Questo governo è spartiacque. Fine di un non-regime, quello successivo alla Prima Repubblica, seguito per trent’anni da un declino tendente al caos.
Se Draghi fallirà, fallirà l’Italia. Se riuscirà, avremo un’altra repubblica. Presidenziale di fatto se non di diritto, perché la selezione dei ministri di questo esecutivo è funzionale al trasferimento di Draghi al Quirinale.
Scopo di questo governo è impedire la morte dell’Italia. In senso stretto. Abbiamo qualche mese di tempo per rimettere in moto l’economia e limitare le ricadute sociali e soprattutto culturali della crisi sanitaria sfruttando al meglio i fondi straordinari europei.
Per volgere il vincolo esterno, autodichiarazione di manifesta incapacità a essere Italia, in vincolo interno. Così dimostrando anzitutto a noi stessi e poi alle potenze cui ci siamo affidati – Germania sotto il profilo economico, America riferimento strategico, con la Francia anello di congiunzione fra le due – che meritiamo di esistere. Prova del nove è la gestione dei finanziamenti comunitari che dovremmo incassare non gratuitamente nei prossimi mesi e anni, a patto di produrre progetti decenti integrati in una strategia di ricrescita economica. Ciò che non abbiamo fatto. Per questo abbiamo Draghi e non il terzo Conte, che sarebbe stato prosecuzione del non-regime. Sanzione della crisi organica della politica.
Draghi è il solo leader italiano riconosciuto per tale nel mondo. Perché si è dimostrato, da supertecnico gestore della Banca Centrale Europea, politico finissimo. “Marchio” internazionale. La sua non spontanea discesa alla guida del governo ci garantirà qualche mese di respiro. Se non sapremo usarli verremo accomodati dietro la lavagna.
Ridotti a mero oggetto geopolitico. Terra di nessuno. Cioè di tutti. Landa inerte, sfrangiata. Con il Nord officina (franco)tedesca e il Sud avanguardia del caos africano. La fine della Prima Repubblica si rivelerebbe inizio del dissolvimento dello Stato unitario. Ciò che nessuno, nel sistema euroatlantico, vuole. Ciò che molti, nemici di quel sistema cui apparteniamo anche se spesso lo dimentichiamo, anelano. Per usare la Penisola senza Italia quale ponte verso il cuore dell’Europa. (…) (read more)
Le parole di Caracciolo sono sempre esplicite e, quantomeno, non lasciano spazio a interpretazioni. A differenza, invece, della quasi totalità dei giornalisti delle principali testate italiane, sempre impegnati in una falsa equidistanza. Colgo però, dell’inquietante dietro le sue parole.
Chi non accetterebbe un tale cambio di passo, addirittura l’aprirsi di una “nuova Repubblica”? Chi non accetterebbe un nuovo Cesare che apre una nuova era politica italiana?
Io mi manterrei in giudizi meno impegnativi e magniloquenti.
Draghi è la risultante (tecnica) di una crisi decisamente poco trasparente, perpetrata da un Senatore mosso da ragioni altrettanto opache.
Draghi mette fine a un esperimento nel campo progressista, necessariamente includente i 5 Stelle (prima forza parlamentare ed erede diretto dell’antiberlusconismo): esperimento di Governo che ha provato, tra un groviglio di contraddizioni e limiti, a riportare all’attenzione proprio ciò che sottolinea Caracciolo: dalla sacrosanta ri-centralizzazione dei poteri e delle competenze (si veda questione sanitaria e scontro Stato-regioni) fino al nuovo protagonismo italiano in Europa.
Draghi a parte, la composizione del nuovo Governo è invece diretta espressione di un disegno tipicamente italiano e secondo-repubblicano: spartizione della torta europea sulla base di una giustapposizione di interessi particolari. Il Governo Draghi dovrebbe essere quello che finalmente ricentralizza le competenze lasciate a potentati regionali? Ce lo auguriamo! Ma con Salvini, Giorgetti, Gelmini al governo, campioni dell’autonomismo differenziata?
Il Governo Draghi dovrebbe essere quello che riapre un protagonismo con dell’Italia in Europa? Ma quale Italia, solo quella del Nord, come vorrebbe il disegno europeista della Lega sin dai tempi di Bossi?
Questo nuovo Governo non è l’alba di una nuova Repubblica, bensì il culmine di un processo che vede la politica degli interessi particolari nascondersi dietro l’aura della tecnocrazia. Né più né meno.
Per ottenere quello che desidera Caracciolo, l’unico modo per farlo è rimettere al centro la politica, una politica progressista, da (ri)costruire nel tessuto democratico nazionale e non nell’intrigo di Palazzo.
La pubblicazione di questo articolo, anche se senza commento, come sempre non significa adesione ai suoi contenuti, ma riconoscimento di rilevanza. Molte delle crude ma realistiche affermazioni che contiene, infatti, sono di una tale gravità che se fossimo in presenza di una dialettica democratica adeguata, dovrebbero risultare allarmanti. Siamo a un bivio, pare di capire, tale per cui, per non morire, dobbiamo sperare che il governo realizzi ciò che ha in programma di fare – e che in concreto tuttavia scopriremo solamente strada facendo – pur consapevoli che il suo solo avvento ha talmente alterato, sotto la pressione degli eventi, la prassi politica, istituzionale e forse la stessa Costituzione materiale, da avere creato un varco verso una Repubblica presidenziale come la prima, vera e autentica Seconda Repubblica. In pratica – absit iniuria verbis – sarebbe un po’ come se affermassimo che la pandemia sia destinata a essere la nostra “guerra d’Algeria” e Mario Draghi il nostro futuro Charles De Gaulle alla vigilia della Quinta Repubblica. E tutto questo in un Paese che solamente il 4 dicembre 2016, per metà, bocciò una riforma istituzionale “maggioritarista” (riduzione parlamentari, monocameralismo, collegi plurinominali, premio maggioranza, sbarramento). Ci è sembrato necessario tenere traccia di un commento così, oltretutto a opera di uno stimabile opinionista che non si può sospettare di simpatie neoautoritarie.
Al realismo geopolitico di Lucio Caracciolo mi permetto di opporre – o giustapporre? – l’idealismo cosmopolitico di Draghi, l’Europeista. E forse – si parva licet – l’idealismo cosmopolitico non intende tanto contrapporsi al realismo geopolitico quanto sottolineare un aspetto diverso, che mi pare egualmente negletto da quasi tutti i media – come giustamente nota Alessandro Volpe a proposito della falsa equidistanza. E’ uscito oggi (19/02/2021) su “Domani”, e salto il titolo redazionale. Lo troverete nel prossimo post perché mi sembra troppo lungo per un commento. Ma spero che la discussione su questo avvincente, e certo drammatico, articolo di Lucio Caracciolo continui.
Da Caveau e pollaio – La mediocrazia funzionale di Mario Draghi di Marco Revelli: «In tempi di crisi il tempo vola. In appena tredici giorni il “governo dei migliori” ha rivelato un’altra faccia, rovesciandosi nel proprio opposto: una kakistocrazia. Un “governo dei peggiori”. In questo senso la fotografia inguardabile dell’accozzaglia di sottogovernisti appena entrati in carica potrebbe essere considerata come una “prova della verità”. Una sorta di prova del nove – o meglio “dei 39” – di quanto fosse fallace, e infantile, il Te deum elevato da quasi tutti – opinion leader e leader senza opinione – al momento dell’elevazione al trono. E di quanto sia malconcio, prostrato ed esangue – diciamolo pure: “senza speranza” – un Paese che si affidi a una tale soluzione con entusiasmo cieco. È la conferma dell’infausta diagnosi di chi fin da subito ha colto nella sua sindrome “bipolare” la patologia del nuovo governo, diviso tra caveau e pollaio: la cassaforte nelle mani dei fidati uomini di banca (ribattezzati per l’occasione “i migliori”) e il resto ridotto a stia appollaiati sulla quale gli avatar delle diverse forze politiche ormai estenuate potessero starnazzare a piacere, impaludati nella propria mediocrità. Insomma, un pasticciaccio brutto, degno risultato del “gesto inconsulto” con cui Matteo Renzi il 13 gennaio ha dato inizio alla reazione a catena che ci ha portati fin qui. È d’altra parte, questa bipolarità, l’applicazione concreta del concetto di “pilota automatico” evocato dallo stesso Mario Draghi nel 2013 per tranquillizzare “i mercati” spaventati dai risultati di quelle elezioni: formula con cui frenò lo spread, è vero, ma inferse un colpo durissimo all’idea di democrazia, confessando di fatto che “i fondamentali” economici e finanziari – in sostanza le cose che contano e su cui si fanno i conti – sono sottratti al voto popolare, custoditi sempre e comunque “in buone mani”. Ora quell’immagine si fa carne e sangue (vive la propria teologica transustanziazione), se è vero, come si dice, che il nuovo presidente del Consiglio non ha voluto per nulla metter mano alla lista dei sottosegretari e dei viceministri (de minimis non curat praetor) concentrato com’è sugli strumenti di volo e sul timone in cabina di pilotaggio, senza badare a cosa accade nella stiva. E non so se sia stato in questo prudente, perché comunque gli strafalcioni del suo membro di ciurma che confonde Dante Alighieri con Topolino (nell’anno del VII centenario della morte) e si accomoda alla Pubblica istruzione, o di quella che, incardinata ai Beni culturali, si vanta di non aver letto un libro da anni, o ancora la presenza dell’avvocato specialista in escort berlusconiane alla Giustizia, o dei like apposti all’elogio dei forni per gli immigrati e dell’indirizzo terronigohome@ scelto per la propria posta elettronica…, tutta questa fanghiglia, insomma, un qualche schizzo sulla sua immacolata tunica angelica finirà pur per lasciarlo… Tanto più che sotto quell’abito qualche magagna spunta: per esempio nell’acclamato discorso al Senato quel “copia incolla” (mica cosa da poco, una trentina di righe che a un normale tesista costerebbero la laurea) di un articolo di Francesco Giavazzi del 30 giugno 2020 – s’intitolava I passaggi necessari sul fisco –, per cui non si sa se deprecare di più l’atto del plagio o il profilo ideologico del plagiato (continua) »