Una volta tanto ne nasce un vero dibattito? Riprendiamo qui questo articolo che Raffaele Alberto Ventura ha pubblicato su “Domani” il 24 agosto, in risposta all’articolo di R. De Monticelli del 20agosto:
Raffaele Alberto Ventura (1983) ha già al suo attivo saggi che hanno trovato notevole riscontro nella sua generazione:
- Teoria della classe disagiata, Roma, minimum fax, 2017
- La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale, Roma, minimum fax, 2019
- Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, Torino, Einaudi, 2020.
Come altri autori della sua generazione – Ventura sente molto il richiamo marxiano: in sociologia, nella chiave di Bourdieu e della sua teoria della ripreoduzione del dominio attraversol’educazione, in storia, in quella del grande affresco storico alla Eric Hobsbawn. Da cui sembra desumere, e applicare alla sociologia, appunto, di questa sua generazione, la categoria catastrofista di collasso o frana che riguarderebbe il mondo occidentale capitalistico a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso. Magari riprenderemo la discussione!
Potenza della poesia: recensendo qualche giorno fa la nuova edizione della Terra desolata di T.S. Eliot, resa “devastata” dalla curatrice Carmen Gallo, avevo evocato le catastrofi che lastricano la marcia del progresso; a stretto giro ha reagito la filosofa Roberta de Monticelli per difendere, invece, le ragioni della ragione. A rendere più concreta la discussione sono le notizie che ci giungono dall’Afghanistan, terra realmente devastata le cui vicende si prestano a una duplice lettura: chi, come De Monticelli, sembra vedere nel trionfo dei talebani ciò che accade quando ci si arrende al relativismo; e invece chi, come il sottoscritto, tende a interpretare simili tragedie umanitarie come conseguenze inevitabili dei nostri tentativi di imporre il bene con la forza. Molte firme di questo giornale parteggiano per la prima, a partire dal direttore Stefano Feltri che ha scritto: “Esportare democrazia e diritti rimane un dovere” (se possibile, precisa, senza le bombe).
Il dilemma è lo stesso che occupa chi provi a tradurre il titolo del celebre capriccio di Goya, “El sueño de la razón produce monstruos”: il problema è il sogno oppure il sonno? Troppa ingerenza o troppa poca? È difficile, credo, negare che l’orrore in Afghanistan sia stato amplificato e potenziato dai mezzi tecnici messi a disposizione dalle potenze imperialiste che, in nome dei loro opposti illuminismi, si sono affrontate lungo decenni per civilizzare la regione. Ma De Monticelli distingue: non bisogna “confondere i crimini coloniali e la ragione” o “peggio, attribuire alla ragione i crimini coloniali, e gli altri più recenti.” Qui non s’intende con ragione una particolare facoltà mentale, quella di ordinare i pensieri in modo logico, ma un sistema di valori che gira, come la filosofa ricorda, attorno all’ideale universalista — il principio secondo cui esistono dei valori etici condivisi da tutti gli esseri umani, e che sia un dovere morale garantirli. Chi oserebbe mai affermare che questo altissimo ideale sia causa di violenza?
Facciamo un rapidissimo excursus storico: i primi a farlo furono i pensatori controrivoluzionari, nostalgici dell’Antico Regime; poi vennero i giuristi tedeschi della cosiddetta Scuola Storica, che denunciavano le mire imperialiste della Francia bonapartista; ma a rendere realmente popolare la critica del pensiero progressista a cavallo tra Ottocento e Novecento fu Nietzsche, che si impegnò a dimostrare che dietro ai più alti principi si nasconde sempre qualche secondo fine, dietro ogni mascheramento sociale un tessuto di violenze. È nella seconda metà del Novecento che questo filone di pensiero contro-illuminista, classicamente conservatore, s’intreccia con il marxismo e l’anti-imperialismo di sinistra, prendendo varie strade, tra cui quella della Scuola di Francoforte e quella dello strutturalismo francese. Le ragioni della Germania ottocentesca erano ormai quelle dell’Algeria, del Vietnam, dell’America latina. Oggi il pluralismo giuridico trova terreno fertile nei paesi islamici, dove la sharia generalmente oppone resistenza alle tendenze centralizzatrici. Ma già Marx considerava i diritti umani come un inganno borghese. Più che di destra o sinistra, a noi pare che la questione sia strategica: i colonizzatori (siano essi romani, francesi, sovietici o americani) tendono a difendere ideali universalisti, mentre i poteri territoriali (che siano eroici guerriglieri o clan di narcotrafficanti) traggono una rendita di posizione dalla difesa dei costumi locali, spesso patriarcali o reazionari. Gli interessi inconfessabili non sono soltanto da una parte. Scale di dominazione diverse si oppongono e sembrano imporci la scelta del male minore.
A prima vista è una scelta facile, a meno di spingere il relativismo là dove confina con la malafede: appare indubbiamente migliore una società dove le donne non vengono segregate, le minoranze oppresse, la legge esercitata in maniera arbitraria. Quasi per definizione, la civilizzazione è preferibile alla barbarie. Ma quanta violenza siamo disposti a scatenare perché il bene trionfi? E sarà mai sufficiente? Forse la questione era mal posta fin dall’inizio: il problema non è mai stato se esistano dei valori universali, ma se qualcosa di buono possa attecchire senza predisporne le condizioni sociali, economiche, demografiche, culturali, linguistiche, urbanistiche, infrastrutturali, rispettando tempi storici incomprimibili, investendo enormi quantità di risorse, spostando montagne e deviando il corso dei fiumi. Una società in cui le donne non vengono segregate, le minoranze oppresse, la legge esercitata in maniera arbitraria è indubbiamente preferibile perché se lo può permettere. Ma se fosse così facile si saprebbe: e invece, quante modernizzazioni fallite nell’ultimo secolo. E quanti territori lasciati peggio di prima, quante terre devastate — anche nelle nostre periferie, nelle nostre campagne, nelle nostre prigioni, nelle nostre discariche.
La ragione che fa danni è quella che non tiene conto della resistenza del reale, e procede come un treno fino a sbattere contro il muro, perché scambia la mappa col territorio. In questo caso il rimedio si rivela peggio del male, già orribile. Eliot lo esprimeva così: “Un tempo chi voleva interferire con le faccende degli altri tramava con discrezione, mentre oggi lo rivendica apertamente in nome dell’interventismo”. Ma Eliot, il conservatore Eliot, l’amico di Ezra Pound, non è certo un testimone neutrale: è solo uno dei tanti vati scomodi dell’antimodernismo, esponente di una generazione che ai danni collaterali della civilizzazione non ha saputo opporre altro che la fascinazione per la barbarie.
Il compito della nostra generazione, invece, è d’immaginare un universalismo sostenibile, una ragione ragionevole, un progresso non devastatore. Se il relativismo ci pare troppo spaventoso, forse basterà temperare la nostra aspirazione al bene con un po’ di sano scetticismo: siamo davvero sicuri di quello che ci appare universalmente giusto? Siamo davvero sicuri di essere in grado di dare lezioni ad altri? Siamo davvero sicuri che il rimedio che proponiamo non sia peggio del male? Ma soprattutto, abbiamo i mezzi per non lasciare il lavoro a metà? Insomma i nostri buoni propositi possono permettersi un impero? Osserviamo come sta andando a finire in Afghanistan: l’ideologia dei talebani è spaventosa non in quanto arcaica morale di pastori, ma proprio perché aspira a essere un universalismo; oggi può finalmente imporre un’unica legge su un ampio territorio, parassitando le infrastrutture statali messe in piedi dai modernizzatori. Questa è un’altra cosa che ci ha mostrato la storia delle catastrofi novecentesche, ovvero quanto sia facile dirottare un sistema costruito con le migliori intenzioni per farne una macchina di morte.
Domande perfette. Ma le risposte sul piano operativo non sono semplici, non soltanto in merito alle possibili conseguenze delle nostre “pure ottime intenzioni”, ma anche in merito alle intenzioni stesse. L’atteggiamento da assumere rispetto all’Afghanistan e ad altri Stati o gruppi umani i cui standard valoriali in merito alle idee di libertà, di eguaglianza, di fraternità, di dignità, di giustizia, divergono dai nostri, deve anzitutto riconoscere che la pretesa di universalità con cui le affermiamo nelle nostre dichiarazioni è sostenibile sempre a prezzo di una certa genericità che tiene poco conto del fatto che anche i valori, come ogni costrutto di senso, si danno secondo prospettive storico-culturali intersoggettivo-relative. Da ciò non discende necessariamente alcun nichilismo relativista, alcuna fascinazione per la barbarie e neppure la rinuncia ad affermare la propria prospettiva su che cosa sia degno o indegno dell’uomo, ma la disponibilità a riconoscere che l’Altro potrebbe essere cieco alle nostre ragioni non meno di quanto noi lo siamo alle sue, una sorta di principio di precauzione reciprocamente responsabilizzante, che muova dalla considerazione che sia noi sia quegli strani esseri umani che a volte sono gli Altri abbiamo anzitutto necessità di sopravvivere dignitosamente secondo standard minimi commensurabili ed è su questa necessità che un accordo etico minimo di non aggressione si può e dunque si deve trovare. Il problema della “guerra giusta” per come dagli anni 90 è stata discussa e propagandata, invece, è che le condizioni per intraprenderla sono state spesso frutto di interpretazioni menzognere, discutibili, se non interessate, e comunque fortemente influenzate dalla nostra comprensibile ma problematica tendenza a modellare la storia degli Altri sulla nostra, con analogie su protagonisti, eventi e processi, spesso sommarie se non anche in malafede. Da questa presunzione di conoscenza e di primato delle nostre ragioni su quelle degli altri sono derivate molte nefaste conseguenze, la prima delle quali è stata l’abbandono progressivo di qualunque argine all’aggressione internazionale non soltanto da parte dei “terroristi”, il che è normale, ma degli Stati e persino sotto le bandiere dell’Onu. Quale reputazione, quale credibilità e quale fiducia nelle nostre “pur ottime intenzioni” è potuta derivare da tutto ciò? Lo dimostra lo squagliarsi delle truppe irachene da noi “pagate” più che addestrate e coltivate alla fedeltà allo Stato. Eppure ancora oggi si insiste su questa strada, si paventano ricatti, sanzioni, ritorsioni economiche e morali nel nome di “donne Afghane” di cui abbiamo dopo vent’anni pochissima evidenza, oppure, come Giuliano Ferrara su Il Foglio di sabato scorso, si ribadisce non essere qui questione di valori più o meno universali, bensì di concreti interessi geopolitici generali “del mondo libero” da salvaguardare con tutti i mezzi disponibili punto e basta, interessi intesi su una scala temporale di lungo periodo, la stessa sulla quale guardano al mondo i cinesi. Ed ecco che dietro i sacri valori del mondo libero, rispuntano gli stivaloni hegeliani con la solita trascurabile polvere da sacrificare alla Storia. Ferrara lo chiama: il primato della politica.
Articolo sintetico ed equilibrato; civiltà e interessi difficilmente disgiungibili.il ritiro degli Usa scopre la debolezza della potenza europea nello scacchiere mondiale.
Utopia retroattiva
Un universalismo sostenibile mi sembra una bella definizione, che va sostanziata naturalmente, e che ovviamente non poteva essere sviluppata in poche righe. A me pare che il punto che può legare ragione e storia, e quindi un universalismo sostenibile, risiede nella maturazione di esigenze di riconoscimento: nella storia si fanno avanti esigenze di riconoscimento, e questi producono valori, ma valori che non rispondono e non danno voce a esigenze sentite diventano imperialismo culturale, quando non imperialismo tout court. Grazie per aver aperto questa discussione