Robert Reich e il capitalismo italiano. Antonio Calafati sul libro Il sistema. Perché non funziona e come possiamo aggiustarlo

giovedì, 24 Giugno, 2021
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa nota al volume di Robert Reich Il sistema. Perché non funziona e come possiamo aggiustarlo (Fazi Editore 2015) di Antonio Calafati, disponibile anche sul blog dell’Autore.

Leggere Robert Reich sarebbe d’aiuto, per dare profondità al nostro sguardo sulla società, per comprendere come sta cambiando la nostra economia. I suoi libri recenti sono stati tradotti – anche l’ultimo: Il sistema. Perché non funziona e come possiamo aggiustarlo (Fazi Editore, 2021). Il suo stile narrativo diretto, la sua capacità di spiegare in modo chiaro e semplice temi complessi li rendono accessibili, trasformandoli in strumenti preziosi per partecipare al dibattito pubblico. Da che parte stia nella sua militanza intellettuale Reich lo dichiara: Come salvare il capitalismo (Fazi Editore 2015) è il titolo di un suo precedente libro. E il ‘sistema’ da aggiustare di cui parla nel suo ultimo lavoro è il capitalismo, quello americano. La sua prospettiva analitica la possiamo usare, però, anche per salvare il capitalismo italiano.
Robert Reich ha insegnato in prestigiose università americane ma ha anche svolto incarichi amministrativi importanti, fino a servire (1993-97) come Segretario del Lavoro nell’Amministrazione Clinton. Negli ultimi anni si è imposto come influente intellettuale pubblico – capace di esprimersi anche attraverso documentari di grande interesse sulla società americana (www.inequalitymedia.org). Ciò che lo distingue è il ruolo che assegna all’ordinamento istituzionale nel determinare i caratteri del capitalismo. I codici morali degli individui e le norme formali – leggi, regolamenti – sono all’origine delle concrete manifestazioni storiche del capitalismo. All’ordinamento istituzionale e alla sua evoluzione dobbiamo rivolgere il nostro sguardo analitico e progettuale.

La proprietà privata è una istituzione costitutiva del capitalismo, ma le forme in cui si manifesta sono innumerevoli e mutevoli, perché nello spazio e nel tempo diversi sono le leggi, i regolamenti e i codici morali degli individui che ne definiscono i confini. Per una lunga fase della sua breve storia, ci ricorda Reich, nella società americana era possibile possedere schiavi. L’abolizione di questa forma di proprietà privata non ha significato abolire la proprietà privata, ma ha avuto l’effetto di cambiare la vita di milioni di persone e il modo in cui funziona l’economia. Ugualmente, secondo Reich, tassare l’eredità non mette in discussione la proprietà privata; piuttosto, è uno strumento per salvare il capitalismo (e la democrazia). Regolare il mercato non mette in discussione il capitalismo, lo fa solo funzionare come vogliamo che funzioni.
Reich rifiuta le astratte rappresentazioni del sistema economico. I mercati delle economie nelle quali viviamo oggi non sono i mercati che osservava Adam Smith nella seconda metà del Settecento. Sono diversi gli agenti che vi partecipano, le merci che vi si scambiano e le norme che ne regolano il funzionamento. La proprietà privata è regolata nella nostra società da norme formali e informali molto diverse da quelle in essere agli albori del capitalismo, così come molto diverse sono le norme che regolano l’organizzazione della produzione.
Una parte dell’ordinamento istituzionale che modella il capitalismo è fatta di leggi e regolamenti: sono i suoi fondamenti giuridici, fissati da scelte effettuate dai governi, dai parlamenti e dagli altri organi deliberativi. La specifica forma di capitalismo manageriale che si è affermato negli Stati Uniti dagli anni Settanta, con la sua rigida determinazione a massimizzare i dividendi degli azionisti senza mostrare alcun interesse per le conseguenze su tutti coloro che dall’impresa dipendono per il loro benessere, è la conseguenza di scelte politiche che hanno cambiato le norme sulle quasi si basa l’interazione. Se, come ci ricorda Reich, il reddito medio degli amministratori delegati delle grandi imprese rispetto a quello dei dipendenti è oggi abissalmente superiore a quanto lo fosse negli anni Settanta; se una grande banca paga multe per miliardi di dollari per comportamenti ‘impropri’ grazie ai quali realizza, al netto delle multe, miliardi di dollari di profitti, è perché è stato scelto e introdotto un dato ordinamento istituzionale. Le gigantesche iniquità nella distribuzione del reddito e della ricchezza, i disequilibri del mercato del lavoro, la drammatica crisi ecologica hanno all’origine l’ordinamento istituzionale che è stato dato al capitalismo americano sulla base di un progetto politico.

Un capitalismo da salvare quello americano, nell’interpretazione di Reich. Distorto nel suo funzionamento dai cambiamenti nei fondamenti giuridici dettati dal paradigma neoliberale. Distorto anche dalla sconsolante degenerazione dei codici morali dei politici, delle imprese e dei suoi amministratori – un tema al quale Reich ha dedicato un altro recente libro: The Common Good (New York, Knopf, 2018). Una degenerazione che ha un’origine culturale, ma che è stata facilitata nella sua diffusione dall’idea che il mercato risolva il problema della moralità delle nostre azioni. Nei suoi libri Reich ritorna continuamente sul tema della degenerazione dei codici morali, fa elenchi di azioni inqualificabili che hanno segnato la storia recente del capitalismo americano. (Un elenco che potremmo stilare anche in Italia, con la stessa facilità e altrettanto lungo, al quale aggiungere i recenti drammatici casi di degenerazione dei comportamenti delle imprese e dei suoi amministratori.)
Spostando il focus della riflessione sui cambiamenti dei fondamenti giuridici del capitalismo, Reich ha riportato al centro dell’attenzione le scelte politiche che modellano il capitalismo. Una prospettiva analitica che permette di comprendere l’evoluzione della società e dell’economia degli Stati Uniti. Una prospettiva che sarebbe molto utile utilizzare per studiare l’evoluzione della società e dell’economia dell’Italia, un Paese nel quale il dibattito pubblico si è da decenni concentrato sui disequilibri macro-economici, mentre sono passati in secondo piano gli effetti delle profonde ed estese trasformazioni dell’ordinamento istituzionale che sono state realizzate.
Dalla metà degli anni Novanta, in Italia sono avvenuti profondi cambiamenti nei fondamenti giuridici di molti mercati. Nel mercato della moneta, naturalmente, e in quelli, ad esempio, del settore della sanità e dell’istruzione. Ma anche nel mercato dei suoli urbani, dove i cambiamenti normativi che hanno permesso di realizzare nelle città e nel territorio grandi progetti di trasformazione urbana su base negoziale hanno avuto profondi effetti sulla formazione della rendita, sull’allocazione delle risorse finanziarie e sulla distribuzione del benessere. I caratteri fisici delle città italiane hanno iniziato a mutare in seguito a processi decisionali tecnocratici, fuori dal controllo democratico, senza un piano che cercasse un equilibrio tra centro e periferia, tra città e hinterland. Si è trattato di un cambiamento dell’ordinamento istituzionale di enorme portata introdotto in assenza di riflessioni analitiche, di indagini teoriche ed empiriche capaci di anticiparne gli effetti di lungo periodo.

Cambiamenti radicali sono avvenuti anche nei fondamenti giuridici del mercato del lavoro. Gli effetti che sulla relazione tra livello dei salari e innovazione tecnologica, tra instabilità dei rapporti di lavoro e benessere individuale, tra livello dei salari e caratteri dei piani di vita, tra produttività e sicurezza sul lavoro sono stati discussi con imbarazzante superficialità e approssimazione. Ad esempio, non ci si è soffermati con un’intenzione analitica sui drammatici costi sociali della ‘flessibilità’ del mercato di lavoro, per cercare di valutarne gli effetti sulle variabili che definiscono il benessere sociale – il meta-obiettivo che fonda l’azione politica in una democrazia.
Per giustificare i cambiamenti dei fondamenti giuridici della nostra economia introdotti dagli anni Novanta – come in ogni altro Paese nel quale il paradigma neoliberale è diventato egemone – in Italia ci siamo affidati a narrazioni ideologiche oppure a esercizi di scientismo. Come è accaduto anche in occasione del referendum costituzionale del 2016, con numerosi economisti schierati a difesa di inattendibili modelli che ‘pre-vedevano’ catastrofici effetti sull’andamento del Prodotto interno lordo (Pil) in caso di vittoria del No – come se il Pil potesse essere la variabile con la quale valutare gli effetti di cambiamenti delle Costituzioni.

Robert Reich parla del capitalismo americano, ma la prospettiva metodologica e le categorie che ci propone aprono un nuovo scenario alla riflessione critica sull’evoluzione del capitalismo italiano. Ci insegna a riportare la riflessione sui fondamenti giuridici del capitalismo sul terreno della scienza sociale. Ci mostra come discutere degli effetti di cambiamenti delle norme formali e informali sulla base di relazioni causali falsificabili, di narrazioni che possono essere contraddette o integrate. Un contributo prezioso in un passaggio critico nella storia recente della società italiana, mentre profondi cambiamenti nei fondamenti giuridici del nostro capitalismo – le ‘riforme strutturali’ che la Commissione Europea ci ‘imporrebbe’– entrano in una posizione prioritaria nell’agenda politica. Chi si mobiliterà in Italia – nella comunità scientifica, nel giornalismo, nei partiti e movimenti – per discutere della razionalità politica delle ‘riforme strutturali’ contenute nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza?

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