Pisa. Abbiamo ancora bisogno di Keynes? Perché discutere sempre, ossessivamente, di Keynes? Come si chiedeva un autore che probabilmente gli sarebbe piaciuto: “are we forever twisting and untwisting the same rope”, ossia stiamo sempre torcendo e allentando la stessa fune? E anche recentemente un valente matematico finanziario ed economista, Emilio Barucci, sull’Huffington Post del 5/08/20 implorava “Lasciamo stare Keynes, se vogliamo affrontare i problemi dell’economia italiana”.
Uno dei meriti dell’articolo sul Corriere di Pierluigi Ciocca e Giorgio La Malfa, keynesiani di lungo corso, “La teoria economica di Keynes e le insidie degli sprechi” (del 6 Agosto) è di costruire il loro discorso attingendo a una serie di citazioni dalla Teoria generale e altri scritti e interventi del Maestro che permettono al lettore attento anche se non necessariamente addentro un rapido orientamento sul pensiero di Keynes e sulle applicazioni che se ne fanno.
La tesi di fondo di Keynes è secondo loro che il sistema di mercato è privo di un meccanismo proprio di auto-regolazione macroeconomica, ossia, può restare anche a lungo con disoccupazione di gente che sarebbe disposta a lavorare ai salari monetari correnti. Quanto alle applicazioni, l’obiettivo principale dello scritto di Ciocca e La Malfa è di contrastare l’immagine di un Keynes inflazionista, sciupone, favorevole ai lavori pubblici come mero pretesto di distribuire dei salari e incondizionatamente favorevole ai deficit del bilancio pubblico, visto ormai da molti, in Italia, come unica o principale fonte di crescita.
Le loro correzioni a questa immagine sono pertinenti e a mio avviso convincenti. Essi sentono però il bisogno di distinguersi da un altro critico del keynesismo di facciata, Angelo Panebianco, che in un suo recente editoriale (del 3 Agosto) aveva sostenuto che chiudendo una fabbrica improduttiva “si liberano risorse che genereranno (in breve tempo ma non immediatamente) nuova ricchezza e nuova occupazione”.
Un’affermazione che sembra a Ciocca e La Malfa situare Panebianco dalla parte dei non keynesiani (i famosi “classici”): egli pare “pensare che lasciando della gente disoccupata il mercato creerà nuova occupazione”, mentre secondo l’insegnamento di Keynes, “il mercato non garantirà affatto la creazione di nuova occupazione”. Il punto è che il fallimento della fabbrica comporta una caduta nei redditi, che può generare una seconda caduta nell’occupazione, ecc.
Una volta discostatisi da Panebianco e così garantitisi delle ulteriori, e a mio avviso del tutto superflue, credenziali di correttezza keynesiana, gli autori proseguono nello sviluppare una proposta di investimenti pubblici seria, che non è da confondersi con “gli sprechi e gli interventi a pioggia”. Non ritornano però, purtroppo, al problema posto da Panebianco di che fare di una fabbrica in perdita, magari da lungo tempo, e magari beneficiaria, da altrettanto tempo, di sgravi fiscali e contribuitivi, crediti agevolati, e altre provvidenze pubbliche. Keynes dice che questi flussi di trasferimenti pubblici dovrebbero continuare? Dice che bisognerebbe fare come si fa di solito in Italia in questi casi, la si nazionalizza più o meno cripticamente, magari pretendendo di “rilanciare lo sviluppo”?
È uno che, come noi facciamo, consiglia di nazionalizzare le perdite perché bisogna andare “oltre il mercato”, guardare agli effetti sociali negativi della chiusura di un’azienda? In realtà non lo sappiamo. Su questo esplicitamente Keynes non si pronuncia. Tuttavia possiamo trovare una traccia della sua probabile risposta in una delle citazioni del suo pensiero offerte da Ciocca e La Malfa:
In concreto, non vedo alcun motivo di ritenere che il sistema esistente commetta errori significativi nell’impiego dei fattori della produzione che vengono utilizzati… Quando trovano occupazione nove milioni di persone rispetto ai dieci milioni che vorrebbero avere un lavoro e sarebbero in grado di svolgerlo, non vi è alcuna prova che il lavoro di questi nove milioni di uomini venga male impiegato. L’addebito da muovere al sistema attuale non è che questi nove milioni di persone dovrebbero essere impiegati in modo diverso, ma che dovrebbe esservi lavoro anche per il restante milione di persone.
Il fallimento è un’istituzione di un’economia di mercato, una delle cui funzioni -la più importante dal punto di vista economico- è di consentire la riallocazione dei fattori produttivi. Se le condizioni della domanda aggregata sono tali da mantenere in equilibrio macroeconomico il sistema con un’occupazione di 9 milioni, il riaggiustamento avverrà a occupazione invariata, ma a un reddito sociale più elevato.
Questo richiederà un temporaneo intervento fiscale espansivo, o il funzionamento di buoni ammortizzatori sociali. Non la Cassa integrazione, ma un sussidio di disoccupazione come quello previsto dal Job’s Act. A queste condizioni “il mercato non garantirà affatto la creazione di nuova occupazione”, è vero, ma il riassorbimento di quella ormai non più proficuamente impiegata nella fabbrica in perdita sì. Può darsi che Panebianco, nel suo candore, non volesse dire più di questo.
In conclusione, la teoria keynesiana suggerisce in questi casi di sostenere il reddito delle famiglie, non la sopravvivenza di imprese in cronica perdita. Questo è un insegnamento valido anche per la nostra situazione odierna. Naturalmente, si può anche sostenere che Keynes sbaglia…
(*) Giacomo Costa, a lungo ordinario di economia monetaria e creditizia all’Università di Pisa, è economista, saggista e socio di Libertà e giustizia. L’articolo è stato precedentemente pubblicato su Libertà e giustizia il 27 agosto del 2020.
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