Riprendiamo un testo di Carla Poncina, storica e già Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza di Vicenza, uscito oggi in forma di intervista sul “Giornale di Vicenza”.
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Una combriccola di sognatori. Questo erano, o sembravano essere, gli uomini che hanno fatto l’Italia.
Per dare al Risorgimento italiano il posto che gli spetta sarebbe in verità doveroso collocarlo nella storia europea e non solo, visto che nella seconda metà dell’Ottocento, ovunque in Europa come in America «vi furono popoli che rivendicarono l’indipendenza dallo straniero e l’interna libertà, si guardò all’Italia e agli uomini che ne animarono il riscatto come a degli esempi da cui trarre ispirazione e forza. Uomini che furono nella massima parte aperti allo spirito della moderna civiltà europea, e a renderli tali non poco influirono i lunghi esili» (A. Omodeo)
Il loro amore per l’Italia nutriva l’amore per la libertà di tutti i popoli oppressi, e non a caso Garibaldi era detto “l’eroe dei due mondi”, per la fama internazionale conquistate con le sue epiche imprese in America Latina. Mazzini d’altro canto dopo la Giovane Italia fondò La giovane Europa, e l’Europa degli spiriti liberi, della nuova borghesia illuminata, degli intellettuali, negli anni delle guerre di indipendenza guardò con ammirazione al nostro Paese, e i patrioti italiani vennero presi a modello da coloro che, in Polonia come in Ungheria, ancora combattevano per il proprio riscatto, la propria indipendenza.
Tutto questo va orgogliosamente ricordato senza ostentare disincanto, mettendo tra il ciarpame della storia sia la retorica patriottarda con cui il fascismo aveva cercato di coprire le sue molte ingiuste guerre – a partire da quelle coloniali – sia il cinismo che ancor oggi porta alla manipolazione della storia, alle false narrazioni con le quali si cerca di infangare figure nobilissime come quelle di Mazzini e di Garibaldi, il primo capace «di cogliere e restituire quel coacervo di aspirazioni, illusioni, ansia di riscatto e cambiamento, utopie se si vuole, che tumultuavano nei cuori dei giovani». Il secondo in grado di parlare «al popolo italiano che non sapeva di esserlo» ma che in lui si riconosceva e ne riconosceva le intenzioni e le azioni. Per questo «Non ci fu casa che non lo ospitò, sentiero segreto che non gli venisse indicato durante la fuga, pane o giaciglio rifiutato».
Certo senza la lungimiranza politica e le doti diplomatiche di Cavour, senza un esercito cui appoggiarsi, messo a disposizione dal re del Piemonte, non si sarebbe giunti alla proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo del 1861, ma ad infiammare i cuori di migliaia di patrioti, senza i quali il miracolo dell’Unità non sarebbe stato possibile, furono soprattutto uomini come Garibaldi e Mazzini. Accanto a loro anche molte donne, quasi sempre “taciute”, che li sostennero pregando, cucendo migliaia di camice rosse, di coccarde tricolori e in molti casi anche combattendo.
Fu straordinaria la rapidità con cui si giunse il 17 marzo del 1861 alla proclamazione dell’Unità d’Italia. Solo due decenni prima il poeta francese Lamartine aveva descritto l’Italia come un Paese in rovinosa decadenza morale, dove “gli uomini nascono già vecchi”, “terra dei morti”, e per questo fu sfidato in duello dall’esule napoletano Guglielmo Pepe. Il Risorgimento era vicino.
Qualcosa di simile quanto a generosità e a rapidità nella scelta di combattere contro l’occupante tedesco e il nazifascismo – non ci potevano essere dubbi su quale fosse la parte giusta – si ripropose dopo l’otto settembre del ’43, quando migliaia di soldati di ritorno dai disastrosi teatri delle guerre di Mussolini, abbandonati a sé stessi dal re in fuga insieme ai loro comandanti, lasciati alla mercé dei tedeschi, videro le donne italiane, al di fuori di ogni ideologismo, aprire loro le porte di casa, nasconderli, rivestirli, rifocillarli, pur consapevoli di rischiare la vita. Esercitarono quella naturale compassione, quel senso di umanità, che è forse uno specifico femminile, e che in tempo di guerra spesso sfiora l’eroismo.
L’accostamento tra Risorgimento e Resistenza non è casuale. Se in questo Paese l’Educazione Civica non fosse come l’araba fenice, di cui tanto si parla senza trovarla mai, ma un serio impegno pedagogico, si dovrebbe partire dalla lettura nelle scuole delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, scoprendo così che le ultime parole rivolte ai propri cari da centinaia di uomini e donne, in molti casi giovanissimi, sono state: VIVA L’ITALIA. Appartenevano ad ogni classe sociali, erano comunisti o cattolici, monarchici o liberali, sacerdoti o laici. Li univa il bisogno di giustizia e libertà, l’amore generoso, non egoistico, per la propria terra.
Di questo legame tra Risorgimento e Resistenza dà preziosa testimonianza un articolo di fondo uscito Il 30 luglio del 1943 sul Giornale di Vicenza, il quotidiano cittadino che per breve tempo prenderà il posto della “Vedetta Fascista” in seguito alla caduta di Mussolini. Era firmato da Mario Dal Pra, giovane docente di filosofia del liceo Pigafetta, appartenete al piccolo gruppo di intellettuali antifascisti vicini al Partito d’Azione che faceva capo ad Antonio Giuriolo.
L’articolo si intitolava: Ordine e Libertà, ne riportiamo alcuni passi: «La bandiera del nostro Risorgimento torna a sventolare gloriosa; tornano sulle nostre labbra i nomi di Mazzini, di Garibaldi, di Mameli, di tutti coloro che intesero la Patria come Libertà. Oggi più che mai apprezziamo che cosa significhi avere una responsabilità, partecipare con la propria passione alla vita politica, sentire il peso della propria costruzione, per quanto modesta. Siamo usciti di minorità, abbiamo riguadagnato la personalità. E sentiamo che appunto in questa libertà sta l’ordine vero, l’ordine spirituale. […] Libertà è farsi una nobile coscienza ed a questa essere fedeli».
Potremmo forse ripartire da qui, da queste parole “alte”, profonde, in un momento ancora una volta assai difficile della nostra storia, e una volta passata la pandemia impegnarci tutti ancora una volta per un nuovo Risorgimento.
La lettura “resistenziale” e “antifascista” del Risorgimento è legittima e – dal mio punto di vista – anche più che condivisibile sul piano ideale, ma non di meno problematica su quello storiografico. “Risorgimentale” fu la destra come la sinistra storica, che in particolare con Crispi (siciliano, ex garibaldino) fu laboratorio della svolta autoritaria seguita alla Prima guerra mondiale. “Risorgimentali” furono gli interventisti e i neutralisti prima e durante il conflitto, i socialisti come i nazionalisti. E “risorgimentali” furono i “fascisti” come i “resistenti”, tutti diversamente convinti di essere i “legittimi e autentici” eredi della Rivoluzione francese e dei moti modernamente e illuministicamente progressisti e irredentisti del XIX secolo, pur avendo questi ultimi spesso segno politico diverso. Poi, certo, ci sono i vari e ambigui atteggiamenti del mondo cattolico, a lungo maggioritario nel Paese. Ma meriterebbero un discorso a parte: importante. Al netto di parte di questi ultimi, nessuno dei precedenti mise tuttavia in dubbio l’occasione e necessità storica dell’unità, ma l’idea di nazione, la forma di Stato e l’organizzazione sociale cui si aspirava divergeva nettamente e ancora diverge, se pensiamo alla difficoltà di riconoscersi tutti in quella Seconda patria (oltre il sangue, la terra, la lingua, gli usi, i costumi, la cultura, la storia, le variegate tradizioni) che dovrebbe essere la Costituzione. Io credo sia bene non dimenticarlo, onde non esporsi, da un lato, a troppo facili obiezioni, dall’altro per non rischiare di eludere alcune questioni poste a quel processo di unificazione territoriale e politica complesso e contraddittorio proprio da personalità del fronte “antifascista” (in definitiva, anche Mazzini morì esule mentre il vecchio Garibaldi lo fece in autoconfino volontario: i due repubblicani…). Mi limito a ricordare, oltre a tutta la discussione attorno alla “questione meridionale, da Dorso a Salvemini a Gramsci ecc, i molti storici di parte antifascista critici sui limiti del Risorgimento, la “piemontesizzazione”, la “conquista regia”, la sconfitta delle ipotesi repubblicane e democratiche, il trionfo del moderatismo élitario antipopolare e non privo di tendenze autoritarie che avrebbero iniziato a manifestarsi nella successiva svolta nazionalistica, coloniale e imperiale… Il Secondo risorgimento veniva anche inteso come suo necessario “compimento” nella Costituzione della Repubblica Italiana a suffragio universale maschile e femminile fondata sul lavoro del 1948… Tutti temi tutt’altro che privi di consistenza frettolosamente abbandonati dopo il 1989 e lasciati al revanchismo spesso strumentale di una destra antirisorgimentale o freddamente risorgimentale, per lo più ultracattolica e localistica, mentre avrebbero potuto illuminare di una luce più attenta alle dinamiche sociali e politiche del Paese anche un cammino europeo principalmente governato da politiche fiscali dai costi sociali così progressivamente divergenti. Le “combriccole di sognatori” hanno successo, talvolta, è vero. Ma in genere accade quando nei sogni non si sono semplicemente cullate, bensì perché i sogni li hanno misurati spietatamente con la realtà. Oggi il più pericoloso sogno antiunitario è quello del regionalismo differenziato, che riprodurrebbe su scala nazionale le stesse dinamiche sperequative ed esplosive che registriamo a livello europeo. Antiunitario, quindi, è chi le sostiene. Il resto finisce con il ridursi a retorica.
Grazie Roberta, e grazie Stefano, per aver preso in considerazione la mia “combriccola di sognatori”.
Il commento con cui Stefano l’accompagna è da me in larga misura condivisibile, e in particolare mi è molto piaciuta la sua definizione della nostra Costituzione come Seconda patria, la faccio mia, ma rispondere adeguatamente alle sue considerazione comporterebbe molto impegno. Magari lo si potrà fare in futuro. Ora solo alcune note. Ho scritto su richiesta del Giornale di Vicenza, e in una città sostanzialmente a guida Lega- Fratelli d’Italia, che porta avanti a suon di delibere un forte anti-antifascismo mi interessava ricordare che l’amore “vero” per il proprio Paese non era quello dei fascisti un tempo e dei sovranisti oggi, apparteneva semmai ai partigiani: comunisti, cattolici, azionisti, anche preti, donne, giovanissimi, che morivano testimoniando fino all’ultimo il loro amore per l’Italia, certi che sarebbe rinata dopo la sconfitta del nazifascismo.
L’ho fatto semplificando volutamente, e ancor più ha semplificato la redazione del giornale, tagliando la citazione di Mario Dal Pra che dopo l’8 settembre scrive un articolo rivolto ai giovani che richiama Mazzini e il Risorgimento. Contavo la salvassero in quanto a scrivere era un vicentino…
Che anche tra gli intellettuali vicini a Giustizia e Libertà, i più schierati sulla linea Resistenza- secondo Risorgimento, già negli anni trenta ci fossero state violente polemiche, non era il caso lo ricordassi. Io stessa l’ho appreso tardi, leggendo Franco Venturi (La lotta per la libertà. Scritti politici, Einaudi, 1997), che parlando dell’esilio parigino ricorda le forti polemiche con Caffi e Chiaromonte, che rifiutavano il nesso Risorgimento-Resistenza lamentando l’enfasi nazionalistica che aveva sostituito il respiro europeo e il carattere democratico del mazzinianesimo. La necessità di un secondo Risorgimento fu in realtà tema costante e finalità riconosciuta tra gli azionisti combattenti nella lotta di Liberazione, in pieno e dichiarato contrasto con lettura che il fascismo aveva dato del Risorgimento per tutto il ventennio, dichiarandosene erede.
Su questo punto credo che se da parte dei fascisti possiamo parlare di una manipolazione a fini propagandistici del mito risorgimentale, per Caffi e Chiaromonte si trattava – e mi scuso dell’azzardo – di un errore di interpretazione, se condividiamo l’idea di H. Arendt secondo la quale i totalitarismi novecenteschi segnano una netta rottura con tutte le forme e le ideologie politiche del passato. E qui ci sarebbe da approfondire, ma mi fermo tralasciando il moltissimo che andrebbe aggiunto, ad esempio sul mondo cattolico, al cui interno troviamo sia nel Risorgimento sia nella Resistenza la stessa divisione tra i preti di base, che col farmacista, il dottore, il professore spesso cospiravano coi patrioti prima, coi partigiani poi, e le gerarchie ecclesiastiche, nell’uno e nell’altro caso dalla parte del potere costituito.
Carla