San Giorgio e il drago – Una parabola di Jeanne Hersch

sabato, 23 Aprile, 2022
By

Oggi si ricorda San Giorgio. E quindi anche il drago, naturalmente. Chi non aveva mai vissuto una guerra così vicina ora sa che cosa la guerra, che nei cuori degli uomini nasce,  fa alle menti – alle nostre menti. Amici che citavano ogni giorno Etty Hillesum oggi citano Biden, amici che ci aiutavano a restare umani oggi usano parole come bastoni, peggio, come olio di ricino, contro chiunque implori più attenzione alle parole, più attenzione all’escalation, più responsabilità nei confronti di quella pace giusta per la quale si festeggia il 25 aprile. Il lume della ragione si spegne ai piedi della Via Crucis (vedi post precedente). Questo sgomento, però, come sempre, porta una cognizione approfondita, anche se dolorosa. Della gratitudine che dobbiamo ai maestri che ci siamo scelti – del perché, infine, li abbiamo scelti. A Jeanne Hersch, la più umana dei miei maestri, prendo oggi in prestito uno dei suoi racconti più belli: Combat de dragons. (Trad. it. di Federico Leoni, in Jeanne Hersch, La nascita di eva – Saggi e racconti, Novara, Interlinea 2000, pp. 25-36).

Battaglia di draghi

Dal sommo della torre, una mano sui merli, la Principessa agitava una sciarpa bianca. Le lacrime, gli ultimi raggi rossi del sole, la polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli, oltre il ponte levatoio, le impedivano quasi di distinguere il Cavaliere che si allontanava.

Vedeva solo un corteo confuso. Il gioco eccessivo e declinante del tramonto illuminava di scintille improvvise le finiture dei cavalli e le armi degli uomini, modellava qua e là una groppa bianca, о fulva, о maculata, di cavallo solido. Ritagliava un collo arcuato sotto la criniera, sfumava i riflessi della seta, del velluto e dell’acciaio.

Il Cavaliere montava una giumenta araba, le cui zampe si levavano a tratti in quella loro danza, ma così sottili, così fragili che ad ogni passo sembrava che il suolo dovesse ferirle. Il Cavaliere portava un semplice abito da caccia scuro e la spada. Una macchia spenta nello sfavillare del corteo. Poco più lontano, gli verrà data una lancia.

Poco più lontano, all’ingresso della valle tetra dal silenzio di pietra, gli verranno date una lancia, un’investitura, e una benedizione. Poi se ne andrà, solo.

Solo, nella valle tetra dal silenzio di pietra, va in cerca del drago che sputa fuoco, del drago che ucciderà per conquistare la sua Principessa bionda.

Oppure morirà.

Il corteo scompare, in lontananza, sulla strada bluastra. Il sole non lo raggiunge più. Abbaglia con un ultimo raggio sulla torre la Principessa, le cui lacrime brillano come gocce di sangue.

La scorta è rientrata. Uno scudiero tira per le briglie la giumenta araba, che, le froge dilatate di rabbia, non vuole abbandonare il suo padrone.

Il Cavaliere, armato di lancia, procede nel greto disseccato del torrente. Sale.

La notte cala in fretta, nella valle. A mezzogiorno si è quasi presi nel crepuscolo. È già molto se un po’ di calore dorato sfiora l’intrico dell’edera e del muschio. I pini sono altissimi, quasi senza aghi, coperti di stracci di licheni di un grigioverde di lebbra. Si direbbero scheletri neri che sollevano lembi di lenzuola, come morti che abbiano dimenticato di cadere al suolo. Rocce informi trasudano acqua gelida e si ammassano le une sulle altre, coperte di un muschio spugnoso, stranamente spesso. Non un uccello. Questo è il regno degli onischi, dei millepiedi, delle limacce, il regno di tutto quel che si arrampica, e striscia, e sfiora, di ciò che vive di muffa e brulica nell’ombra umida.

Il Cavaliere sale. Si fa strada tra tele di saliva, avvertendone sul volto la carezza ripugnante. Le sue mani passano tra alte piante coperte di bava. Vede appena, come ombre grigiastre sul fondo della notte, le pietre che si frantumano sotto i suoi passi.

Rabbrividisce al tocco dell’oscurità appiccicosa, e con impazienza, con gioia pensa al drago.

È lassù, si dice, è da qualche parte in una piega della roccia, là dove l’erba è molle. È rivestito di una corazza in vulnerabile. Sputa fiamme e non conosce che il sonno e la rabbia.

Non ucciderà più nessuno, sogna il Cavaliere. Domani, all’alba, all’ora in cui il drago si avvia alla caccia, lo attaccherò.

La notte serrò all’improvviso il Cavaliere. Si strinsero le pareti di roccia che chiudevano la valle, e il greto del torrente in secca prese a salire a balzi. C’era ancora appena un rivo di stelle, stagliato lassù, curvo e spezzato, interrotto a tratti da una massa sporgente. Ma il Cavaliere non poteva permettersi di levare la testa a guardarlo. Tutta la sua attenzione era per quel suolo a volte vischioso, a volte cedevole, dove vaghe chiazze meno nere, qua e là, non facevano che trarlo in inganno. Stava ancora avanzando? Non sapeva più. Si era arrampicato quasi verticalmente in una sorta di camminamento, ed ecco che aveva urtato, con tutta la forza dello slancio che si era dato, la fronte sulla roccia. Barcollò, stordito. Credette di cadere. Ma era come incrostato nella montagna. Non cadde. Restò là, aggrappato alla spaccatura della parete. Si sentì inondare di sudore freddo. Spirava un po’ di vento nell’oscurità. Il rivo di stelle era scomparso. Tastò con le mani la superficie rugosa, tutt’intorno a sé: zone lisce, vegetali, e altre che smottavano e si scrostavano, e sotto si indovinavano bestie piatte, dalle zampe innumerevoli, e vermi.

Il Cavaliere era un uomo, fatto per lo spazio e la distanza. Qualcosa di formicolante, nell’ombra addormentata, lo sfiorò sprofondandolo nel disgusto. Fece appello, con ogni forza, al suo sogno di uomo: distruggere il drago, conquistare la principessa bionda. Laggiù.

Finalmente la sua mano sinistra si imbattè in una sorta di budello, un cunicolo che sembrava affondare nella montagna. Era stretto, tortuoso come la traccia di un tarlo incisa ih un vecchio legno. Impossibile farvi scivolare il suo bel corpo solido, dalle articolazioni ben nette. Solo un serpente…

Fu allora, allora si accorse che qualcuno si prendeva gioco di lui. Piccole cose sottili gli scivolavano intorno sibilando ironicamente. Non lo toccavano, non più di quanto il vento possa toccare, ma sentiva che gli passavano tra le dita e gli sollevavano i capelli. Le vedeva aggrovigliate all’ingresso del cunicolo buio, come riflessi brevi, rapidi, colore del fango e dell’argento. E il sibilo. Si sentì insultato. E insultati, con lui, i cavalieri, il castello, la Principessa dai lunghi abiti, la cattedrale in cui immaginò il rintocco grave delle campane all’uscita dalla messa solenne. Insultati. Solo quel verminaio è immortale. E sibila.

Sibila da dentro о da fuori? Da dentro, sibila il verminaio, e sibilando impartisce ordini, e il Cavaliere li comprende. Sibila come il Cavaliere non ha mai sentito sibilare, non come i grilli d’estate né come le vipere, come nessun’altra cosa. «Il drago passa di qui perché è un serpente. Il drago passa, passa, passa – passa e scivola, e fruscia e sembra seta – carezza la roccia intorno a sé, tutt’intorno al suo corpo vischioso – e arrampica e avanza, e scivola, fruscia sottile senza inciampo, piatto, a zampe piegate, senza più zampe – ma questo, ah!, ah!, ah!, con la sua gran testa dura, tutto angoli e ossa, la lancia dritta, dritta, dritta, ah! ah! ah!, vuole passare nel budello tortuoso! ah!, ah!, ah!»

Il Cavaliere serra la mano sulla lancia. I giorni di torneo, sotto il bel sole, gli scoppiano nella memoria. La lancia allora era un segmento di fuoco, una barra incandescente di rabbia. Ma quella cosa sibila dolce, dolce e beffarda, in fondo all’animo, verminaio lucente e livido, e scivola e scende sino alle sue radici. Feconda come una carezza, gli dona un potere sconosciuto. Il Cavaliere si piega e si torce sotto l’orrore dolce che lo sfiora, e si offre, si dà a quel brulicare. La lancia cade. Lui diventa sottile, si piega, scivola nel cunicolo scivoloso, ansima come la brezza e sibila dolcemente. Si insinua nel cunicolo tortuoso, l’aspra roccia lo sfrega e lo stringe, lo fortifica senza ferirlo. Gli vengono muscoli fin nella pelle – era così anche quando l’acqua del mare scivolava lungo il suo corpo nudo. Ma allora puntava dritto all’orizzonte, ed era come distratto e perso nello spazio. Conosce ben diversamente, ora, la propria potenza e la sua tortuosa voluttà, concentrato com’è solo su di essa. Liana della notte rocciosa, lungo verme vegetale, serpente innamorato di una principessa, scivola, scivola con lunghi riflessi d’olio velenoso, attraversa la terra marcia d’acqua, avanza verso il mostro che mangia uomini, per ucciderlo… Si allunga e si gonfia a seconda che il budello si restringa о si allarghi, obbedisce ai meandri di pietra, e un odore, sconosciuto e inatteso, sconosciuto e riconosciuto, sconosciuto e nato insieme a lui, gli risveglia una brama feroce. Un odore di rapimento, di vittima mezzo morta, di sangue sgorgato ancora carico di vita, di carne tenera stritolata e bruciata. Crede di sentire la traccia fredda e incandescente del drago sputafuoco e delle sue prede. Si affretta. Eccolo di colpo sulla roccia piatta, sotto le stelle. Vuoto. Vento. Si sente nudo, non un serpente, un verme. Si avvolge su se stesso, intorno a nulla. Intorno a un nulla terribile. Principessa, mia Principessa! Volle riprendere il cammino ma ricadde e si addormentò.

Al suo risveglio, era il tramonto. Un avanzo di luce era ancora sospeso nel cielo verdastro. La valle soccombeva, la notte era ovunque. Prese a salire. Finivano le rocce, si arrampicava tra la boscaglia inestricabile, bassa, spinosa. Il vento gridò «Allerta!», e mille voci, penetranti e sorde, leggere e rombanti fecero eco: «Allerta!» Più in alto, sul fianco della vallata, una scia di fumo, poi una fiamma. Poi un’altra, poco più lontana, e un’altra ancora. L’aria si affollò di insetti, e, al suolo, bestie di ogni sorta fuggirono a valle. Ma il Cavaliere, spinto dal suo cuore di uomo, salì più rapido, trascinando con più rabbia il suo corpo. Arrivato nei pressi del fuoco, le fiamme formavano ormai, attraverso la valle, una muraglia quasi ininterrotta. Capì come potevano essersi propagate così in fretta: scarabei, grossi come tartarughe, rivestiti di dure ali invulnerabili, incandescenti come fuoco, trasportavano ramoscelli infiammati lungo una linea che andava da un pendio all’altro della vallata. Era come una danza sacra, dai gesti misurati, e il Cavaliere capì che quel ritmo parlava. «Un pericolo minaccia / Il Drago nostro padrone / Un uomo si avvicina / Dagli col fuoco ! / Morte all’uomo ! / Viva il fuoco! / Viva la morte!»

Il Cavaliere volle gettarsi sugli schiavi del drago e con un grande slancio tentò, con tutto il suo lungo corpo molle, vulnerabile, di schiacciare le fiamme, via via che queste nascevano insieme alla legione di scarabei incendiari. Ma non fece che attizzare il fuoco e propagarlo sui rami morti che cadevano, e lui, bruciato, ricadde su se stesso. Vide, tutto intorno a sé, un cerchio di scarabei ritti sulla punta posteriore, in una posa bizzarra, le zampe che fremevano, le elitre che schioccavano e frinivano. Quel rumore diceva al Cavaliere: «Che cosa vuoi, che cosa vuoi?» «Voglio passare», rispose, «voglio attraversare il fuoco!» «Attraversare il fuoco!» danzarono beffardi gli scarabei, «Sei un verme, sei molle, sei lungo e nudo ! Tu, attraversare il fuoco!» E, per mostrargli la loro superiorità, presero a cozzare con fracasso gli uni contro gli altri, e a saltare nel fuoco e a uscirne in una danza, motteggiandolo: «Sei un verme, sei molle, sei lungo, sei nudo!»

Attraverso la valle, ora, c’era un’alta muraglia di fiamme. Dappertutto gli scarabei giocavano, saltavano e ricadevano. Alcuni si aggrappavano a bestie moribonde, soffocate dal calore, e conficcavano nelle loro arterie una sorta di dardo. Il Cavaliere sentì un dolore improvviso, e, trafitto, vide che uno scarabeo gli si era incrostato sul corpo, le zampe affondate nella sua pelle.

Lo scarabeo rideva. «Vuoi attraversare il fuoco?», lo schernì. «Sì», rispose il Cavaliere, e lo scarabeo si strappò dal suo corpo e con un balzo gli conficcò le zampe altrove. Il Cavaliere trasalì. «Vuoi che ti aiutiamo?», rise lo scarabeo. «Sì». E lo scarabeo sghignazzando: «Vuoi che io e i miei fratelli ci conficchiamo nella tua carne e che ti facciamo da corazza contro il fuoco?» «Sì», rispose il Cavaliere. «Ma», riprese lo scarabeo con un tono solenne, da parodia, «sappi che ti proteggeremo implacabilmente per ventiquattro ore. Non potrai estrar- ci dalla tua pelle, non potrai sbarazzarti di uno solo di noi. Non sentirai il fuoco né il vento, né la pietà. E, al termine delle ventiquattro ore, sarai la nostra preda. Con le zampe e con il pungiglione succhieremo il tuo sangue. E questa la legge del drago, nostro padrone. A meno che» e lo scarabeo ebbe uno scoppio tagliente di riso «a meno che l’uomo, entro le ventiquattro ore, non abbia ucciso il drago, nostro padrone! Perché allora sarà lui che serviremo, l’uomo, ih!, ih!, ih!, e tutto dipenderà allora dalla sua volontà!» Lo scarabeo, con un altro balzo, conficcò ancora una volta le zampe nella carne del Cavaliere. «Vuoi?» «Sì», rispose.

Mille pungiglioni di fuoco si abbatterono sul suo corpo. Il grido gli si spense in gola. Volle passare la mano sulla pelle torturata, ma sentì solo che qualcosa di duro veniva respinto da qualcosa di duro. Era separato dal suo stesso cuore. Persino il suo dolore gli era straniero. Aveva solo un odio e un amore, questo solo sapeva. Doveva raggiungere l’oggetto del suo odio. Avanzò.

Nella profondità della notte il sipario di fiamme si strappava, sfilacciato dal vento. Il Cavaliere avanzava. Immaginava, senza sentirlo, il calore delle braci. Un elmo di elitre gli proteggeva il volto. Passò nel fuoco attar- dandovisi un istante, sperimentando la sua nuova invulnerabilità, ammirando il suo lungo corpo duro e incandescente, mobile nonostante le scaglie rigide che lo incrostavano. Passò sulla cresta delle fiamme e attraversò ondate di fuoco infernali. Quando ritrovò, di là dal fuoco, la notte e l’aria fredda, e vide alle sue spalle la barriera incandescente, ormai vinta, lontana, era intatto. Si permise solo allora di pensare al suo amore.

Vide però, cavalcioni sul ramo di un pino di montagna, una strana creatura che faceva dondolare malinconicamente le gambe. Aveva il corpo e il volto di un bambino, ma il suo sguardo, sotto le palpebre rugose, era quello di un piccolo vecchio. Sembrava aver visto ogni cosa ed essere indicibilmente stanco. Anche i suoi vestiti erano quelli di un vecchio nano mendicante: pantaloni informi e rattoppati, una maglia sbiadita e sfatta, e dietro la testa l’aureola di un assurdo cappello di paglia gialla. Parlò con voce monotona, senza guardare il Cavaliere, senza smettere di dondolare le gambe. Il Cavaliere gli vide ai piedi strani zoccoli scintillanti, che scandivano i secondi come pendoli. Disse: «Eccoti, Cavaliere. E ora? Hai attraversa- to ogni ostacolo, raggiungerai il tuo nemico, ne sentirai tra poco l’odore nel vento. Ma quando scaglierà su di te il suo fuoco che brucia da lontano, come ti difenderai, come lo attaccherai? Sei ben corazzato contro le fiamme, ma come gli impedirai di avvicinarsi a te e di stritolarti tra i denti? Hai perduto la lancia. Gli somigli, ora. Ma sei disarmato. Non hai fuoco. Dunque?» Il Cavaliere si piegò, triste, su se stesso. Sollevò solo la testa, poi sospirò: «Che devo fare, dunque, vecchio bambino, per vincere il drago sputafuoco?» E il vegliardo: «Sputa fuoco anche tu. Torna sui tuoi passi. Torna al muro di fiamme. Ingoia fuoco, ingoia! Non ti farà più male. Non brucerà che la tua anima. Sarai fiamma e rabbia, uccidere sarà la tua sete, il tuo nemico tutto il tuo desiderio. Già da lontano le tue narici getteranno fuoco per distruggerlo. Vai. Ma ricordati: dal momento in cui il drago sarà morto, ritroverai anima e cuore e il tuo corpo di uomo. A meno che, prima che muoia, tu non abbia bevuto il suo sangue. Perché, allora, sfortunato te, sfortunato! »

Il Cavaliere già se ne andava, salendo a grandi passi verso la muraglia di fuoco, ad armare i suoi polmoni. Già le fiamme inghiottite gli gorgogliavano in gola. Risalì il pendio, folle della sua forza, divorato, desideroso di divorare. Quando ripassò sotto il pino, stridendo e sibilando, il nano era scomparso.

La notte si apriva all’alba, quando il Cavaliere fiutò nel vento l’odore di bruciato e il tanfo dolciastro della carneficina. Si accorse quasi subito, al di sopra di sé, dell’apertura nera di una grotta, e dall’apertura apparve una gola feroce coperta di scaglie, e narici dilatate avidamente. Un istante. Ci fu silenzio. La doppia attesa, il doppio respiro sospeso, i due mostri immobili. Un raggio di sole fece brillare l’acciaio blu degli anelli dei loro corpi. Poi ciascuno si rinserrò su di sé. E saltarono e strisciarono, le lunghe code urtando ceppi e cespugli, il getto sibilante delle fiamme, le due corazze che già si scontravano con furore.

Dapprima il Cavaliere, nonostante la corazza, ricevette un morso atroce là dove un tempo aveva avuto la sua nuca di uomo. Si accasciò per un istante, ma il fuoco che gli divorava il petto lo risollevò e lo gettò sul nemico. Lo colpì di fianco alla testa e gli cavò un occhio. Potè allora ingannarlo e attaccarlo di sorpresa dal lato dove era cieco. Guadagnò terreno, individuò le sue ferite, le sue articolazioni vitali sotto la corazza imbrattata di terra e del suo stesso sangue. Lo attaccò con i denti e con gli artigli, e lo afferrò. Restarono a lungo quasi immobili. Il drago, sotto la sua presa, era gonfio di rabbia ma riusciva appena a muoversi. Il Cavaliere lo tratteneva implacabile, immobile come la morte. Infine, con un soprassalto, si separarono. Il drago restò disteso in tutta la sua lunghezza. Il Cavaliere lo vedeva ansimare, le scaglie del fianco che si sollevavano e ricadevano negli spasmi. Raccoglieva visibilmente le forze che ancora restavano nel suo corpo estenuato. Un’ondata di odio, divorante come sete, investì il Cavaliere. Da sotto le scaglie del fianco, il sangue del drago sgorgava in una sottile traccia dolce, colore del mosto. Si gettò su quella piaga in preda a un disgusto impaziente e insaziabile, ne fece sgorgare sangue, ne bevve a lunghi sorsi. Il drago si girò su se stesso e si rilasciò, molle, sulla terra.

Al castello la Principessa tace. All’alba si reca in cima alla torre, un arazzo appena iniziato tra le mani. Solo quando l’ombra, la sera, offusca completamente l’orizzonte, ripiega l’arazzo e ridiscende nelle sue stanze. Non un solo nodo nuovo nell’arazzo. La Principessa non vede chi le parla, il suo sguardo trapassa e se ne va, lontano, colmo di quell’assenza.

Una sera, all’insaputa di tutti, anche del Re suo padre, ordinò a due scudieri di tenersi pronti prima dell’alba, con il suo cavallo sellato. Non dormì. Le stelle brillavano ancora quando si avvolse in una cappa scura, uscì, montò in sella.

All’ingresso della valle congedò gli scudieri e lasciò il suo cavallo. Non osarono disobbedirle, ma restarono là, in attesa, mentre lei iniziava a risalire il pendio.

Non dovette salire a lungo. Tutti gli ostacoli che il Cavaliere aveva incontrato erano stranamente scomparsi. Presto il vento le portò un odore di sangue e di cadavere che la ghiacciò di angoscia. L’angoscia si mutò in gioia quando vide, al di là di una macchia di arbusti devastati dal fuoco, il grande corpo lucente, sinuoso e duro, reclinato su un fianco, per sempre immobile. «Mio Cavaliere, cantò la sua speranza, о Cavaliere, hai vinto!»

Fu allora che avvertì, moltiplicato dall’eco profonda delle rocce, misto alla putredine che iniziava a spirare dal mostro morto, il grido di un drago in caccia.

Lo sgomento si abbatté su di lei.

HERSCH

 

 

 

 

LA NASCITA DI EVA

SAGGI E RACCONTI

PREFAZIONE DI JEAN STAROBINSKI
CON UNA NOTA DI ROBERTA DE MONTICELLI

intere
linea”

 

Tags:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


*