Riprendiamo l’articolo uscito su Reasons for Europe di Alessio Salviato (Ph.D. Student, Università Vita-Salute San Raffaele; IRCECP)
Il 19 gennaio 2021 la Commissione Europea dichiarava gli obiettivi del suo piano vaccinale: entro la fine di marzo l’80% degli anziani over 80 sarebbe stato vaccinato, e per la fine dell’estate almeno il 70% della popolazione di ciascun Paese membro avrebbe ricevuto la seconda dose. Un piano senz’altro ambizioso, cifra della volontà confederale di agire uniti e con risolutezza per superare la pandemia e risollevare i paesi colpiti dalla più grave crisi economico-sociale dopo il crollo finanziario del 2007. L’imperativo pragmatico è il seguente: se agiamo assieme e manteniamo un approccio comune, siamo contrattualmente più forti e ciascun Paese ne trarrà maggior vantaggio. L’approvvigionamento delle dosi di vaccino viene quindi regolamentato all’interno degli accordi che nel 2020 la Commissione contrae direttamente con le multinazionali – AstraZeneca, Pfizer e Moderna -, definendo in anticipo i termini contrattuali su acquisto e distribuzione delle dosi. L’accordo prevede 2 miliardi di dosi circa già acquistate o opzionate prima della loro produzione, a un prezzo vantaggioso (la metà rispetto a quanto pagato dagli Stati Uniti), da far arrivare nel primo trimestre e poi distribuire internamente, evitando che i paesi UE più piccoli e con minore forza contrattuale rimangano indietro.
Ad oggi, tuttavia, le dosi consegnate sono solo 43 milioni e nelle scorse settimane sia AstraZeneca che Pfizer hanno annunciato tagli importanti alle consegne in Europa per il primo trimestre, giustificandosi sulla base delle clausole contrattuali – peraltro mai rese pubbliche [1]. Bruxelles ha accusato AstraZeneca di aver privilegiato i rifornimenti al Regno Unito e Pascal Soriot, CEO della multinazionale, si è difeso sostenendo che “il vaccino è stato sviluppato in collaborazione tra il governo britannico, Oxford e AstraZeneca”. A parlare attraverso la voce di Soriot è il capitalismo politico, di cui diremo tra poco. Clausole poco trasparenti e accordi privilegiati a parte, rimane il fatto che il piano previsto dalla Commissione rischia di vacillare e sono diversi i Paesi che hanno deciso di agire non solo per proprio conto ma anche contro l’orizzonte istituzionale, scientifico e geopolitico entro cui si muove l’Unione Europea.
A gennaio l’Ungheria ha stretto un accordo con la cinese Sinopharm per l’acquisto di un milione di dosi e il 2 marzo il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, pur riconoscendo la “correttezza di una politica europea di approvvigionamento comune dei vaccini”, ha dichiarato che d’ora in poi l’Austria – seguita dalla Danimarca – produrrà vaccini anche con Israele. Vienna, assieme a Ungheria e Slovacchia, aveva già stretto accordi con la Russia per le forniture dello Sputnik V, vaccino non ancora approvato – al pari di quello cinese – dall’EMA (Agenzia Europea del Farmaco). Nel frattempo, i governi di Danimarca, Estonia, Finlandia, Lituania, Lettonia e Svezia hanno fatto recapitare una lettera congiunta alla Commissione nella quale parlano di una situazione “inaccettabile”, che mina “la credibilità del processo di vaccinazione”. Ad aggravare la situazione si aggiungono due considerazioni: le multinazionali del vaccino sono state sovvenzionate dall’Unione con miliardi di fondi pubblici e, secondo gli esperti, da gennaio circa un terzo dei composti realizzati in Europa è stato esportato fuori dall’Unione (in 30 paesi diversi, tra cui Canada e Messico), con il via libera di governi e istituzioni.
D’altra parte, negli Stati Uniti, in Israele e Regno Unito la vaccinazione procede speditamente e le dosi non scarseggiano: i governi di questi Paesi hanno preso decisioni di acquisto più rapide e meno attente ai prezzi e sono riusciti ad acquisire forniture in anticipo, evitando o minimizzando i ritardi nelle consegne.
Al netto di ciò, ci si chiede se la Commissione non avesse potuto agire diversamente. Dovevamo forse impedire che una buona parte delle dosi di vaccino uscisse dall’Europa? Siamo sicuri che fossero i prezzi bassi e non la rapidità nella somministrazione l’obiettivo da porsi? Possibile che l’Unione Europea rischi di fallire nel garantire un bene pubblico così prezioso ai suoi cittadini? Si possono fornire diverse ragioni, tra cui la complessità nel prendere decisioni tra 27 paesi diversi; ma la risposta che si intende dare qui sta nella maniera di concepire i rapporti tra Stato e imprese per raggiungere obiettivi straordinari di interesse comune. La lente attraverso la quale si debbono comprendere le ragioni strutturali che distinguono l’Europa dai Paesi “vincitori” (compresi Russia e Cina) è quella del capitalismo politico o orientato politicamente, una forma specifica di capitalismo cui Stati Uniti e Cina – seppur in varianti opposte – sono già sopraggiunte e che Alessandro Aresu suggerisce quale sua destinazione ultima, compimento finale, eschaton. (…)
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