Riprendiamo dal “Domani” 5/6/2021 questo articolo sulla scuola e ciò che resta della svolta ideale e civile, oltre che economica, che avrebbe “salvato” l’Italia dal declino rilanciando il suo futuro dopo la pandemia. La scuola è un tema che sta particolarmente a cuore alla nostra piccola comunità, e come sempre sono graditi commenti. Ma in troppi altri settori una logica troppo familiare, che sa di passato molto più che di futuro, sembra imporsi: ad esempio in quello altrettanto cruciale e ancora più delicato della giustizia. Scarica qui l’articolo amaramente informativo di Giovanni Tizian, “Domani” 5/6/2021, sulla giustizia. Davvero dobbiamo rassegnarci a tutto questo?
Verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso avevo fondato un gruppo “Moralismo e Virtù”, del quale ero purtroppo l’unico membro iscritto. Era nato per opporsi all’idea che girava allora come un’ovvietà fra le aule e i corridoi delle università italiane (io studiavo in quella di Pisa): Ope legis! Ope legis generalizzato! Cioè: immissione in ruolo automatica. Per tutti i cosiddetti “precari” dell’insegnamento, che allora comprendevano chiunque fosse passato di lì e avesse tenuto un paio di lezioni al seminario del suo prof, per non parlare degli incaricati o degli esercitatori. Il gruppo si prese solo pomodori in faccia (la mia), metaforici e no. E l’università italiana, con questi metodi, l’ha affondata la mia generazione – con l’aiuto di quelle precedenti e successive e di una attitudine al familismo immorale e all’omertà consortile di cui possediamo il folkloristico primato ancora oggi, e con il sostegno perverso di ministeri dalle cangianti attribuzioni, ma immutabili in due dei loro obiettivi: tagliare i finanziamenti e soprattutto l’indipendenza politica alle istituzioni della ricerca, e complicare quanto più possibile la burocrazia ministeriale, reprimendo anche la sola idea di qualche meccanismo virtuoso di selezione dei docenti, qualora per miracolo un’idea del genere avesse superato il vaglio delle nostre consorterie.
E quindi lo confesso, vengo dal passato, ho perduto tutte le mie battaglie e m’intendo di scuola ancor meno che di università. E prendete i miei sconcerti per quello che valgono. Ora li elenco. Una delle (non molte) esternazioni virtuose del Presidente del Consiglio Draghi aveva fatto sperare in un prolungamento, finalmente in presenza, della frequenza scolastica di tutti, dopo tanto sacrificio, sociale oltre che educativo, di generazioni di ragazzi e adolescenti costretti a tagliare via molti mesi di vera scuola dalla loro vita – che poi significa incontri, amori, vocazioni scoperte. Tenere le scuole aperte tutta l’estate, aveva suggerito Draghi: recuperare il tempo perduto, ma anche dare un segno dell’importanza che il Paese (d’ora in poi) riconosce alle sua Scuola. Il sogno si ridusse alla misura modestissima della fine di giugno. Pur sempre una piccola boccata d’aria nuova, no?
Naturalmente no. Al contrario, si finisce tutto prima, gli scrutini vanno fatti prima che terminino le lezioni – quindi se avanzerà qualche giorno a giugno a scuola si potrà giocare a tresette. Bene. Ricordo ancora l’emozione con cui avevo ascoltato Draghi insistere sulla necessità vitale, per l’Italia, di reclutare servitori pubblici in base al merito, e non sull’onda delle emergenze, ma subito e con piani organici. E mi parvero valorose, allora, le battaglie sostenute dalla Ministra Azzolina per evitare le stabilizzazioni in ruolo dei precari “con procedura straordinaria”, cioè senza concorso. Nel frattempo è cambiato il Ministro: e quello attuale – Patrizio Bianchi – ha voluto por fine al “conflitto permanente fra ministero e comunità scolastica”. Cioè: niente concorso. Procedura straordinaria generalizzata. Bene. Però le cose hanno un nome, meglio non cambiarlo. Al Ministro dell’Istruzione: non si chiama “Comunità scolastica”, si chiama Sindacati. Al Pd Verducci: non si chiama “fine di un assurdo tabù ideologico contro i precari”. Si chiama assunzione in massa senza concorso.
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