La guerra in cuore. Risposte agli amici

domenica, 27 Marzo, 2022
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Mai come in questi giorni mi sono risuonate come pura verità, nella memoria, le parole iniziali del Preambolo alla Costituzione dell’UNESCO:

“Poiché le guerre cominciano nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che le difese della pace debbono essere costruite”.

Io credo che il bisogno che noi umanisti abbiamo di riflettere sul senso molto profondo di queste parole sopravanzino oggi qualunque altra urgenza. Ho provato a farlo  (Un mistero arcaico) in una riflessione che volentieri sottoporrei al vaglio di chi voglia commentarla, prima che esca – se uscirà – a stampa.

Gli eventi, comprese le ultime parole in Polonia del Presidente degli Stati Uniti d’America, rendano obsolete forse anche le povere risposte che dovevo alle molte persone, compresi alcuni amici cari,  che mi hanno scritto in modo molto critico a proposito di un breve fondo uscito domenica scorsa su Domani (21/3, vedilo qui ).

La sostanza di queste risposte è sempre la stessa, quella che ho provato a enucleare anche sotto il titolo Il mistero arcaico. Il nostro mestiere è solo un giocare con le parole, se non c’è dietro le parole l’aspirazione sempre rinnovata all’esattezza del sentire e quindi del senso delle parole. Non c’è quasi altra virtù morale intellettuale che il discernimento, e allora nessuna distinzione, forse, se ne sente l’esigenza, è troppo sottile. Certo può riuscire oscura, e allora bisogna chiedere aiuto alla discussione per chiarirla meglio.

E poiché la disputa riguarda la forma e il merito della mia distinzione fra schierarsi e prendere posizione (giudicata capziosa, incomprensibile, sofistica) si può cominciare subito dalla forma. Obiezioni e critiche, subite o fatte ma soprattutto ascoltate, sono parte essenziale del “prendere posizione”, e non necessarie allo “schierarsi” – che può tranquillamente fare a meno di confronti e discussioni. Grazie dunque di averlo fatto, e di non volervi sognare di cedere all’ingiunzione che conduttori televisivi e i loro ospiti, in genere piuttosto loquaci, moltiplicano nei loro talk show: “Ora basta coi distinguo, le chiacchiere sono a zero, è ora di dire da che parte si sta”. O addirittura: “E’ l’ora della verità”.

Nel merito. Congetturo che la levata di scudi sia stata causata soprattutto dalla mia affermazione che c’è (ben) di peggio che morire per una causa, e cioè morire per una causa in cui non si crede. Temo che i più abbiano subito dedotto che non credo nella causa dell’Ucraina indipendente e (speriamo, sempre più) democratica, e quindi della sua (sacrosanta) resistenza armata contro l’aggressore, quali che siano le cause dell’invasione.  Ma io naturalmente ci credo, sto dalla parte degli ucraini aggrediti, e anche del loro attuale governo. Questa seconda posizione è molto rafforzata dalla lettura dell’articolo di SIMONE ATTILIO BELLEZZA, Un nuovo Afghanistan per la Russia? –  nell’utilissimo  numero 1 di PLURALI, la nuova serie e-book diretta per la rivista “Il Mulino” da MARIO RICCIARDI: https://www.vignarca.net/?p=2878

Guardo come tutti quello che accade in Ucraina: senza risparmio di orrore, terrore, pietà. Credo che questo personale coinvolgimento, l’esatto contrario dell’intellettualismo e dell’indifferenza che alcuni mi rimproverano, fosse senza pudore espresso in quel fondo: non mortificate l’esercizio  del sentire!  Viene mortificato dalla pressione sociale chi accetta il ricatto: non schierarsi è vile, o menefreghista. Ma non schierarsi rispetto a cosa, o a chi? Confesso, mi ha stupito profondamente che sia sfuggito anche ai più fini il senso di un detto ben noto di Simone Weil, di cui per l’ennesima volta mi sono servita: il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male. Il vero male è consentire al male, anche solo a quella parte, se si vede e sente che c’è: e alzare le spalle, perché è minore. Cioè arrestare l’esercizio vero del sentire, che o è discernimento e dunque esige estrema delicatezza e precisione, oppure – se si ferma prima, se chiude gli occhi alla parte di male per non soffrire e per reagire in fretta – non è vero sentire, è reazione di viscere, emozione spesso strozzata d’odio, spesso aggressiva (“odio quelli che….” scrive MICHELA MARZANO, vedila qui e qui).

Ma allora su cosa, esattamente, era il contendere?

Ogni presa di posizione è certamente fallibile. Ora la tesi effettivamente in questione è che dar ragione al popolo ucraino e alla sua resistenza implichi che “noi” (in quanto distinti dagli USA, che non sono “noi”, e che dal 2014 armano e addestrano l’esercito ucraino) dobbiamo inviargli armi. Ma non lo implica. Ci possono essere buone ragioni per mandarle e buone ragioni per non mandarle. L’importante è specificare chi dovrebbe mandarle.

Quello che ho sostenuto è che in ogni caso non dovrebbe mandarle l’Unione europea, perché in questo modo si delegittima come potenziale negoziatore, e negoziatore intenzionato a non cedere sull’essenziale, a differenza della Turchia o della Cina: l’indipendenza politica dell’Ucraina e la sua appartenenza al concerto delle democrazie europee, e fin da subito se possibile all’Ue stessa. (Per questa argomentazione, che in 2000 battute è difficile far stare, rimando ad articoli precedenti, e più estesamente all’intervista ripresa sul Lab: https://euractiv.it/section/societa/interview/roberta-de-monticelli-lue-puo-diventare-un-ponte-verso-una-russia-post-putiniana/).

Altri, ad esempio PIER IGNAZI  (Repubblica 23/2) sostiene invece che aiutare gli ucraini a prolungare la resistenza e sia pure a costo di più vite umane, è aiutare i russi a liberarsi di Putin. In ogni caso posizione positiva e negativa sono discutibili, e certo io non pretendo di avere ragioni più convincenti di Piero Ignazi. In questo senso non mi “schiero”: prendo fallibilmente e meditatamente posizione. Quello che proprio non si può sostenere è l’implicazione: se teniamo per l’Ucraina allora è indiscutibile cosa dobbiamo fare. Se (come Europa) non mandiamo armi siamo incoerenti. Forse perché sotto sotto siamo semplicemente filoputiniani. Oppure siamo pacifisti “assoluti”, posizione irragionevole e per alcuni immorale (menefreghismo da anime belle, iper-razionalismo, indifferenza, o positiva collusione con l’aggressore). Su questa linea si sono espressi GALLI DELLA LOGGIA  (Corriere della sera, 20 marzo)  e PANEBIANCO (Corriere della Sera, 21 marzo).

Ma dietro a loro si profila la più temibile “teoria” finora nota. Ahimé, esattamente la stessa che infuriò nelle menti intorno e dopo la Prima Guerra Mondiale. E’ la tesi di Hungtinton e altri, la tesi dello “scontro di civiltà”.

Gli epiteti (“criminale”, “assassino”, ora anche “macellaio”) affibbiati da Biden a Putin, sembrano dare ragione a quella tesi. Perché riducono la politica a quella ferinità stessa che la politica era nata per imbrigliare e contenere. Anche quando corrispondono al vero, appaiono, nella loro dimensione psicologica, morale e penale, penosamente inadeguati alla misura della tragedia pubblica, per l’umanità e per due popoli in particolare, che il capo di stato russo rappresenta. E perché anche quella che sarebbe giusta indignazione di fronte a chi aggredisce e scatena la guerra viene svilita da questo linguaggio esclamativo ma cheap, comprensibile sulla bocca di chiunque di noi, non di chi rappresenta la dignità suprema di una Repubblica, oltre ad essere – recita la Costituzione – Comandante in capo dell’Esercito e della Marina degli Stati Uniti. Agli analisti politici spetta commentare la stranezza di sabotare con questa escalation verbale la volontà pur sostenuta a parole di fermare la guerra prima della catastrofe. Al semplice umanista, che può aspirare soltanto all’esattezza del sentire e del senso delle parole, non resta che constatare ancora una volta  quell’arcaico mistero. Per cui ogni differenza s’azzera, e i molti diventano un solo corpo che regge un solo capo, solo quando c’è un “esistenzialmente ed essenzialmente Altro” cui opporsi – e allora per definizione, prima che per insipienza strategica, non c’è mediazione che tenga, non c’è “norma prestabilita” (Carl Schmitt).  Così cominciano le guerre, “nel cuore degli uomini”.

 

 

 

 

 

 

 

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