Salvatore Biasco ha insegnato Economia Internazionale all’Università La Sapienza di Roma. Autore di testi accademici a uno dei quali è stato conferito il premio St. Vincent per l’Economia, si è dedicato, specie negli ultimi anni, a temi di analisi politica. Nel 2016 è uscito il suo ultimo libro Stato Regole e uguaglianza. La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo capitalismo, Luiss University Press. Riprendiamo questa intervista pubblicata da Una Città n° 237 / 2017 marzo. Le domande vengono prima delle risposte
La fine del compromesso fra capitalismo e democrazia, fra mercato e controllo pubblico, causata anche da fattori oggettivi, e l’affermazione di un’ideologia neoliberista che, nella soggezione culturale della sinistra, ha finito per diventare pensiero unico; politica dell’offerta, alleggerimento dello Stato, flessibilizzazione del mercato del lavoro, arretramento sui canoni di protezione sociale; il fallimento del partito leggero, della “democrazia del pubblico”.
Possiamo partire dal “compromesso socialdemocratico”? Che cos’è?
Il compromesso socialdemocratico è stato un connubio di principi democratici e partecipativi con il mercato, che lasciava alle imprese il compito di creare occupazione e innovazione, ma al contempo ne disciplinava il comportamento. Da questo punto di vista, le imprese erano concepite come una sorta di bene pubblico soggette a uno scrutinio pubblico nel quale lo Stato aveva una funzione di direzione, supplenza, ausilio. Quindi le imprese non sono le artefici incontrastate di decisioni che portano al benessere sociale. In più lo Stato ha il compito di assicurare che quel benessere sia accettabilmente distribuito. Certo, quel compromesso era favorito da una situazione internazionale che creava condizioni favorevoli – i salari crescevano, la produttività cresceva e i benefici si distribuivano, la domanda interna veniva sorretta da questi rimandi e quella esterna da analoghi processi che avvenivano in parallelo negli altri paesi – ma l’importante è che avesse internamente una sua coerenza in termini di democrazia economica dove per democrazia economica dobbiamo intendere la protezione dai rischi sociali, il disciplinamento dei conflitti di interesse, la capacità di mantenere un’occupazione sempre elevata e di proteggere il sistema da crisi produttive, la capacità di controllo dei cittadini sulle scelte private che influenzano l’ambiente di ciascuno, la permeabilità dello Stato alle istanze popolari assicurata attraverso i partiti di massa. In definitiva, il compromesso socialdemocratico è stata una concezione a tutto tondo, dove capitalismo e democrazia si sposavano in un connubio abbastanza soddisfacente.
Questo connubio felice a poco a poco è andato in crisi. Perché?
Innanzitutto per alcuni eccessi: eccessi di spesa, forse, un certo appesantimento burocratico, forse una presenza molto estesa dello Stato (la famosa protezione dalla culla alla morte), contro i quali, enfatizzandoli molto, si è poi scagliata la critica neoliberale, che vedeva i cittadini privati della libertà di scelte, la struttura dello Stato irrigidita, spese che risultavano in tassazione. La società si era molto più aperta per creare stati che non vedevano le proprie fortune legate a quelle collettive. Ormai un’élite dominante era stata resa molto più forte, più sicura del proprio ruolo sociale, grazie all’indebolimento delle controparti sindacali dovuta all’apertura internazionale e all’inflazione. Reclamava soprattutto che si riducesse la tassazione. E che si riportasse l’inflazione (imputata ai sindacati) sotto controllo. La tecnologia ha aiutato molto consentendo lo spezzettamento delle unità produttive (cioè, il “decentramento”, prima all’interno e poi internazionale). Consideriamo che una società più omogenea determina coalizioni più omogenee, gruppi sociali più definiti, identità molto più forti. Quindi è stato difficile per la sinistra, sia tenere un argine difensivo, sia produrre una controffensiva vera e propria sul piano culturale e sul piano delle proposte.
Quando poi c’è stata la liberalizzazione completa dei movimenti di capitale, che hanno reso il mercato mondiale un tutto unico, il potere dello Stato è diminuito moltissimo, ciascun paese è stato soggetto a uno scrutinio della finanza internazionale e anche le opzioni di politica economica si sono ristrette molto; se aggiungiamo la crisi fiscale che ha toccato quasi tutti i paesi, capiamo ancora di più come si determinino condizioni molto sfavorevoli alla sinistra, che lentamente hanno fatto mettere da parte politiche interventiste, di spesa, ma non solo, anche di interferenza nelle scelte private. Così è dilagata un’altra concezione del mondo che aveva ovvi connotati ideologici, ma che inizialmente è apparsa come un insieme di precetti quasi neutri per riconquistare un dinamismo dell’economia (che aveva perso nel frattempo il motore domanda interna-domanda internazionale). Il capitalismo, se vogliamo usare questa categoria, o le élites dominanti, o i settori benestanti della società, o il sistema sociale che è prevalso, in realtà non aveva più sfide interne, non aveva più una contrapposizione interna, ed è per questo che l’insieme delle proposte di conduzione delle politiche economiche è finito per apparire un fatto oggettivo senza alternativa, con impossibilità di andare al di là di certi binari. Ed è così che siamo a oggi.
Il neoliberismo ha conquistato un’egemonia culturale, ma sulla base di cambiamenti oggettivi, inevitabili. Ma la sinistra poteva fare qualcosa?
Di quella trasformazione della società, di cui abbiamo parlato, la sinistra non è stata in grado di dare un’interpretazione adeguata, mentre ha avuto una sintesi a destra. Ma anche dal punto di vista culturale il cambiamento dei rapporti di forza, dei fatti impositivi esterni, di ciò che era possibile e ciò che non era possibile, si è volto sicuramente contro la sinistra. Il quadro culturale è stato lentamente dominato da un pensiero unico. Ed è proprio forse il piano culturale, più che il piano delle politiche, dove noi misuriamo la sconfitta della sinistra. Questa è stata in soggezione rispetto alla critica sociale portata dalla nuova ortodossia allo Stato “paternalistico, inefficiente e burocratico”. Non ha avuto idee su come affrontare, senza snaturare la sua visione del mondo, quella parte di parzialissima verità che quella critica ad “alzo zero” conteneva. Ha quindi accettato l’idea che non ci fossero alternative, che la via indicata dall’ortodossia fosse in fondo la via da seguire, quella cioè del mercato, della politica dell’offerta, dell’alleggerimento dello Stato, della flessibilizzazione del mercato del lavoro, dell’arretramento sui canoni di protezione sociale. In un certo senso ha ritenuto che la via della liberalizzazione dell’economia fosse l’unica capace di rendere dinamico il sistema produttivo. Accettato questo, ha finito per accettare anche tutto il corollario di elementi ideologici, che si presentavano come apparentemente neutri: la sovranità del consumatore che si sostituisce al cittadino, il fatto che non si parli più di compromesso sociale e di patto di cittadinanza, che non ci sia più uno spazio pubblico che vada difeso e condiviso con i cittadini, che sia necessario che le politiche discrezionali recedano rispetto all’universalismo del mercato. Pensiamo ai servizi sociali, pensiamo al ruolo protettivo dello Stato. Si è accettato, come ho detto, che le politiche dell’offerta fossero l’unico criterio di governo, perché solo da queste poteva venire efficienza e stimolo all’investimento, mentre le politiche di domanda ormai erano bandite. Intorno a quell’unico criterio si costruiva la politica economica. La stessa architettura istituzionale europea non ha concepito altro che questo, bandendo strutturalmente la gestione della domanda, o politiche di occupazione come target, prevedendo che non vi dovessero essere né strumenti fiscali centralizzati, né strumenti monetari. Quelli che sono stati messi in campo sono stati una forzatura rispetto a ciò che prevedono i Trattati e lo Statuto della Banca centrale europea. In più, questa idea del mercato, della competizione, è entrata anche a livello individuale; ciascuno di noi è sollecitato a fare un’analisi costi-benefici, a prendersi le responsabilità delle scelte: deve scegliere la scuola, deve scegliere la sanità, il fornitore di servizi pubblici; insomma una educazione a introiettare una concezione totalmente diversa del mondo, quella in cui una soggettività si forma attorno all’individuo che partecipa al mercato. Questo è penetrato poi ovunque. Pensiamo alla pubblica amministrazione: non è più la burocrazia che presidia lo Stato e la continuità amministrativa, o che fa valere un principio di statalità; è una burocrazia che deve simulare il settore privato come se agisse sul mercato, con criteri di valutazione. Pensiamo non solo all’operato dei singoli ma alla scuola o all’università, soggette a una simulazione di competizione tra centri diversi secondo criteri che poi sono sempre del tutto arbitrari, come sono del tutto arbitrari i criteri di efficienza privata applicati alla pubblica amministrazione. Questi creano una pubblica amministrazione spezzettata, che incorpora anch’essa il principio di competizione anche dentro se stessa. A tutto tondo, la società funziona secondo canoni che non sono più di cooperazione o di primato dell’interesse collettivo. Il primo è una parolaccia il secondo è demandato alla competizione medesima che lo assicurerebbe per definizione.
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