“Nel lungo tragitto della vita incontrerai molte maschere e pochi volti”. E’ una citazione da I Giganti della montagna di Pirandello, che a tre quarti circa del discorso di Enrico Letta all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico ne riassume lo spirito e ne introduce la conclusione. Ha il privilegio delle intuizioni poetiche: la densità, che racchiude molti pensieri possibili. Si può tentare di usarla come lente con cui leggere il discorso – o semplicemente ingrandirne alcuni. A farlo può servire l’altra citazione colta, quella sartriana, che segue di lì a poco. Interessante, perché sartriana solo a metà. La nostra identità è per metà quella che siamo e per metà quella che vedono gli altri: ce lo ha insegnato Sartre, dice Letta. Ma Sartre dava molta più rilevanza allo sguardo degli altri. Ne faceva proprio l’essenziale, altro che metà di ciò che siamo. Molto più di Pirandello, che del “come tu mi vuoi” sentiva tutta la tragedia e il dolore, anzi il nichilismo morale. Invece Sartre, che all’etica e alla ragione pratica preferì da un lato la realtà della storia e dall’altro la libertà d’arbitrio nuda di ragioni, ammetteva francamente il nulla che noi saremmo – fuori dal raggio dello sguardo degli altri, che pure sono anche il nostro inferno. Tanto che la sua famosa “malafede” sta proprio nel contrario di ciò che comunemente intendiamo con questa parola. Non sta nel mentire agli altri, ma nel cercare ragioni e giustificazioni al nostro fare: perché sono tutte razionalizzazioni, tentativi di scaricare su qualche iddio una responsabilità che è solo di chi agisce, come nel caso di Oreste che uccide la madre e ne dà la colpa alla giustizia e a Zeus. Ma se Sartre avesse ragione, non avrebbe alcun senso distinguere fra maschere e volti. Levi la maschera delle buone ragioni, che poi sono il lasciapassare sociale, il modo di piacere agli altri, e non ti resta che il tuo nulla. La fonte di ogni arbitrio.
Che sollievo. Enrico Letta non sembra affatto condividere questa idea, che invece descrive bene il teatro della politica italiana degli ultimi decenni. Letta è semmai con Pirandello e il suo dolore e la sua umoristica pietà per chi soffre di non aver un volto e non aver ragioni – se non quelle che piacciono agli altri. Ti corre l’occhio alla scritta che campeggia sull’orlo del tavolo e del video: “Dalla parte delle persone”. Miracolo della poesia: di colpo questo motto che pareva pensato per non prendere alcuna posizione, e per piacere a uno nessuno e centomila, pare acquistare tutta la pregnanza di un programma politico fondato in filosofia. Che è il modo migliore per dare ragione alla politica, nel senso duplice di fondarla in ragione, come facevano gli illuministi, e di riconoscerle ragioni plurime e oneste per esistere: valori e interessi, e per ciascun soggetto un ordine chiaro di valori e interessi, diverso da quello di un altro soggetto, come sono diversi i volti. Le persone ci sono anche se non si vedono: dalla platea virtuale, enormemente più larga di quella dell’Assemblea Nazionale di un partito, sale ininterrotto un flusso di commenti e like e cuoricini, un flusso di speranza e anche un po’ di meraviglia di sentirsi interpellati, ciascuno a suo modo e secondo ciò che è e che spera. Come usava dire Norberto Bobbio, sta negli individui il prestigio e il fine ultimo delle democrazie, in un regime politico fatto per offrire a ciascuno pari opportunità di fioritura – in particolare a chi ancora è in boccio o a chi rischia di sfiorire senza esser fiorito mai – che è la vera tragedia italiana di oggi. E la forma politica di questa idea suona nella formula delle “agorà democratiche”, i luoghi per discutere le ragioni delle battaglie che si vorranno dare. Per discutere, non per appartenere soltanto, anzi per discutere anche senza appartenere, come si fa su una piazza. Ma l’agorà più larga che Letta mette al centro del suo programma è la cittadinanza europea. Una sfida a mettere non lo Stato nazionale “ma le persone al centro della tecnologia digitale”: Spinelli al tempo di internet. A ricordarci anche che la radice ultima della democrazia non è la forza del popolo in piazza, ma il faccia a faccia (i volti) in cui Socrate insegnava a chiedere ragione a chi decide anche per noi. E a rafforzare quell’identità morale delle persone senza cui, con buona pace di Sartre, le coscienze cedono alla forza degli idoli, i volti si mascherano e le democrazie si ammalano.
Una democrazia ammalata, la nostra: e non solo perché ha avuto in dieci anni sette diversi governi, ma perché in questa inefficienza non è “in grado di rispettare i valori”. Con “verità” (da cercare, per ottenere consenso in base a buone ragioni e non false unanimità) e “persone”, “valori” è la terza delle parole più frequenti nel discorso, ma non resta una cambiale in bianco, perché si trasforma subito in un programma politico che altri sapranno commentare nel dettaglio, ma di cui io vorrei solo cogliere un aspetto: ripristinare la fiducia, che di nuovo presuppone i volti e non le maschere, e l’identità, che si basa sul mantenere gli impegni. Contro il trasformismo parlamentare, ad esempio, o le pessime leggi elettorali esistenti: ma anche per affrontare di petto il problema filosofico oltre che pratico della natura dei partiti. Simone Weil aveva già posto questo problema: come sciogliere l’incompatibilità fra cercare la verità (su ciò che è giusto fare) e cercare il consenso senza cui come partito non vivi? Cercando il consenso sulla base cognitiva degli occhi e del cuore di ciascuno, perché due verità contraddittorie in natura non esistono: almeno una è la maschera del falso. Così risponde la filosofia. Ma per una volta, sembra che così risponda anche la politica: e questa sarebbe una vera rivoluzione. D’altra parte, se proprio vogliamo levarci ogni maschera, anche il nuovo Segretario del PD dovrebbe dircelo, che “limite decoro rispetto” – le virtù di un altro Enrico – non sono le sole alle quali si forma il buon politico: perché l’idea stessa della politica come costruzione di giustizia l’inventò, naturalmente, un filosofo. Platone.
Ecco, per ridiscendere in terra, e in una città italiana: sarà anche l’allievo di Beniamino Andreatta, il nuovo Enrico. Ma a Pisa, tanto per riprendere l’elogio dell’insegnamento, “la più bella professione del mondo”, fu allievo anche di un filosofo che ogni prof. italiano di materie manistiche ha amato: Remo Bodei, che me lo disse in tempi assi remoti. Con un certo orgoglio.
«Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]. Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere». (Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, L’ésprit des lois, 1748). È questa la funzione che dovrebbe assolvere lo Stato nella sua variamente ripartita organizzazione. Una costruzione di cui prendersi estrema cura, non da stigmatizzare, se è alle “persone” in carne e ossa che teniamo. Perché, qui, pare quasi si contrapponga lo Stato alle “persone”. Mentre forse dovremmo semmai contrapporre forme di Stato a forme di Stato in rapporto alla loro capacità di bilanciare e regolare i poteri tra le persone, persone che costitutivamente, come anche l’ontologia sociale c’insegna, non sono vaghe, indeterminate e talvolta interessate astrazioni del genere degli “individui”, ma co-soggetti culturali, sociali e politici in carne e ossa: identità e storie fatte di storie. Anche l’Unione Europea, infatti, ambisce a essere una forma di Stato. E più precisamente una forma di Stato sovranazionale. Il problema è se la forma che ancora oggi assume eserciti, distribuisca ed equilibri il potere al suo interno – sia tra gli Stati costituenti sia tra le persone e le organizzazioni che ne fanno parte – in modo “equo e sostenibile”, per esprimersi con due parole ormai vagamente di moda, ma che durante questa pandemia assumono per una volta un senso abbastanza preciso. Ecco: sarebbe bello se Enrico Letta e il Pd uscissero dalla loro vaghezza proteiforme per dirci che genere di organizzazioni statali hanno in mente per fare in modo di esercitare, regolare e bilanciare i poteri tra le persone in carne e ossa.