La prospettiva di più di 15 miliardi di investimenti, alimenta ogni giorno di più l’immaginazione del mondo accademico, che dopo avere subito per anni l’austerità di bilancio vedono di colpo aprirsi davanti ai loro occhi la possibilità di disporre di abbondanti risorse, sulla distribuzione e sull’impiego delle quali, naturalmente, si discute. In questo articolo di Gianna Fragonara pubblicato sul Corriere della sera il rettore del Politecnico di Milano e presidente della Crui, Ferruccio Resta, dialoga con Ferruccio de Bortoli sugli scenari post Covid degli atenei italiani. Premiare chi prova ad emergere e apre la strada a chi vuole seguirlo, qualunque cosa significhi. Di questo Resta discute con il suo omonimo Ferruccio de Bortoli nel libro Ripartire dalla conoscenza (Bollati Boringhieri). Interessante, perché non scontata, è la consapevolezza che le piattaforme globali private di distribuzione, molto probabilmente, si apprestano a cambiare le regole del gioco dell’offerta formativa come già è accaduto con il commercio, la televisione, il cinema e l’editoria. Non si parla dei Massive Open Online Course, che offrono già a quelle piattaforme contenuti da veicolare sfruttando la capillarità e la profilazione dei loro clienti. La didattica come l’abbiamo conosciuta, nel bene e nel male, non sarà in ogni caso più la stessa. Interessante, anche se tutto da interpretare il seguente passaggio del discorso di Resta: «I vincoli dovuti alle classi di laurea come sono pensati ora limitano i progetti di nuove lauree inquadrando le discipline in gabbie piuttosto rigide», mentre servirebbero figure professionali ibride ed elastiche, che si formano «con una compartecipazione di saperi, in particolare tra le scienze umanistiche e quelle scientifico tecnologiche». È una visione radicalmente nuova che comincia dalla riforma della scuola, che Resta immagina divisa in una primaria più lunga e una secondaria a ciclo unico sul modello anglosassone: «Un ingegnere oggi non è più il tecnico che deve rispondere al singolo problema ma deve dare risposte a sfide sociali e problemi complessi che sempre più spesso coinvolgono anche la sfera etica delle tecnologie. Oltre alla specializzazione nella disciplina tecnica e scientifica servono la filosofia e gli studi umanistici e sociali, rompendo un sistema rigido e separato che non ha più ragione di essere».
«Mi piace paragonare la situazione globale a quella di un gran premio automobilistico bloccato da un incidente», il Covid. La nostra auto – il Paese, Milano, l’Università – non era tra quelle in testa «ma quando la safety car è entrata in pista improvvisamente ha rallentato tutte le altre… le distanze si sono ridotte e la pausa ai box è diventata fondamentale. Qui si gioca la classifica finale. Servono strategia, pianificazione, manutenzione e gomme». C’è un dichiarato ottimismo nella metafora ingegneristico-sportiva di Ferruccio Resta, rettore del Politecnico di Milano e dal febbraio scorso, giusto una settimana prima dello scoppio della pandemia, a capo della Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane. Le gomme nuove e la manutenzione sono in arrivo: con il programma italiano all’interno del Next Generation Eu ci saranno più di 15 miliardi per investimenti – non si vedevano da decenni – anche per la ricerca e le università. Pianificazione e strategia vanno studiate, perché è scontato che non si tornerà mai più al mondo di prima, né per quanto riguarda gli atenei, né per le città, le nostre abitudini o aspirazioni. Di questo Resta discute con il suo omonimo Ferruccio de Bortoli nel libro Ripartire dalla conoscenza (Bollati Boringhieri).
Un dialogo che parte dalle aule svuotate dal virus e arriva «alla nuova centralità dell’Università» senza sottrarsi al dibattito sulla divisione dei fondi in arrivo. «Servono programmi ad hoc – è l’idea di Resta -, dobbiamo distinguere le sedi per la loro vocazione, quelle generaliste e quelle specializzate, quelle che rispondono a criteri locali e quelle che hanno una dimensione internazionale». No dunque a «livellare il sistema», sì invece alle «differenze», premiando anche «le corse in avanti» e chi prova a emergere perché può «aprire la strada a quanti vorranno seguirlo». Perché in questo momento la posta è molto più alta della pura competizione tra atenei: da un lato c’è da decidere che cosa rimarrà della didattica a distanza, del balzo tecnologico, delle migliaia di ore di lezioni registrate, visto che «le principali università degli Stati Uniti e della Gran Bretagna stanno ipotizzando un’offerta parallela di percorsi a distanza con un contributo differenziato e un programma diverso da quelli per gli studenti residenti», che sarà una nuova possibilità accanto alla laurea sotto casa o al costoso percorso all’estero. Dall’altro l’offerta di formazione specializzata rischia di aprirsi in modo molto più rapido e ampio del passato: se in Italia il dibattito è ancora incentrato sulla diaspora degli studenti del Sud verso gli atenei del Nord, il libro disegna un orizzonte ben più sfidante e incerto: «Dovremmo essere consapevoli – spiega Resta – che Amazon o Netflix, dopo aver invaso il commercio, la cinematografia e l’editoria hanno tutti gli strumenti per entrare nel business della formazione terziaria».
A margine, riportiamo di seguito qualche dato interessante pubblicato da Link e Coordinamento Universitario sullo stato della ricerca universitaria e dei ricercatori e degli assegnisti italiani oggi. Dal 2008 a oggi sono più di 14.000 i ricercatori e le ricercatrici che hanno lasciato il nostro Paese. Per la maggior parte di loro non è una scelta, ma si tratta di mobilità forzata: in Italia quasi la metà dei ricercatori (e tre dottorandə su quattro) è sottopagata, rispetto al 15% di ricercatori italiani attivi all’estero (e unə dottorando su dieci). E guardando al salario, unə ricercatore italiano all’estero tende a guadagnare il 50% in più di unə suo collega in Italia. Dalla crisi del 2008 a oggi, la condizione di chi fa ricerca non ha fatto che peggiorare: tra il 2012 e il 2014, la percentuale di PhD con un impiego stabile è calata dal 45% al 38,6% mentre quella degli assegnisti di ricerca (in una condizione ben più precaria) è salita dal 14% al 21,5%. La condizione di forte precarietà di chi fa ricerca viene bene descritta nelle indagini che ogni anno ADI – Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia redige, nell’ultima delle quali, incentrata sul tema dell’assegno di ricerca, ad esempio emerge il dato che per il 55% degli assegnisti i periodi di disoccupazione tra un assegno e l’altro superano i sei mesi, oltre al dato preoccupante del sovraccarico lavorativo, per cui il 53% degli assegnisti dichiara di lavorare più di 40 ore settimanali a cui, nel 77% dei casi, si aggiunge attività di docenza anche a titolo gratuito. Gli investimenti in ricerca e sviluppo nel nostro Paese sono ben al di sotto della media europea, e non è ancora stato fatto nulla per eliminare la forte precarietà che vivono ricercatori e ricercatrici nel proprio percorso e per dare loro reali tutele, valorizzando il lavoro che svolgono. In questo momento storico dobbiamo radicalmente cambiare il modello di sviluppo e produzione del nostro Paese, per uscire da questa crisi in una direzione diversa dal passato, e per fare ciò la ricerca pubblica deve assumere ancor più importanza. Investire in istruzione, ricerca e sviluppo significa investire nel futuro del Paese!
(fonti: Nascia, Pianta, Zacharewicz: Staying or leaving? Patterns and determinants of Italian researchers’ migration, 2021; IX Indagine ADI sull’assegno di ricerca, 2020)