Viktor Orban e le due idee d’Europa

lunedì, 26 Luglio, 2021
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Qualche giorno fa è uscita su “Domani” questo articolo che aggiungiamo qui ai molti capitoli precedenti della riflessione del Phenomenologylab sull’idea di Europa e l’UE. Scarica qui il pdf.

Perché la Dichiarazione per il Futuro dell’Europa che il premier ungherese Orban ha preso l’iniziativa di lanciare, e alla quale hanno aderito i leader dei partiti sovranisti italiani, ha suscitato così poco scalpore? Forse perché non tutti sanno, o ricordano, che c’era già un’idea di Europa tutta diversa da quella che l’Unione Europea pur con tutti i suoi limiti incarna. L’altra idea di Europa era quella di un impero, erede di quelli antichi, con il suo cuore germanico: una sorta di faro e fortezza contro l’ondata bolscevica e l’internazionalismo comunista, certo, ma anche contro l’americanismo, i “valori materialisti”, il capitalismo finanziario internazionale dominato dai senza-radice. L’Europa sarebbe dovuta essere  un bastione che resistesse all’urto della modernità, con i suoi “mediocri” ideali di libertà e  benessere per tutti, la “chiacchiera” della sua stampa quotidiana, il disordine delle democrazie e il vero potere delle sue élites cosmopolitiche, l’universalismo mercatista con l’astratta filosofia dei diritti e la ragione “calcolante” delle sue istituzioni e burocrazie, il dominio della tecnica e del suo freddo linguaggio distruttivo delle comunità, delle identità, degli antichi legami, il disprezzo per le gerarchie naturali e sociali di potenza e virtù, la compressione dei valori vitali a vantaggio di un razionalismo soffocante, il perenne tarlo critico, il radicalismo, la distanza dal vero popolo dei suoi intellettuali. A tutta questa sradicata e smemorata modernità si doveva opporre la sovranità dei veri individui storico-universali, coloro che interpretano lo spirito di un popolo, le sue tradizioni, la sua lingua, le sue viscere. C’erano una filosofia del diritto e un pensiero politico opposti a quelli che nell’ultimo mezzo secolo di storia hanno rielaborato, in Europa, l’intera tradizione illuministica, l’universalismo giuridico e quello etico, il pensiero politico delle tradizioni liberale, socialista, repubblicana, federalista e perfino comunitarista. Un pensiero che diceva – anzi gridava, e persuadeva la gente nelle piazze: basta con l’astratto imperio del diritto, basta con il governo della legge superiore a quello degli uomini, basta con il formalismo delle cieche regole – vero sovrano è chi decide negli stati d’eccezione, e rinnova la forza della nazione, e incarna, con il destino del suo popolo, il destino di questa Europa.

A quella idea Orban e i suoi seguaci romani stanno tornando, anche se tanto ci era costato sconfiggerla, perfino in noi stessi – e non fu sufficiente una guerra mondiale. Ci volle il kairos storico che combinò le linee di forza della situazione geopolitica di allora col pensiero di alcuni visionari, e questa combinazione unica produsse il seme da cui sarebbe nata l’Unione Europea, quella che oggi così chiamiamo. Ma l’altra idea d’Europa non finì certamente a processo, a Norimberga o a Gerusalemme, come ci finirono alcuni fra gli uomini che avevano provato a realizzarne gli aspetti più sanguinari. Anzi in un certo senso, per vie inaspettate, una forte componente dell’altra idea di Europa vinse nelle università e nelle scuole del continente la battaglia che aveva perduto sul terreno delle armi, ma soprattutto su quello dell’esperienza morale di milioni di persone. Successe qualcosa di simile a quello che era accaduto al pensiero greco nel mondo seguito alla vittoria romana, ma a parti rovesciate: il pensiero peggiore si apriva nelle menti il varco che i vincitori avevano sbarrato al governo degli uomini e delle cose. L’altra idea d’Europa non si limitò affatto a sopravvivere in silenzio.  Ben più che sue tracce: l’ossatura stessa di quel pensiero pervade opere del Novecento che ancora oggi si studiano con passione. E non semplicemente perché studiare è sempre giusto e indispensabile, ma per trarne insegnamenti contro obiettivi polemici dalla strana, inquietante assonanza con quelli di allora. La finanza internazionale. Le élites cosmopolitiche. L’universalismo mercatista e l’astratta filosofia dei diritti. La ragione “calcolante”, il dominio della tecnica. Il radicalismo critico e sradicante degli intellettuali, il loro moralismo. Con un più di metafisica complottista: la “macchinazione universale” (effetto di tutte quelle perfide potenze della modernità sradicante), il suo esito smemorante rispetto a ciò che eravamo autenticamente (l’oblio dell’essere).

Sono “classici” come Martin Heidegger o Carl Schmitt, il primo dei quali ha sostanzialmente, per tutta la seconda metà del secolo scorso, costituito il secondo pilastro del canone della filosofia detta “continentale” nell’insegnamento europeo, scolastico e universitario. L’altro pilastro essendo la tradizione storicistica hegeliana e post (marxismi compresi). Con la sua mitologia radicalmente anti-illuministica della storia, per la quale – qualcuno forse ricorda ancora la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno-Horkheimer (1947)-  l’Illuminismo, appunto, “conduce ai campi di sterminio”.

Non sono, il pilastro heideggeriano e quello hegeliano e post, i soli: ma certo sono stati determinanti per il canone di insegnamento di molte generazioni. Quello stesso insegnamento che così raramente, per non dire mai, trasmette la conoscenza precisa dell’idea di Europa che invece sta a fondamento dell’Unione Europea. Ma quale sia la straordinaria audacia e novità di quest’idea in duemill’anni di filosofia politica, quali radici di esperienza morale e di pensiero filosofico la nutrano, quali siano le questioni ancora aperte, quali i punti critici, quali gli aspetti da rivedere: su tutto questo l’insegnamento medio e universitario con poche eccezioni, ma anche il dibattito pubblico italiano non ha che una parola: ignorabimus.

Parliamo fin troppo di valori “europei” – dimenticando che la Carta dei Diritti dell’UE fa riferimento al pensiero universalistico dei Diritti Umani incarnato nella Dichiarazione del 1948. Ma anche che per molti aspetti l’approfondisce, integra e rinnova. Sono precisamente quegli aspetti che chiamano i cittadini europei come tali a esistere ed esprimersi, come fonti principali di una “sovranità” democratica che è sovraordinata, e non subordinata a quella delle rispettive nazioni. Fra i sei valori che aprono la Carta dei Diritti, spicca quello di Cittadinanza: si intende, l’esercizio della propria capacità di contribuire alle decisioni e alle norme che riguardano tutti. Paradossalmente, proprio i sovranisti che cercano di creare un movimento politico sovranazionale interpretano questo valore meglio di chi ignora altre questioni che quelle della politica spicciola del suo paese. Ma i sovranisti lo interpretano anche in direzione contraria a quella degli altri cinque valori. La dignità dell’individuo a prescindere dalla sua identità personale, culturale, etnica e di genere. La libertà e l’eguaglianza (nell’essere essere come si è, ed essere protetti nelle proprie legittime aspirazioni). La solidarietà che deve ispirare norme capaci di promuoverla per tutti, questa eguale libertà, e non di coartarla per alcuni. La giustizia, che tutte queste condizioni riassume.  Che risposta stanno dando gli altri cittadini, e i partiti che li rappresentano, a una Dichiarazione per cui “la sovranità in Europa è e deve rimanere in capo alle nazioni europee”, che chiama “strumento di forze radicali” al servizio di un “Super-stato europeo” quel po’ di esistente struttura istituzionale di una Federazione, senza la quale la solidarietà fiscale degli Eurobond (fra l’altro) non ce la potremmo sognare? E’ “iperattivismo moralista” il nostro? E’ in corso, appunto, una Conferenza sul Futuro dell’Europa, che è una grande opportunità di esercizio di cittadinanza, aperta a ciascuno e naturalmente ai partiti: qualcuno se ne è accorto, oltre ai sovranisti?

Ma allora, basta invocare l’atlantismo per rispondere a Orban (come fa Emanuele Felice, “Domani”, 10/7)? Non sarà certo la geopolitica atlantica, soprattutto ai confini orientali dell’Europa, a curare il male che Orban rievoca: l’esperienza di un altro “Super-stato”, quello sovietico. La cognizione del dolore dei suoi popoli d’Europa ha radici diverse. Riconoscere questa nostra memoria plurale e dolente è parte essenziale di una buona idea di Europa.

 

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