Responsabilità. Rispondere di quel che si dice e si fa. Rendere conto, ovvero rendere ragioni. Se esiste un ambito in cui il concetto di limite non sembra dover trovare applicazione è proprio in merito al raggio d’azione della responsabilità, che rivendica un incondizionato bisogno di ragioni. È un bisogno, un’esigenza o, come direbbe Simone Weil (in La prima radice), un’esigenza dell’anima. Ossia qualcosa di ben più profondo e radicato di un semplice diritto: abbiamo diritti solo se considerati dal punto di vista degli altri. Considerati di per se stessi, abbiamo esclusivamente doveri che, secondo la brillante prospettiva di Weil, derivano senza eccezione da quelli che vengono denominati “bisogni vitali dell’essere umano”. In quanto esseri umani localizzati all’interno di un orizzonte collettivo, abbiamo un bisogno vitale di responsabilità. Ciò che non nutre avvelena: sopprimere l’esigenza vitale della responsabilità significa allora avvelenare l’anima con un’illusoria esigenza.
Il rischio diventa ancor più tangibile quando una simile possibilità di avvelenamento ricorre all’interno di un contesto istituzionalizzato quale può essere la scuola ed il suo compito educativo (e non formativo, con buona pace della schiera di pedagogisti e psicologi). Non sentire il peso della responsabilità in un simile ambiente significa avvelenare silenziosamente l’anima di chi, malauguratamente, si trova in una situazione di – temporanea – inferiorità dal punto di vista di una mera gerarchia professionale e dal punto di vista della conoscenza, ovvero lo studente.
L’esigenza vitale di responsabilità viene meno se rivolta a chi si trova in una situazione di, momentanea, inferiorità? Se accade, allora eccoci di fronte ad un veleno potenzialmente fatale per l’anima. Il mio dovere di rispondere di quel che faccio e dico viene meno di fronte a chi si trova in una situazione di, momentanea, inferiorità conoscitiva? Se accade, allora eccoci di fronte ad un’aula che crolla su se stessa. Una voragine incolmabile si apre tra ciò che nutre e ciò che avvelena.
Essere responsabili implica uno sforzo continuo per far sì che gli studenti possano imparare dal proprio docente quegli strumenti necessari per pensare in maniera critica ed autonoma. Non ti sto dicendo che cosa devi pensare, ma ti sto dicendo quali sono le fondamenta che ti permettono di rendere conto, rendere ragione, di quello che tu pensi. I binari sono due e paralleli, se uno dei due treni deraglia, quel che alla fine prevale è un pensiero che non sa rendere ragione di se stesso oppure, in alternativa, un pensiero che sa pensare ma si accontenta di quello con cui viene indottrinato.
Come già Pirandello diceva “un fatto è come un sacco: vuoto, non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato”. Il docente che vede nei propri studenti sacchi che per reggersi in piedi hanno bisogno di una forma, sta avvelenando le loro anime. Come possono acquisire una forma se la loro esigenza è quella di comprendere, innanzitutto, gli strumenti del pensiero? Perché pretendere di dare una forma a qualcosa che, strutturalmente, non può ancora avere una forma? Il risultato, inquietante, è omologante e depersonalizzante: giovani menti avvelenate di questa illusoria criticità del proprio pensiero. Giovani menti a cui viene detto che cosa pensare e che poi si ritrovano sprovviste di quegli strumenti necessari per capire quel che gli viene detto di pensare. L’ansia di avere un’opinione avvelena l’esigenza di imparare a rendere conto, e l’ansia di voler dare una forma avvelena l’esigenza, strutturale per un docente, di dover, sempre e comunque, rendere conto di quel che dice. Perché lo studente, in quanto persona, rivendica una piena ed incondizionata responsabilità da parte del proprio docente.
Per Weil, “ogni collettività, di qualsiasi specie essa sia, che non soddisfi questa esigenza dei suoi membri è guasta e dev’essere trasformata”. E allora, forse, per trasformare la scuola bisogna assicurarsi che intento primario dei docenti coinvolti non sia il voler dare una forma a sacchi vuoti (la rinomata formazione), bensì educare al pensiero. La prima linea di condotta porta poi a sacchi che hanno un pensiero ma non sanno pensare: ed ecco che la minima richiesta di giustificazione – perché pensi questo? – fa crollare questi sacchi come castelli di carta al vento: sacchi dalla forma illusoria, sacchi in realtà vuoti. La seconda linea di condotta, invece, non pretende di distribuire forme, ma di fornire quegli strumenti necessari per capire quale forma adottare.
Il docente che insegna è l’artigiano che ti spiega come usare lo scalpellino per costruire un tavolo, il docente che avvelena è l’artigiano che ti costruisce il tavolo e quindi ti ritrovi già un tavolo tra le mani, possesso illusorio che svanisce di fronte a semplici domande: come si costruisce un tavolo? E soprattutto, perché hai scelto un tavolo con queste specifiche caratteristiche? Ma a quel punto la forma è già data, e il sacco crolla miseramente su se stesso.
Sullo stesso argomento:
Urge la pedagogia. L’emergenza educativa esige la pedagogia della libertà
di Maurizio Baldino
È veramente urgente riprendere la riflessione sulla Scuola oggi che dobbiamo porla al centro di una cosa che si chiama NEXT GENERATION EU.
Chi è ad esempio il nuovo Ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi? Sento che: economista, ha in mente una Scuola sempre più proiettata verso il mondo del lavoro. Già uno si chiede, ma perché dev’essere economista un Ministro dell’Istruzione? Certo, i migliori interventi, è vero, li avevo sentiti da un’economista di fama italo-americana, Mariana Mazzuccato, ma lei era ancora illusa che la nostrra formazione liceale, storico-umanistica, costituisse un atout insostituibile e all’assoluta avanguardia, guai a smontarlo! Preferisco di molto questa illusione – ammesso che sia tale – all’idea di proiettare la scuola verso il mondo del lavoro, che è di una genericità impressionante, quanto una tautologia. Non so, immaginatevi una scuola proiettata verso il mondo delle bische, o verso il mondo delle vacanze. Ma allora perché non mettere all’Istruzione, accidenti, un vero umanista, che non esclude anzi implica che debba sapere come è fatto il mondo e cosa vuole dai giovani per funzionare ma anche per riceverne senso, ragioni, prospettive, memoria e capacità critiche? Con questo torniamo al tema del post qui sopra. Spero che il dibattito continui.