atti, insieme a quelli di un altro convegno, sono pubblicati in Kants Ästhetik / Kant’s Aesthetics / L’esthétique de Kant, a cura di H. Parret, Berlin-New York, de Gruyter, 1998.

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