Riprendiamo e volentieri pubblichiamo l’articolo di Sergio Labate, professore associato di Filosofia Teoretica all’Università di Macerata e membro del Consiglio di Presidenza di Libertà e giustizia, L’unanimità di Draghi e le scelte politiche da compiere. L’articolo dialoga con il seguente, sempre pubblicato su Libertà e giustizia: Umiltà, competenze e coraggio: le tre virtù di Draghi per un’Europa rinascente di Roberta De Monticelli.
Vorrei dire la mia sul nascente governo Draghi. E non perché pensi che la mia voce possa dire molto più di quanto si sta dicendo in questi giorni. Niente affatto. Ma per tre motivi fondamentali, che mi risuonano dentro con forza. Il primo è certamente perché vivo anch’io con preoccupazione un unanimismo che mi suona sempre sospetto e che, a dirla tutta, mi pare sia un sintomo di una crisi profonda del nostro discorso pubblico sulla democrazia.
Il secondo motivo è che vorrei confrontare la mia ipotesi di lettura -certamente radicale e non troppo speranzosa – con quella, del tutto differente, di molti degli intellettuali che stimo e alle cui parole normalmente affido buona parte delle mie consapevolezze politiche di questi tempi precari. Il disaccordo mi spinge a farmi domande e a porre dubbi sulle mie posizioni (del resto coltivare il disaccordo mi pare uno dei tanti compiti pubblici che oggi gli intellettuali ignorano, con buona pace della lezione di Pasolini).
Il terzo motivo è, per così dire, epistemologico: vorrei suggerire che siamo dinanzi a un tempo e a uno scenario in cui il compito di un intellettuale non è di proporre tesi ma di immaginare con rigore delle ipotesi. Ma andiamo con ordine.
Credo che il consenso unanime, quasi una forma di elaborazione collettiva di un trauma, di sollievo generalizzato, debba essere contestualizzato nel lungo termine, non nel breve. Non basta cioè pensare all’adesione prevalente alla formazione di questo governo nei termini puntuali per cui essa sarebbe l’effetto di una causa sotto gli occhi di tutti, lo stato di emergenza pandemica.
Piuttosto la pandemia ha svelato una crisi di legittimazione della politica che in Italia è evidente dal 2011, dal governo Monti. Anche quel governo ebbe un consenso generalizzato, ma le motivazioni erano ben diverse. Lì lo stato di eccezione si chiamava Berlusconi e non era stata un’emergenza puntuale ma la costruzione di un’epoca di linguaggio, costumi e malcondotte.
Monti sembrava agli italiani – anche e soprattutto agli italiani “progressisti” – un male necessario, ma anche un passaggio necessario. Anzi, letteralmente, il gestore di un passaggio da una Repubblica a un’altra, da un’epoca avvelenata dal tarlo berlusconismo a un’epoca finalmente emendata.
Ciò che è successo dopo non è il ripristino di un altro equilibrio. Alla crisi della politica che definiamo berlusconismo è seguita un’altra crisi della politica. È da allora che questo Paese non ha un progetto politico in grado di orientare un governo chiaro e si consegna a esperimenti in vitro, spesso eterodiretti (o almeno condizionati).
Se la crisi di legittimità che nel 2011 poteva essere ricondotta a una causa chiara e distinta, quella di oggi non può essere semplificata. Sono troppe le concause: crisi economica, dialettica tra poteri europei e nazionali (il tema centrale, su cui ritornerò alla fine), l’avvento del populismo, infine la pandemia. Draghi, che non è Monti (il suo spessore, al di là del giudizio che si ha su di lui, è più elevato), giunge al termine di tutto questo e il consenso che lo circonda – anche da parte dei politici – è la presa d’atto di dieci anni in cui la politica italiana non è riuscita a rigenerarsi, ma anzi ha trasversalmente trasmesso ai cittadini frustrazione e impotenza.
Non voglio con ciò negare che la pandemia abbia rappresentato una cesura così netta da segnalare una discontinuità. Voglio dire che il trauma della pandemia non può ridursi alla somma delle incapacità politiche che l’hanno preceduta, ma certamente i suoi effetti sono stati enfatizzati dalle responsabilità politiche precedenti: dalla dismissione del sistema sanitario ai tagli alla scuola, dalla incapacità di avere governi stabili e credibili alla permanenza sull’agone politico di politici letteralmente incredibili.
Al netto della politica come capro espiatorio – cosa quasi inevitabile in questa situazione – le mancanze e le difficoltà strutturali nell’affrontare la pandemia sono state l’amplificazione di ciò che era emerso chiaramente già negli anni precedenti. La pandemia ha semplicemente demistificato ciò che prima l’ideologia dominante tendeva non solo a difendere, ma anzi a coprire.
Oggi i più tenaci difensori della Sanità e dell’Istruzione pubblica sono quelli che hanno chiesto e ottenuto esplicitamente la loro demolizione (e già qui si capisce dove voglio andare a parare: perché abbiamo bisogno del gesto soprannaturale della conversione di coloro che hanno la responsabilità di quanto accaduto e a cui adesso affidiamo la responsabilità di sanare le ferite che loro stessi hanno contribuito a produrre? (read more)
Caro Sergio Labate, vorrei esprimere alcuni punti di forte consenso e alcuni di dissenso da questo intervento, di cui ti ringrazio.
1. (Forte consenso): “La prima è che è solo su questo che dovremmo concentrarci. Cioè che tutto questo passaggio epocale deve essere ricondotto a ciò che sta accadendo circa il progetto dell’Europa. E il compito degli intellettuali è quello di riportare per quanto possibile la discussione a questo unico argomento, che è davvero ciò su cui si gioca il nostro futuro. Non parlare di ministri, ma di quale Europa Draghi rappresenterà”.
Del resto, per un autore di saggi sulle passioni sociali e soprattutto sulla speranza come tu sei, credo non dovresti sottovalutare il ruolo che – non certo la supposta unanimità dei media (io non ne vedo così tanta), ma la fiducia della cittadinanza può giocare in un processo di vero rinnovamento. La speranza c’è stata, una vera ondata. Messa oggi a durissima prova dal fatto che nelle sue più visibili componenti il profilo del governo sembra tutt’altro che “alto” (sul dramma simbolico che questo comporta è uscito oggi un mio modestissimo pezzo su “Domani”). Tuttavia oggi vorrei ricordare a tutti, a mo’ di nota di incoraggiamento, che i 9 ministri senza portafoglio (Brunetta, Garavaglia, la Stefani, la Carfagna e la Gelmini – ma anche Colao, la Bonetti di Italia Viva e i pentastellati D’Incà e Dadone), in quanto senza portafoglio, non potranno fare nulla senza previa approvazione a maggioranza semplice del Consiglio dei Ministri: e questo francamente, anche se per il resto non vogliamo parlare di ministri, è già un sollievo.
2. Punti su cui dissento. Parli di “modello dominante”, e dal contesto risulta trattarsi “modello di società neoliberista”. Dominante dove e come caro Sergio? Non trovi che ci sia qualche minore differenza fra il Washington Consensus e l’Alitalia, l’Ilva, la Terra dei Fuochi, la stessa Padania, i meccanismi amicali e consortili fra politica ed economia, l’assoluta unanimità non ora, ma molto molto prima, fra destra e sinistra, sull’aumento illimitato del debito e i pugni battuti sul tavolo dell’Europa cattiva e neoliberista?
Parli di possibile controrivoluzione: perché, c’era stata una rivoluzione? Mi sono veramente distratta?
Poi: io sono spaventatissima invece dai ministri – perché di essi almeno Cingolani il portafoglio ce l’ha, e Cingolani era quello che attaccò vilmente e violentemente Elena Cattaneo che gli rimproverava opacità e gestione consortile dei fondi ITT e poi Human Technopole.
Mentre aderisco al tuo giusto richiamo agli intellettuali a discutere di Europa e quale Europa mi chiedo: ma non dovremmo – invece di copiare genericità ideologiche (non è il tuo caso) concentrarci di più sulle specificità italiane? Quando la gente parla di “neoliberismo” parla di tendenze che non è vero abbiano modellato anche prima del covid le linee portanti della politica europea almeno per quanto riguarda: direttive fiscali e antievasione; welfare; direttive per la ricerca, università e istruzione; direttive anticorruzione; direttive sulla corretta regolazione dei mercati, con gare e appalti non guidati e politicamente connessi. Direttive (e ne mancano) emesse dal Parlamento Europeo con altrettanti richiami all’Italia da parte della Commissione, e dall’Italia unanimemente elusi! È questo, il “neoliberismo”?
Contribuiamo alla discussione con un articolo a firma di Maurizio Ferrera, Professore ordinario di Scienza Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano, dal titolo Neowelfarismo liberale: nuove prospettive per lo stato sociale in Europa, che riguarda il rapporto tra il cosiddetto “neoliberismo” e le politiche europee in materia di bilancio pubblico, sviluppo economico, fisco e welfare. È stato pubblicato sulla rivista Stato e mercato de Il Mulino (all’indirizzo: https://www.rivisteweb.it/doi/10.1425/73006) nell’aprile del 2013. Quel mese Enrico Letta sostituì Mario Monti alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, incarico che Monti assunse a seguito dell’attacco speculativo all’Italia dell’estate del 2011 e dell’invio della lettera della BCE firmata da Jean Claude Trichet e Mario Draghi al governo Berlusconi IV. Nel corso del governo Monti il Parlamento italiano approvò l’inserimento dell’obbligo di pareggio di bilancio in Costituzione. Relatore del provvedimento in Commissione bilancio della Camera fu Giancarlo Giorgetti, ora Ministro dello Sviluppo Economico, che intervenne anche in Parlamento a favore della modifica costituzionale. Nelle Conclusioni, l’articolo di Ferrera recita: “La protezione sociale è stata ed è ancora un pilastro fondante dello European way of life. Lanciando un attacco aggressivo (sotto il profilo simbolico, politico e finanziario) a tale pilastro (pensiamo al discorso sul cosiddetto «smantellamento» del welfare), i neoliberisti hanno probabilmente commesso un peccato di hybris. Dopo tutto, all’inizio degli anni Novanta, al colmo della parabola ascendente, secondo l’Eurobarometro, maggioranze nazionali superiori al 90 per cento dei cittadini europei (EC 2012) ritenevano che «la sicurezza sociale è una conquista importantissima della società moderna» e la maggioranza degli elettori era a favore del suo mantenimento (Ferrera 1993). Il potenziale trasformativo del neowelfarismo liberale è fortemente vincolato oggi dall’intransigenza «rigorista» delle autorità economiche UE e dalla debolezza della dimensione sociale europea. Il nuovo discorso sul welfare, nonostante i numerosi «ponti» da esso lanciati verso i temi della crescita, della competitività, dell’occupazione, non è riuscito a scalfire (né ha sfidato in modo aperto) il prevalente consenso di matrice monetarista e di conservatorismo fiscale nella gestione dell’UME.” L’articolo di Ferrera è consultabile integralmente anche sul sito di Pietro Ichino, all’indirizzo: https://www.pietroichino.it/wp-content/uploads/2013/12/stato-e-mercato-neowelfarismo.pdf
Ecco la parte conclusiva dell’articolo di Ferrera che è del 2013:
“La tesi di questo saggio può essere così riassunta: l’approccio
neoliberista ha registrato una parabola di influenza nel discorso
sul welfare la quale si trova attualmente nella sua fase discendente; nel contempo, si è gradualmente affermata una nuova sintesi ideologica che ho definito «neowelfarismo liberale», volta a combinare in modo creativo spunti tratti dalla tradizione liberale e da quella socialdemocratica per elaborare una nuova concezione della natura e del ruolo dello Stato sociale
in un contesto economico sempre più basato sulla conoscenza
e sempre più aperto. Il neowelfarismo liberale mantiene al
proprio interno non solo il nucleo centrale del «liberalesimo»,
ossia la tutela della libertà negativa, ma anche alcuni elementi
centrali dei vari «liberalismi» (come le nozioni di eguaglianza di
opportunità, non discriminazione, «individualità», efficienza del
mercato e economia aperta). Nello stesso tempo il welfarismo
neoliberale include al proprio interno anche elementi centrali
della tradizione socialdemocratica: solidarietà, redistribuzione,
inclusione, universalismo e così via. Sappiamo che, anche nel
momento di massima ascesa del neoliberismo, quest’ultima
tradizione ha mantenuto la propria centralità nel contesto
scandinavo; e che essa ha giocato un ruolo di primo piano
nell’elaborazione filosofica del paradigma egualitarista liberale
all’interno dell’accademia anglo-americana”
C’è qualcosa di riprovevole in questa “ideologia”? Letta così, e a supporre che si potesse implementarla con politiche adeguate, sembra un sogno, no?
Nel 2013 Ferrera scriveva inoltre “Il potenziale trasformativo del neowelfarismo liberale è fortemente vincolato oggi dall’intransigenza «rigorista» delle autorità economiche UE e dalla debolezza della dimensione sociale europea”. Sembra evidente che proprio qui una grande svolta c’è stata, e su questo punto l’articolo di Ferrara è datato.
Dunque – tantissimmi assai sinceri auguri al “neowelfarismo liberale”, insomma al buonsenso degli uomini dabbene (ouf, anche delle donne, d’accordo).
È molto interessante l’articolo di Maurizio Ferrera, perché offre una più dettagliata prospettiva storica alle riflessioni di Labate. Intanto, consente di riferire il termine “neoliberismo” a concrete e prolungate scelte, anche a opera dell’Unione Europea, d’ordine valoriale, consentendo di ricondurvi alcuni indirizzi di governo della società e dell’economia. In secondo luogo, essendo stato pubblicato al termine della crisi italiana del 2011, immediatamente seguita alla crisi greca e a tutte le sue conseguenze, ci induce a riflettere sull’impatto avuto sulla prospettiva europea del decennio di crisi economica che ci ha condotti fin qui e degli strumenti adottati per affrontarne gli effetti. Infine, lascia aperti alcuni quesiti, a mio giudizio, sulla compatibilità o quantomeno sul bilanciamento tra i molti obiettivi che il neowelfarismo liberale che professa si propone, anche alla luce del fatto che il Recovery Fund, come d’altronde le politiche della BCE (Whatever it takes e QE) che hanno preceduto la pandemia, non sono necessariamente in contraddizione con “il prevalente consenso di matrice monetarista e di conservatorismo fiscale nella gestione dell’UME” al quale lo stesso neowelfarismo liberale di Ferrera sembra opporsi. Per venire all’oggi: ci sono molti modi per spendere risorse pubbliche aggiuntive di debito in vista di una transizione digitale e green dell’economia. Puoi incentivare, per dire, l’acquisto di auto elettriche oppure investire sulla protezione delle comunità montane dal dissesto idrogeologico. Puoi concentrare le risorse su un incubatore di start up a Milano in consorzio con investitori internazionali o cablare le innumerevoli città del Meridione che viaggiano ancora su Adsl a 128 Kbps. E non sempre puoi fare entrambe le cose efficacemente, purtroppo. Molti esempi sarebbero possibili. Ci sono molto modi, d’altronde – tra loro eticamente, socialmente, politicamente non equivalenti – anche per rendere “sostenibile” quel “debito” per investimenti nel tempo. È una discussione che si può fare soltanto entrando competentemente nel merito delle scelte che verranno compiute.
Perché sia davvero il governo del Paese
Nei giorni scorsi, davanti allo scenario di un governo ‘di tutti’ che – a giudizio di molti – rischierebbe di certificare una sorta di pericolosa sospensione della normale dialettica democratica tra maggioranza e opposizione, ho indirizzato ai compagni del mio partito – decisi a non appoggiare il Governo Draghi – un appello a non abdicare alla politica e ad anteporre l’interesse generale a quello di parte. Sostenendo, appunto, ciò in cui credo da sempre, e che, cioè, la Politica trova la sua ragion d’essere, prima, nell’individuare quali sono i grandi e irrinunciabili valori che riguardano l’intera res-publica e, subito dopo, nell’impegno a realizzarli – quei valori – nell’interesse di tutti. È solo coltivando l’ambizione di occuparsi del ‘bene comune’ – in altre parole – che la Politica può contribuire efficacemente al ‘pieno sviluppo della persona umana’ (art.3, 2°c. Cost.) e al ‘progresso materiale e spirituale della società’ ( art.4, 2°c.Cost.).
Ora, nessuno può negare che, se la situazione del Paese è giunta a questo punto, è perché la Politica ha subìto una vera e propria mutazione genetica, perdendo di vista il suo respiro etico, e quindi universale, e le sue finalità ‘identitarie’ riassumibili nel favorire ‘l’ effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese’ (art.3,2°c.Cost.) attraverso lo strumento associativo rappresentato da partiti ‘democraticamente organizzati’, così come è scritto in Costituzione ( art.49 ).
Partiti, cui la nostra pigrizia – morale e intellettuale, prima ancora che civica – ha fatto mancare, nel corso di questi ultimi 30 anni, quella partecipazione corale, di massa e caratterizzata da un autentico spirito di servizio, che avrebbe impedito la loro degenerazione in caste oligarchiche. Caste sempre più attente a blandire populisticamente gli umori e i consensi di cittadini-sudditi che non a stimolare la partecipazione attivamente critica di cittadini-sovrani, maturi e responsabili. Se vogliamo evitare, allora, quella ‘morte dell’anima che è mortificazione delle idee, soprattutto se queste idee sono degli ideali’ – come ci ammonisce Roberta De Monticelli nel suo Umiltà, competenza e coraggio: le tre virtù di Draghi per un’Europa rinascente (Domani, 6 febbraio 2021), dobbiamo necessariamente recuperare la Politica smarrita, quella con il suo DNA originario, fatto di respiro etico, di spessore culturale, di passione civile a servizio del bene comune. È l’unico modo, io credo, per poter superare, in nome di una ritrovata laicità, quel ‘misticismo teologico politico’ che – come teme Sergio Labate (nel suo L’unanimità di Draghi e le scelte politiche da compiere) – condannerebbe la nostra società a non vedere all’orizzonte alternative al modello neo-liberista’.
Rileggere Panzioeri per riflettere sulla poltica attuale. In memoria di Raniero Panzieri, a 100 anni dalla sua nascita (Roma, 14 febbraio 1921 – Torino, 9 ottobre 1964) ) riprendiamo dal sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli alcune riflessioni di Valeria Tarditi dell’Università della Calabria sul ruolo dei partiti e sul loro cambiamento nel tempo.
Panzieri diresse la rivista Mondoperaio del PSI negli anni 50 e, in quel periodo, tradusse il secondo libro de Il Capitale di Marx. Si trasferì poi a Torino. Fu collaboratore della casa editrice Einaudi di Torino, con cui stabilì, dal 1959, un rapporto di lavoro stabile fino al suo licenziamento, nel 1963, insieme a Renato Solmi poiché favorevoli alla pubblicazione del libro di Goffredo Fofi L‘immigrazione meridionale a Torino e perché ritenuti non più funzionali alle scelte produttive e culturali della casa editrice. Fondò la rivista Quaderni Rossi, con altri, tra cui Mario Tronti, dal quale si separò nel 1963, fondando la rivista Classe operaia. Nella rivolta di piazza Statuto a Torino del 1962, intuì l’emergere della centralità della fabbrica e dell’operaio.
“Dirigente di partito nel PSI e intellettuale critico nel dibattito marxista dell’Italia degli anni 50 e 60, Raniero Panzieri nella sua breve vita ha affrontato moltissimi temi, alcuni dei quali riguardanti il rapporto tra la classe e il partito, tra cultura e politica, la trasformazione del capitalismo e il lavoro di fabbrica e poi, ancora, quello della democrazia e della natura scientifica del pensiero di Marx. (…) ”
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Sullo sfondo delle discussioni c’è un ingombrante Convitato di Pietra: il rapporto dialettico tra Lavoro e Capitale. È stato furbescamente occultato e metabolizzato dalle Sinistre, sino ad appoggiare strutturalmente opzioni di Governo tutte sbilanciate sul lato del Capitale. Così, avendone adottato una modalità di governo parziale, le diseguaglianze sono drammaticamente aumentate, le aree arretrate sono divenute preda della malavita organizzata e rimangono sottosviluppate, le multinazionali fanno il loro comodo con i nostri lavoratori, e quant’altro. Quando si avrà l’onestà intellettuale di riportare quella dialettica, che coinvolge l’Uomo nella sua interezza, al centro delle riflessioni della Sinistra?
Caro Corrado, ci viene in aiuto – come sempre – quella ‘ pedagogia costituzionale ‘ cui dovremmo attingere con maggiore frequenza e maggiore coraggio. C’è il diritto alla ‘ sovranità popolare ‘, per esempio, e c’è il dovere di esercitare quella sovranità nelle forme e nei limiti della Costituzione. Sono riconosciuti e garantiti i diritti inviolabili dell’uomo, ma a patto che ognuno di noi adempia ai suoi inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale. Abbiamo il diritto di partecipare ‘ effettivamente ‘ ( cioè da cittadini consapevoli e non da sudditi cui viene concessa la facoltà di apporre una X su una scheda ) all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese ma solo a patto che siano rimossi dalla Repubblica ( quindi da tutti noi, non dalle sole sinistre ) gli ostacoli di ordine economico e sociale che rendono appunto quella partecipazione un privilegio di pochi e un diritto negato a troppi. Riconosciamo il diritto al lavoro ma esigiamo anche che rivesta una funzione sociale, concorra – cioè – al progresso materiale o spirituale della società. E così per il diritto di impresa , che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Come per il diritto di proprietà che deve rivestire sempre una funzione sociale e di cui si può essere espropriati per motivi di interesse generale. Potremmo continuare, così, per tutti quelli che la Costituzione definisce ‘ rapporti ‘, indissolubile endiadi – cioè – di diritti e doveri. Vediamolo così , allora, il rapporto dialettico tra Lavoro e Capitale. Diritti e doveri dei lavoratori e diritti e doveri delle multinazionali. Diritti e doveri di chi amministra la res-publica e diritti e doveri dei suoi cittadini. Senza mitizzazioni ideologiche e senza demonizzazioni reciproche. Senza il veleno – insomma – di quella indignazione anti-politica e anti-costituzionale che alimenta da sempre i populismi, di destra e di sinistra.
Caro Giovanni, come non essere d’accordo con la tua lettura della nostra Costituzione? Purtroppo, in molte parti non attuata, o male interpretata. Lungi da me qualunque populismo! Ma è una riflessione che va fatta, perché rappresenta l’originalità della sinistra nella dialettica politica. L’occultamento di tale frattura può aver prodotto la mancata o non completa attuazione di alcune parti significative della nostra Costituzione.
Sono d’accordo con il prof. Labate quando sostiene che il compito di un intellettuale, che voglia aiutare i cittadini di un Paese complicato come il nostro ad avere una sufficiente ‘ consapevolezza politica di questi tempi precari ‘ , non è quello di proporre tesi ma di “ immaginare con rigore delle ipotesi “. Provo anch’io, allora, a chiosare alcuni passaggi della sua riflessione che mi sono parsi particolarmente significativi.
Mi sembra, intanto, che tutto questo unanimismo attorno alla figura di Draghi non ci sia e che , anzi, dopo l’ implosione del M5S e la spaccatura all’interno di LeU, si faccia fatica anche solo a…intravederlo. Di unanime, semmai, c’è stata e c’è la speranza che questo governo ( resosi necessario, come si è visto, proprio per le lacerazioni interne alla maggioranza del Conte 2 e non solo per l’iniziativa sfascista di Renzi ) possa farci uscire al più presto dall’emergenza pandemica e , con un saggio e lungimirante utilizzo dei fondi europei, accompagnato dalle agognate riforme di giustizia fisco e pubblica amministrazione, possa avviare in tempi non biblici una decente ripresa del nostro Paese.
Per quanto riguarda, poi, la delegittimazione della politica ( che non sarebbe riuscita – nei dieci anni che vanno dall’esperimento Monti all’esperimento Draghi – a rigenerarsi in modo tale da poter avere un progetto politico in grado di esprimere una maggioranza parlamentare coesa e un governo del Paese altrettanto solido ) penso che sia utile focalizzare meglio la gènesi di questa crisi che, periodicamente , ci costringe a dover ricorrere al pragmatismo decisionista di qualche tecnico ‘ super partes ‘.
Dicendo, intanto, che essa è ben anteriore sia alla lunga stagione del berlusconismo che a quella del sovranismo leghista e/o del populismo pentastellato, alleati – non dimentichiamocelo – nel Conte 1. Personalmente, farei risalire l’inizio della crisi progettuale della politica alla fine degli anni ’70, a quella fase storica – cioè – seguita all’ assassinio dell’On.Moro, che ha visto morire sul nascere l’intuizione di Moro e Berlinguer : far incontrare la morale cattolica e quella comunista per salvare l’Italia dalla crisi economica e dal terrorismo e gettare le basi, così, per una vera democrazia dell’alternanza.
A fallire , in quello snodo così drammatico per la nostra giovane repubblica, non fu solo un progetto politico ma il modello stesso di democrazia rappresentativa disegnato con tanta lungimiranza dai padri costituenti. Fu, infatti, la gravissima “ questione morale “ , disvelata all’inizio degli anni ’80 da Berlinguer ( e che conoscerà le sue pagine più fosche con le inchieste di ‘ Mani pulite ‘ dei primi anni ’90 ) a provocare l’implosione dei partiti di massa e, con essa, la disaffezione da quella ‘ partecipazione effettiva ‘, cioè, militante, libera e responsabile, che ( pur con i condizionamenti ideologici che ben conosciamo ) consentiva a tutti i cittadini che sceglievano di “ associarsi liberamente in partiti ‘ di “ concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale “.
E’ venuto a saltare, quindi, quel collegamento ( una sorta di combinato disposto ) tra gli artt.3, 2°c. e 49 della nostra Costituzione sul cui funzionamento poggia l’intero impianto di una democrazia che, o riesce a coinvolgere – attraverso i cosiddetti corpi intermedi – la passione civile, l’ impegno intelligente, la dirittura morale e lo spirito di servizio dei propri cittadini-sovrani, oppure si riduce a tenere in vita simulacri di democrazia, simulacri – cioè – di istituzioni rappresentative sempre più oligarchiche e autoreferenziali.
Occorrerebbe, quindi, una nuova fase costituente che ci restituisse quel modello di democrazia, nato dall’ incontro di tutte le culture politiche rappresentate in Parlamento, e caratterizzato dalla ricerca instancabile del bene comune attraverso un laico e leale confronto delle idee . Mi piace immaginare che l’esecutivo guidato dal prof. Draghi – anche in virtù dell’ ampio perimetro della maggioranza che lo sostiene – possa operare con quello stesso spirito e con quello stesso obiettivo etico-politico. Il ‘ nostro discorso pubblico sulla democrazia ‘ – per usare le parole del prof. Labate – non potrà che trarne giovamento.
Giovanni De Stefanis