Riprendiamo un articolo uscito su “Domani” (16 dicembre 2021) nell’anniversario del giorno di ormai 52 anni fa in cui fu scoperta la “morte accidentale di un anarchico” – Giuseppe Pinellli, precipitato dal quarto piano della Questura di Milano nella notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969. (“Licia Pinelli, Piazza Fontana e quella verità che ancora non è diventata giustizia”). L’articolo era stato preceduto da un articolo di Enrico Deaglio “Piazza Fontana e quella verità nascosta per troppo tempo”: scarica qui il pdf). Il nostro Lab aveva già dedicato alla questione dei rapporti fra verità e giustizia alcuni interventi in passato, specie in occasione dell’uscita del film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage, e del libro curato da Stefano Cardini, Piazza Fontana 43 anni dopo: le verità di cui abbiamo bisogno, Mimesis 2021 (https: //www.phenomenologylab.eu/index.php/2012/10/piazza-fontana-cardini-de-monticelli/).
Enrico Deaglio, con la forza della memoria e della scrittura, ci ha offerto un saggio indimenticabile su Piazza Fontana e quella verità nascosta da troppo tempo (Domani, 12 dicembre) – forse condensando all’estremo le verità del libro che ha pubblicato l’anno scorso (La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana, Feltrinelli 2020). “Se fossi il nuovo presidente della Repubblica, nominerei senatrice a vita Licia Pinelli, perché senza di lei non si sarebbe mai raggiunta la verità”, conclude. Mai auspicio fu più condivisibile. In attesa che si realizzi, vorrei – in occasione dell’anniversario della “morte accidentale di un anarchico”, Giuseppe Pinelli, trovato agonizzante nel cortile della Questura di Milano la notte del 16 dicembre 1969 – dedicare una riflessione a questa donna che con una sola frase, emersa dalla profondità di quel dolore che – come dicevano i tragici greci – “insegna” – ha fatto in me più luce di mille professori sulla natura della giustizia. O almeno della giustizia penale – ma anche, in senso più lato, morale.
La frase è tratta da una lunga intervista che Licia Rognoni Pinelli rilasciò all’inizio degli anni Ottanta: “Io parlo di giustizia, e si intende sempre la giustizia del tribunale. Benissimo, la vuoi ottenere anche dai tribunali […]. Ma non basta, la questione della giustizia per me e una cosa più ampia […]. Avere giustizia è che tutti sappiano la verità.” (L. Pinelli, P. Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli, Milano 2009, p. 89).
Non ho più dimenticato questa frase, che illumina di evidenza un problema su cui i filosofi si sono tormentati nei secoli: qual è il rapporto fra verità e giustizia? E’ vero che al fondo del nostro bisogno di giustizia troviamo, come sostenne Simone Weil, “il più nobile” dei bisogni dell’anima umana, il bisogno di verità? O ha ragione quel giudice di cui racconta il grande filosofo americano del diritto, Ronald Dworkin, che all’esortazione ingenua di un ragazzo “Fa’ giustizia, giudice!” rispose seccamente, sporgendosi dal finestrino della sua carrozza “Non è il mio mestiere”?
La luminosa frase di Licia Pinelli colpisce per il paradosso che contiene: ottenere
giustizia è uno dei bisogni più profondi e personali dell’essere umano, soprattutto quando è una vittima che lo esprime: eppure questo bisogno profondo e personale è soddisfatto solo quando “tutti sanno” – chi è innocente, e chi è colpevole. Ottenere giustizia è, al suo livello più profondo, non ottenere qualcosa per sé, ma luce per tutti. Il più personale dei bisogni si tramuta in una richiesta impersonale, anzi: tanto più profondo è il sollievo personale che la sua soddisfazione comporta, quanto meno mista di vantaggio personale è la contemplazione della verità accertata di fronte a tutti.
Certo, di Piazza Fontana ormai si sa tutto: chi, come perché – ci ricorda Deaglio. “Il sindaco di Milano ha finalmente dichiarato Pinelli un innocente perseguitato, e il presidente Sergio Mattarella, nel cinquantenario, ha detto parole forti, non solo consolatorie”. E tuttavia: come sia morto Pinelli, troppo a lungo è rimasto un fatto sepolto in un bruttissimo errore di logica, da nessuno rilevato che io sappia, né allora né poi, anche se non era meno vertiginoso degli ossimori “suicidio passivo” – o “malore attivo” – escogitati da quello stesso Gerardo D’Ambrosio che nel ’75 concluse l’istruttoria sul caso Pinelli. Scagionando chiunque fosse stato presente quella notte in Questura, perché, scrisse, «la mancanza assoluta di prove che un fatto è avvenuto equivale alla prova che un fatto non è avvenuto». Un errore di logica madornale, perché non avere prove equivale semplicemente a non sapere quale sia la verità a riguardo – e non che sia falsa l’ipotesi, o addirittura vera quella opposta. E non è detto che il giudice D’Ambrosio, persona certo integerrima che si illustrò poi nell’epoca di Mani Pulite, non fosse in buona fede: purtroppo alle fedi, della logica, è sempre interessato poco. Ecco: ma ora che – dice Deaglio – sappiamo tutto: c’è stata una catarsi? Perché era questa l’altra luce nella frase di Licia Pinelli. Il rapporto fra giustizia e verità illumina non soltanto la natura della giustizia, ma anche quella della catarsi. E il dramma che il saggio di Deaglio porta a coscienza è proprio questo. No, non c’è stata nessuna catarsi. “Il passato non è morto e sepolto. In realtà non è neppure passato” – Deaglio ripete con Faulkner.
C’è un aspetto dell’universalità implicita nel bisogno di giustizia che risalta nella differenza fra un sentimento morale come l’indignazione e una reazione psicologica come il risentimento o il rancore, per un male che offende solo me o i miei cari. Oggetto dell’indignazione è qualunque forma di torto, chiunque ne sia vittima. E un torto come questo, di una giustizia negata per quarant’anni, è fatto a tutti i cittadini. Ma a una catarsi non basta che tutto sia noto. Occorre che tutti vedano. Quella che manca è l’universalità spettacolare che così bene intuiamo di fronte alle rappresentazioni del Giudizio universale. Dove il momento culminante della giustizia non è l’esecuzione, ma la pronunzia del giudizio – o forse, dove la pronunzia è già l’esecuzione. E’ ciò che idealmente conta. Dove fiat justitia e fiat veritas coincidono. Dove tutti sappiamo chi, in verità, siamo stati, e chi siamo. Se preghiamo Dio di esistere, è perché questo avvenga. Ma non avviene. Non avviene quasi mai.
Commenti recenti