MOLTA POLITICA E POCO DIRITTO NELLA RIFORMA CARTABIA – di Giacomo Costa

lunedì, 2 Agosto, 2021
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Continua la riflessione su questa riforma della Giustizia e sul suo sorprendente, scoraggiante contesto. E’ una questione che come poche altre ha a che fare non solo con la tecnica giuridica, ma con la verità, concettuale e fattuale, e come tale pur nel continuo aggiornamento (come qui) andrebbe seguita e discussa. Altri interventi sul tema saranno dunque benvenuti. 

Pisa, 29VII21

1.La riforma Cartabia si propone di conseguire un obiettivo posto all’Italia dalla Comunità Europea, di ridurre del 25% la durata dei processi. La soluzione di un problema che molti magistrati e osservatori ritenevano complesso non potrebbe essere più semplice: si legiferano degli intervalli massimi di tempo per la durata dei ricorsi in appello (2 anni) e in Cassazione (1 anno), con possibili eccezioni per reati particolari. Il difetto di questa soluzione è che pretende di sopprimere gli effetti senza affrontare le cause. Perciò questa soluzione semplicissima porta con sé un altro espediente sbalorditivamente semplice: cosa si fa se un caso non arriva a giudizio nel termine stabilito?  Lo si fa cessare di esistere, dichiarandolo improcedibile. Parrebbe di essere in un mondo magico, tra Alice nel Paese delle Meraviglie e Lapalisse. Che invece lo scopo non detto di queste due idee sia reintrodurre una forma particolarmente rozza di prescrizione, abrogando la legge Bonafede, risulta chiaro da un’altra caratteristica della proposta di riforma, questa non ovvia: cancella anche la sentenza del processo di primo grado, pur validamente pronunciata. Il buon senso, oltre che i principi generali del diritto, vorrebbe che alla dichiarazione di improcedibilità in una delle impugnazioni seguisse la conferma dell’unico giudizio valido. E allora molti dei problemi che insidiano la riforma sarebbero risolti: non vi sarebbe più occasione di denegata giustizia, il fatto sarebbe accertato e qualificato giuridicamente invece che lasciato a se stesso, l’incentivo a appellarsi si ridurrebbe, il carico di processi di appello si ridurrebbe, e i condannati in primo grado potrebbero cominciare a considerare con interesse i riti alternativi, finora snobbati per perseguire la più attraente prescrizione. Ma nessuno si sogna di attenersi a questa soluzione, essa sì semplice.

  1. Una risposta corporativa? Molti magistrati hanno fatto presente che vanno in primo luogo deflazionati gli appelli, poi rafforzati i tribunali, aumentando il personale di nuovi magistrati e di personale coadiuvante. E hanno fatto notare che l’andata in vigore della riforma Cartabia senza prevedere un congruo periodo transitorio comporterebbe la denegata giustizia e una tacita amnistia in poco meno del 50% dei giudizi di appello pendenti. Ma queste osservazioni non hanno impressionato nessuno. Molti vi hanno visto solo il tentativo di terrorizzare il ceto politico ora che finalmente sta affrancandosi dal potere della magistratura. “Non stupisce per nulla che la più corporativa delle corporazioni abbia subito reagito; i magistrati auditi oggi in Commissione Giustiziahanno smontato la riforma Cartabia pezzo dopo pezzo come una casetta di lego paventando rischi altissimi per il nostro paese,” scrive scandalizzata nell’Huffington Post il 20 Luglio una politologa seria e preparata come Elisabetta Gualmini. Ammettiamolo. Ma le preoccupazioni sono infondate o fondate? “Certo” ammette l’onesta Elisabetta,” alcune richieste sottolineate dai magistrati sono del tutto legittime; il riferimento a un organico ormai ridotto al lumicino, soprattutto sul piano degli assistenti e dei funzionari amministrativi, le scarse infrastrutture per una digitalizzazione piena, i locali e gli uffici fatiscenti, tutto vero. Così come è vero che la durata ragionevole del processo deve anche scendere a patti con il diritto delle vittime di chiedere e ottenere giustizia.” Ma”, prosegue, “come ci spiegano gli studi di scienza dell’amministrazione, il modo in cui la magistratura ha ormai internalizzato una propensione totale all’autotutela non può tenere fermo il paese.”

Ma se le preoccupazioni sono fondate, dove sta il tentativo di “tener fermo il paese”? Anche il povero Bonafede voleva smuoverlo, e vedi di che “risposta corporativa” sta diventando oggetto…

  1. Cosa ci chiede l’Europa. Scriveva la Commissione Europea nel Febbraio 2017 nel suo rapporto sull’Italia: “Il termine della prescrizioneostacola la lotta contro la corruzione…Le sfide dell’Italia legate alla corruzione ad alto livello, ai conflitti di interesse, ai collegamenti con la criminalità organizzata e la corruzione nel settore privato sono ancora confermate da diversi indicatori”. E proseguiva: “Il sistema attuale ostacola considerevolmente la repressione della corruzione, non da ultimo perché incentiva tattiche dilatorieda parte degli avvocati”, sicché “nel complesso, un’alta percentuale di cause cade in prescrizione dopo la condanna di primo grado”. Anche per questo motivo era arrivata la riforma Bonafede, che bloccava la prescrizione dopo il primo grado. E infatti tre anni dopo la commissione Ue ha definito quella legge come “una riforma benvenuta, che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, cosa che è in linea con una raccomandazione specifica per il Paese formulata da tempo“. Ora il governo dell’europeo Draghi intende smantellare quella riforma che proprio l’Ue aveva elogiato.
  2. Draghi. Per il ceto politico la possibilità di sfuggire ai processi avvalendosi della prescrizione sembra una conditio sine qua non di tranquilla operatività se non sopravvivenza. Esso è pronto a distruggere un pezzo di Stato, ossia la sua funzione giurisdizionale, per ottenere il sollievo desiderato. E’ come se il personale di bordo di un areo per evitare gli occasionali vuoti d’aria decidesse di rimuoverne le ali. Sin qui, la politologia della Gualmini, applicata al ceto politico, spiega la realtà. L’atteggiamento di Draghi è meno facile da interpretare. Da tecnocrate europeo, avrebbe potuto puntare su un piano di investimenti sulla digitalizzazione e altri aspetti logistici senza inoltrarsi in problemi che non conosce come l’impianto del processo penale, i suoi aspetti sostanziali e procedurali. Forse aveva creduto che la Cartabia li conoscesse, ma resta da spiegare la sua ostinazione dopo l’amaro risveglio. Come capo di un governo apolitico, la sua posizione è fragile ma anche fortissima. Tutti lo vogliono perché sarebbe l’unico capace di “portarci i soldi dall’Europa”. Divenuto così un autocrate italiano, può avergli dato fastidio che ci sia qualcuno che osi discutere in Parlamento un provvedimento approvato in Consiglio dei ministri: giammai! Il Parlamento sarebbe utile solo come passacarte e altrimenti una minaccia alla stabilità del suo governo. Un’altra ipotesi è che il suo impegno a favore della riforma Cartabia sia il quid pro quo di una promessa di voti per l’elezione a Presidente della Repubblica. Non molto plausibile se si suppone che aspiri soprattutto alla nomina a Presidente della Commissione Europea. Poiché la riforma Cartabia è l’opposto di ciò che ci chiedono le istituzione europee, le quali non vivono in un continente lontano, e non mancano di condannarci per infrazioni alle loro norme e sentenze, rischia di giocarsela.

 

 

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