Bollettino di guerra dell’Istituto Nazionale di Statistica del 16 giugno 2021:
– oltre 5 milioni e 600 mila poveri assoluti, di cui 2 milioni e mezzo al Nord, per un totale di circa 2 milioni di famiglie, che hanno visto peggiorare le loro condizioni, in particolare, nelle regioni settentrionali;
– l’11,3% dei poveri assoluti si trova nella classe d’età 18-34.
– 1/3 circa di cittadini stranieri in Italia sono poveri assoluti.
Il dispositivo ideologico italiano, tuttavia, che opera nella quasi totalità dei partiti e nella stragrande maggioranza dei media, invoca esoterici licenziamenti “selettivi”, tagli salariali (in un Paese che nel 2020 di salari ne ha persi per 40 miliardi), minori tutele per i lavoratori (soprattutto pubblici, come medici e infermieri…), più sacrifici da parte dei nostri giovani – che non reggono la competizione con i giovani migranti – e più rischio d’impresa (tutti start-upper come Guido Barilla).
L’idea interessante che ispirò il film Matrix, fu quella di immaginare un mondo in cui tutto quello che quotidianamente era vissuto fosse virtuale, frutto di una immensa rete computazionale che innervava di dati le coscienze sopite di milioni di esseri umani ordinatamente classificati e riposti in capsule amniotiche che li mantengono in vita senza consentire loro il contatto con la realtà. Solamente un gruppo di ostinati resistenti ne erano ancora coscienti, opponendosi al grande inganno, in attesa – ovvio – di un Messia che rompesse l’incantesimo.
Non sarebbe male, in effetti, se un Neo qualsiasi ci risvegliasse dal sonno della ragione.
Il solo a essere seguito con fede cieca da milioni di persone, invece, è il Presidente del Consiglio, che si appresta dalla sua “cabina di regia” – così la chiamano – a inserire per ben 6 anni il pilota automatico al Paese, definendo la traiettoria di vita di un paio di generazione almeno di ragazzi. Per un po’ alcuni (non molti) hanno dubitato, e tuttavia sospeso il giudizio, concesso comprensione a chi sottolineava la sua autorevolezza, la competenza, la sobrietà istituzionale, persino a chi vedeva in lui l’incarnazione del “keynesiano” d’ordinanza sempre evocato (solo a parole) per risolvere le situazioni di crisi. Ora che il governo è in sella da quattro mesi, però, ora che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è stato varato, qualcosa di più preciso si può cominciare a dire. Anche perché, a leggere la maggior parte dei quotidiani, di destra e di sinistra, ad ascoltare la maggior parte dei programmi televisivi, soltanto l’ipotesi che milioni di persone abbiano scelto volontariamente di vivere come pecore elettriche può spiegare l’acquiescenza al suo operato, le critiche al quale – peraltro piuttosto rare – risultano punture di spillo utili più che altro a impedirci di vedere, distratti dai particolari, un merito e soprattutto un metodo che dovrebbe invece allarmare.
La vastità dell’impresa, d’altronde, non aiuta.
Quali “competenze” dovremmo avere per entrare nel merito di un piano di governo di tale ambizione e che – non meno, peraltro, di quello abbozzato del precedente esecutivo – alloca la futura spesa pubblica in capitoli di sintesi dal profilo misterioso come “digitalizzazione, innovazione, competitività e… cultura” (43M), destinando il grosso degli investimenti a indecifrabili endiadi come “rivoluzione verde e transizione ecologica” (57M), “inclusione e coesione” (17M)? Inadeguati al compito di svelare la razionalità così ben celata di queste allocazioni, abbiamo pensato di isolare alcuni provvedimenti che speriamo di riuscire a comprendere e far comprendere, nella speranza di mostrare nella parte il tutto di una visione della società, dell’economia e della politica che siamo convinti saranno definitivamente esiziali per il Paese. Riguardano tutti, ma soprattutto i giovani, al quali pure il governo e chi – volente o nolente – lo sostiene, dice di tenere particolarmente.
Partiamo dal grande regalo alle nuove generazioni: mutui prima casa a chi ha meno di 36 anni fino a 250.000 euro garantiti dallo Stato. Perché no? Sappiamo quanto sia difficile per i giovani trovare un lavoro stabile e ben pagato, mettere su casa, farsi una famiglia ecc. Se per loro non garantiscono i genitori, senza un contratto a tempo indeterminato, non hanno alcuna possibilità di ottenere un mutuo. E se hanno addirittura una partita Iva forfettaria, ossia sono quasi sempre dipendenti mascherati da freelance, non ci devono neppure provare.
La questione abitativa, però, in Italia s’illustra piuttosto bene partendo da un solo dato. Tre famiglie su quattro vivono in una casa di proprietà. Tante? Sì, decisamente, anche se meno di quanto si creda rispetto a Paesi comparabili al nostro. E infatti, dalla crisi del 2007 – 2008, generata proprio dalla gigantesca bolla immobiliare americana, anche e soprattutto in Italia abbiamo assistito a una profonda divaricazione tra redditi delle famiglie e costi dell’abitare, divenuti per molti insostenibili. Redditi stagnanti, a forza di indebolire la forza contrattuale dei lavoratori, mutui in teoria accessibili, grazie a tassi d’interesse tenuti bassi dalle politiche monetarie “liquide”, prezzi degli immobili crescenti, grande volano globale per la immobilizzazione planetaria di rendite a lungo termine, per chi se lo può permettere ovvio. E così, l’industria edilizia, che da decenni sforna decine e decine di migliaia di prime, seconde, terze ecc case l’anno, quasi tutte destinate alla vendita, già pregusta l’ennesima grande abbuffata divoratrice di suolo e di futuro per chi ben presto si accorgerà di essersi indebitato per una vita al di sopra dei suoi mezzi e per coloro che, non avendo alternativa all’affitto, in assenza di adeguate politiche abitative popolari, vivrà sull’orlo dello sfratto. D’altronde, il Rapporto 2021 sulle trasformazioni territoriali di Scenari Immobiliari, parla chiaro: nella sola Città metropolitana di Milano “servono” almeno 46mila nuove case e 650mila metri quadrati di uffici.
Nella nostra “Repubblica delle pecore elettriche”, benché sia per lo più ignorato, il problema non è l’accesso al credito per la casa, che spesso riguarda chi ha già le spalle coperte, ma il fatto che da trent’anni non soltanto non si costruiscono più case popolari – il che in calo demografico sarebbe ragionevole – ma non si rigenerano quelle esistenti e anzi si dismettono. Le competenze in materia di Edilizia Residenziale Pubblica (Erp) sono state trasferite per lo più alle Regioni, che poco investono, spesso vendono, concedendo solamente spicchi di social housing non certo alla portata dei più bisognosi, ossia delle 650.000 famiglie italiane in attesa di una casa popolare. Così, il mercato degli affitti resta debolissimo, sbilanciato com’è su una offerta risicata e non di rado fiscalmente elusa o sommersa. E che nelle città più turistiche è assorbita in gran parte da affitti brevi, gestiti dalle piattaforme digitali internazionali: rendite che alimentano rendite, grazie al mercato del turismo, dei businessmen, dei single e dei giovani abbienti. Al Paese servirebbe un mercato delle locazioni accessibili e piani di investimento in Erp all’altezza del XXI secolo che non dipendano dagli obiettivi di ritorno sugli investimenti privati, che certamente non hanno in target famiglie povere, giovani disoccupati, sottoccupati, precari o le loro famiglie. Ma invece di restituire capacità autonoma di spesa pubblica nella rigenerazione di un patrimonio esistente sovrabbondante, ma lasciato deperire, si invocano nuove case, pur sapendo che saranno per la maggior parte ad appannaggio di chi non ne avrebbe un assoluto bisogno.
Se ai giovani la Repubblica delle pecore elettriche prospetta il solito precariato, bassi stipendi e accesso selettivo a fare nuovo debito, ci si può consolare con il prossimo piano per la creazione entro il 2026 di ben 60.000 nuovi posti letto per gli studenti fuori sede, contro i 40.000 attuali (abbiamo il più alto numero di fuori sede d’Europa). Ci si attenderebbe un piano pubblico che costruisca residenze studentesche economicamente accessibili, come accade nella maggior parte dei Paesi europei, o che intervenga per calmierare un mercato dei fitti che oggi vede in una città universitaria, quasi sempre anche turistica e ludica, costare una stanza almeno 400/500 euro e un monolocale almeno 7/800. Invece, coerente con la propria visione per cui tutto al Privato, niente allo Stato, purché al riparo dal rischio d’impresa, l’edilizia destinata agli alloggi studenteschi sarà equiparata all’edilizia sociale al fine di garantire invitante ritorno sull’investimento agli immobiliaristi. E concederà loro deroghe, nell’epoca del distanziamento sociale, dal punto di vista degli spazi comuni destinati agli studenti, così da poter costruire e affittare più alloggi possibile. Oltre alla possibilità di spalancare le porte ad altri tipi di utenti, che garantiscano fitti più sostanziosi degli studenti.
Lavoro, casa, istruzione. Manca solo la salute, tra i diritti sociali fondamentali tutelati dalla nostra Costituzione. Letteralmente: perché, in piena crisi pandemica globale, grazie alla lungimiranza del governo “pluripartisan” dei competenti, tra le priorità della Repubblica delle pecore elettriche proprio la salute è il fanalino di coda del PNRR: 15M. D’altronde «è il momento di dare, non di prendere», come ha detto il Presidente del Consiglio, rifiutandosi anche di infliggere a chi ha patrimoni milionari un piccolo incremento della tassa di successione, tra le più basse del mondo.
P.S. Chi volesse fuoriuscire dall’incubatrice elettrificata e opporsi a queste e ad altre “competenti” sconcezze, può firmare La lettera aperta sullo sviluppo urbano, la prevenzione e cura del territorio lanciata dal Milano Design Film Festival in collaborazione con The Good Life Italia, sottoscritta da 500+ tra architetti, urbanisti, filosofi, sociologi, storici, archeologi, nella quale mettiamo in guardia dagli effetti deleteri del PNRR su città e territorio in assenza di una legge urbanistica organica all’altezza dei problemi del XXI secolo, che offra certezza del diritto, eque condizioni d’accesso alla progettualità di qualità e trasparenza partecipata ai processi di pianificazione urbana e territoriale.
Aderisco parola per parola a quanto scritto da Stefano. Resta l’angosciante consapevolezza di non poter fare nulla per cambiare le cose.
Ma perché non poter far nulla? Vabbè, intanto c’è quella lettera da firmare. Poi: se tutti i docenti delle scuole all’unisono dicessero: vogliamo fare più scuola, vogliamo concorsi veri, più ore di insegnamento, la scuola aperta anche d’estate: non si farebbe? Se tutti i lavoratori edili all’unisono dicessero: non vogliamo più costruire seconde terze e quarte case, vogliamo ristrutturare gli edifici pubblici, le scuole, e sanare il patrimonio pubblico, forse verrebbero idee alternative. Se tutti i lavoratori dell’Alitalia dicessero: basta, ora cerchiamo impieghi in altre compagnie, basta tenere in piedi un’azienda che non è capace di starci da sola: chissà? Lo stesso per i lavoratori dell’Ilva. Va bene, sono domande un po’ per provocare… ma solo pensiero. Sui particolari dell’intervento di Stefano Cardini sono d’accordo, anche se un giovanissimo tassista mi ha detto oggi: a me il mutuo farebbe comodo, perché comunque senza lavoro fisso non te lo danno, e io ho già un mutuo per pagarmi la licenza….
Cara Roberta, pretendere che i lavoratori dipendenti scioperino per impedire l’assunzione dei loro colleghi precari o che scelgano la disoccupazione volontaria effettivamente suona un po’ troppo paradossale. Ma capisco il senso della provocazione. Tuttavia, sono trent’anni almeno che si stigmatizza la rivendicazionfe collettiva (che non sia di pura facciata) esaltando le virtù dell’azione individuale. I lavoratori che hai citato avrebbero dovuto bloccare il Paese quando hanno accettato fosse caricato il peso del debito pubblico sulle loro spalle e su quelle delle fasce più deboli dei cittadini ai quali non si è più voluto garantire accesso universale a servizi di qualità, mentre avrebbero dovuto lottare per una direzione pubblica capace e indipendente (pensa: è possibile! Come sa Carla e tanti che lavorano nel servizio pubblico) e una fiscalità equa. Su Alitalia e Ilva il discorso sarebbe troppo complesso e lungo per discuterne qui, invece. Comunque non è mai troppo tardi. La privatizzazione socialmente iniqua spacciata per efficientizzazione meritocratica è l’obiettivo naturale della “cabina di regia” di questo governo, che ancora gioca sull’equivoco tra “effort” individuale e produttività per indebolire il servizio pubblico e la capacità di contrasto dei lavoratori e mettere tutto “a mercato” (cioè agli amici che glielo chiedono). La particolarità europea, e soprattutto italiana, è che lo si tenda a fare proteggendo il privato anche dal rischio d’impresa, naturalmente quanto più è strategico e influente su scala globale. Per gli altri c’è la partita Iva forfettaria, i sussidi temporanei del Jobs Act, il reddito di cittadinanza (fino a quando non lo aboliranno perché “improduttivo” e “antimeritocratico”: non si è mai abbastanza poveri a questo mondo…). Insomma: il liberalismo compassionevole, ma mica tanto. È l’economia sociale di mercato all’italiana, che non dispiace all’attuale leadership politica europea, in cui “sociale” sta per “società per azioni”. Il tuo tassista è contento? Eh già, avere sulla testa il debito pubblico è un peso intollerabile, mentre quello privato è una scelta di libertà. Fino a quando scopri che il tuo salario, che nel frattempo si riduce per effetto della santa innovazione competitiva, non ti consente più di onorare il mutuo, pagare le tasse universitarie di tuo figlio, il ticket sanitario, le spese steaordinarie del condominio, la tua licenza va a un giovane bengalese (che odierai) e chissà come perdi tutto. La crisi del 2008/9 non ci ha insegnato nulla.
Concordo in pieno su questa sintesi: “La particolarità europea, e soprattutto italiana, è che lo si tenda a fare proteggendo il privato anche dal rischio d’impresa, naturalmente quanto più è strategico e influente su scala globale. Per gli altri c’è la partita Iva forfettaria, i sussidi temporanei del Jobs Act, il reddito di cittadinanza (fino a quando non lo aboliranno perché “improduttivo” e “antimeritocratico”: non si è mai abbastanza poveri a questo mondo…)”. Ma forse leverei “europea”. Almeno per quanto riguarda le imprese piccole, mi pare una particolarità italiana, forse sbaglio. Quanto al tassista, il mio economista di riferimento ha commentato: mi sembra pericolosamente simile alla via che conduce a una crisi tipo 2008.
La gallina dalle uova d’oro sta covando in Italia. Si chiama “Student Housing”. È l’immobiliare delle residenze universitarie. Secondo il Fondo Savilliss gli investimenti globali nel settore nel 2018 hanno toccato quota 17 miliardi di dollari, quattro volte tanto i dieci anni precedenti, destinati a salire. È praticamente impossibile fallire se il business plan è costruito bene: gli affitti sono regolari, zero rischio morosità, intercettando una domanda solvibile e di alto livello formata da studenti internazionali e domestici che puntano alle università prestigiose. Il Recovery Plan italiano vuole una fetta della torta e per potersi sedere a tavola ha disposto misure da qui al 2026 in grado di attrarre capitali: fiscalità agevolata (quella dell’edilizia sociale); compartecipazione di spesa pubblico-privato al 50%; i primi tre anni di retta pagati dallo Stato con lo studente che inizia a cacciare i soldi di tasca propria o della famiglia solo dal quarto anno (una punizione per essere andato fuori corso?); possibilità di utilizzarli nei momenti di “vuoto” anche per soluzioni di residenzialità alternative: manager, turisti, pazienti sanitari o famigliari.
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