Per una volta il nostro Lab, con l’aiuto di altri media, ha suscitato una piccola valanga di pensieri e azioni: alla Lettera aperta al Ministro del Gruppo di Firenze, ripresa e commentata da molti giornali (vedi post precedente) si aggiunge ora questa Lettera di due docenti di Filosofia e Storia, che inserisce l’appello al Ministro all’interno di una cornice più ampia, quella di chi vive la scuola e le sue politiche ogni giorno in aula. Rosaria Ricapito e Filippo Indovino insegnano al Liceo Scientifico Filippo Lussana di Bergamo. Che il Ministro li ascolti.
Non è nostro scopo fornire percentuali, ma chi le gradisce facilmente le troverà circa due fenomeni che percorrono la società italiana: una vera e propria fuga di intellettuali o, come si suole dire, di cervelli all’estero e un abbassamento del livello culturale medio del nostro Paese. Una situazione, cioè, paradossale in cui, da una parte, investiamo in un personale qualificato che, una volta formato, pone le sue conoscenze e capacità di ricerca al servizio di altri Paesi e, dall’altra, per chi rimane, la prospettiva concreta e tangibile di vivere sulla propria pelle le conseguenze di un ribasso culturale che ci impedisce di usufruire di personale qualificato e qualificante in tutti i settori.
Osservazioni originali le nostre? No, purtroppo. Sappiamo bene che da più di dieci anni almeno sono stati versati fiumi di inchiostro per denunciare questa situazione. La buona notizia è che da qualche anno si è trovata la soluzione: digitalizzazione ed inclusione. A parte la nostra personale idiosincrasia per slogan e parole-chiave, espressioni più di propaganda spicciola che di serio impegno culturale, vorremmo tentare di ragionare su questi concetti, partendo dall’esperienza reale che ne facciamo a scuola come insegnanti di liceo e di un buon Liceo. Crediamo seriamente che si debba lavorare per una scuola dell’inclusione, come condizione necessaria per formare una società dell’inclusione, una società libera, democratica, una società aperta, per usare un’espressione densa di significato nella nostra tradizione filosofica e politico-culturale. E, nonostante siamo convinti sostenitori del cartaceo e della sua importanza per garantire una formazione critica e riflessiva, siamo altresì convinti che la cosiddetta rivoluzione digitale abbia aperto ed aprirà nel futuro, anche immediato, ad importanti prospettive di studio e di metodo di ricerca. Dunque, inclusione e digitalizzazione sono pilastri della cultura del futuro. D’accordo, nulla da obiettare. Se non fosse che sono solo parole, flatus vocis, che acquistano concretezza e consistenza a secondo della declinazione a cui il contesto sociale e scolastico le piega.
Partiamo dall’inclusione. Doveva significare impegno serio e convinto affinché un numero sempre maggiore di studenti potesse acquistare, oltre ad un titolo formale di studio, strumenti intellettuali per rispondere in modo creativo, rigoroso e responsabile alle richieste che provengono dalla realtà economica e politico-sociale. Qualcosa, però, deve essere andato storto. Senza negare assolutamente la presenza nelle nostre scuole di studenti impegnati e brillanti, tuttavia si registra, in maniera sempre più marcata, anche quella di un fenomeno che cade sotto il nome di “analfabetismo funzionale”. In poche parole, incapacità di usare in modo efficace l’abilità di scrittura, di lettura e di calcolo nella vita quotidiana. Incapacità di esprimere adeguatamente emozioni, stati d’animo e, nello stesso tempo, incapacità di compiere adeguatamente compiti assegnati, perché non se ne capiscono il senso e la finalità. Molti ragazzi, forse troppi, oggi hanno difficoltà a leggere correttamente ad alta voce un testo, anche facile, e non sanno risolvere problemi di matematica e fisica perché, innanzitutto, non riescono a comprendere con precisione le richieste del testo. Leggono poco e scrivono ancora di meno. Analfabetismo vero e proprio, prima ancora che ignoranza scientifica. Ci viene da pensare che probabilmente la scuola dell’inclusione, più che garantire pacche sulle spalle degli studenti, promozioni facili e voti alti, dovrebbe lavorare continuativamente e faticosamente per formare giovani donne e giovani uomini autonomi e critici. Se l’esame di Stato è l’esito coerente di un percorso scolastico, allora, togliere gli scritti non vuol dire aiutare “i nostri poveri ragazzi”, ma spingerli nel baratro dell’ignoranza e della cieca obbedienza.
E così ci colleghiamo al secondo punto: digitalizzazione. La scuola, a questo riguardo, ha certamente il compito di trasmettere conoscenza di linguaggi e tecniche informatiche, ma ha anche e soprattutto quello, a nostro parere, di “arginare gli effetti dell’era digitale, caratterizzata dal boom delle comunicazioni audio-visual, degli sms, che fanno a meno di vocaboli, della sintassi e che sono una delle cause di impoverimento della capacità di espressione”. Il problema prioritario non dovrebbe essere quello di sostituire totalmente il digitale al cartaceo, ma di trasmettere ai giovani conoscenze ed ideali che permettano loro di interpretare il “nuovo” all’interno di una scala di valori sociali e culturali che li rendano ancora protagonisti della loro vita. Proprio per cavalcare l’era digitale e non subirla passivamente, risulta essenziale, negli anni della formazione, un’abitudine alla scrittura di cui l’esame deve rappresentare una fotografia fedele. Qualsiasi produzione scritta, qualsiasi testo argomentato, sia di natura umanistica che scientifica, oltre ad essere segno tangibile di un lavoro continuativo ed oggettivo realizzato nelle classi, è uno strumento formidabile per far maturare capacità riflessiva, ideativa, di analisi e di sintesi. Tutte qualità di cui abbiamo un estremo bisogno per non diventare automi ubbidienti ed indifferenti di un mondo digitalizzato. La scrittura, infatti , è, fin dalle origini della Filosofia occidentale, strumento fondamentale dell’argomentazione logico-razionale; mezzo di espressione esatta e rigorosa di emozioni e sentimenti; veicolo del viaggio affascinante alla ricerca della verità, del senso, dei valori. Ecco perché l’eliminazione delle prove scritte dall’ esame di stato è il colpo di grazia alla scuola pubblica , come luogo di educazione, formazione, istruzione del cittadino, a vantaggio di una scuola finalizzata esclusivamente agli interessi economici particolari delle aziende. Non a caso queste ultime richiedono una scuola basata sull’ acquisizione di competenze svincolate dalla conoscenza e dalla rielaborazione critica e personale dei contenuti.
Non chiediamo, come docenti, di sfornare tanti intellettuali, né tanti robot da scrivania, ma tanti cittadini responsabili, che sappiano almeno scrivere un testo articolato e leggerlo pubblicamente.
Signor Ministro, per favore, ci ridia gli scritti!
Commenti recenti