Sono uno degli innumerevoli lettori di Carlo Rovelli. Non posso dire di conoscere, nonostante qualche divulgativa lettura giovanile, la fisica quantistica. Lessi dunque con piacere e profitto Sette brevi lezioni di fisica, La realtà non è come appare e Lʼordine del tempo. E trovo benaugurante che uno scienziato e scrittore di fama internazionale come il suo Autore abbia deciso di leggere Essere e tempo di Martin Heidegger e di riferirne al pubblico del Corriere della sera. Non è scontato, oggi, diversamente dal passato, che uno scienziato delle cosiddette “scienze dure” sʼimpegni nella lettura di un autore delle “scienze umane”, qualunque cosa sʼintenda con questa formula, che immagino non voglia significare che le scienze dure sono “meno umane”.
Più volte, anche su questo blog, abbiamo discusso, in particolare al tempo della pubblicazione dei Quaderni neri, di Martin Heidegger, del suo rapporto con il nazismo, del merito e demerito della sua filosofia e della sua ubiqua e multiforme eredità, per la verità sempre meno avvertibile nel panorama contemporaneo. Non mi ripeterò, quindi, limitandomi a rimandare (in calce a questo articolo) a quella discussione.
Proverò invece a ripercorrere lʼarticolo di Rovelli, perché a mio giudizio rivela, al di là delle opinioni dellʼAutore su Essere e tempo, un certo modo dʼintendere lʼattività culturale sui media, di cui intellettuali e operatori dellʼinformazione, quale anche io sono, sono responsabili. Mi soffermerò inoltre sulla replica di Roberta De Monticelli allʼarticolo del fisico quantistico, che ci dicono qualcosa dello strano rapporto, se vogliamo chiamarlo così, che oggi, almeno in Italia, la filosofia intrattiene con le famose “scienze “dure”.
Rovelli inizia dichiarando di non essere interessato a che cosa realmente abbia voluto dire Heidegger e ciò vale per quanto lo riguarda per qualunque autore: “non potremo mai entrare nella testa di un altro”, infatti, benché valga la pena di provarci perché in fondo potrebbe sempre “arricchire” il nostro punto di vista. Tuttavia, la sua prima mossa va esattamente in direzione contraria, aprendo i giochi proprio con una excusatio non petita per il fatto di scrivere di un filosofo notoriamente compromesso con il nazismo e che inoltre ci suggerisce di inquadrare nella grande tradizione “dellʼidealismo tedesco”, a sua volta “influenzato” dal pensiero di Cartesio e di Kant. Immaginiamo, quindi, che proprio questa sia la cornice interpretativa a partire dalla quale egli ritenga che il testo vada letto o, quanto meno, quella a partire dalla quale lʼabbia letto lui: ognuno infatti, scrive, “è figlio del suo tempo”.
Abbastanza confidente, supponiamo, in questa chiave di lettura, Rovelli prosegue dichiarando il suo aperto dissenso con Heidegger sul seguente punto capitale: il filosofo “vede il mondo come una componente della sua personale esperienza”, mentre lui, “immerso nel naturalismo che domina il pensiero scientifico”, ritiene che il soggetto sia “solo una piccola parte della natura, una parte abbastanza marginale nel grande gioco delle cose, che a noi interessa, appunto, perché in quella parte ci siamo anche noi”. Ciò che è, la realtà, insomma, per Heidegger sarebbe esclusivamente relativa al singolo soggetto: una per Heidegger, una per Rovelli, una per ciascuno di noi, mentre per il fisico ne è indipendente, essendo il soggetto nullʼaltro che una parte di essa, peraltro piccola e marginale: possiamo sì, come fecero anche Cartesio e Kant, chiederci come questa parte conosca la realtà del mondo e se stessa. Ma non possiamo relativizzare quella sua realtà al soggetto.
Nonostante questa divergenza, Rovelli trova comunque in Heidegger una “intuizione straordinaria”, che potremmo riassumere così: se diversamente dal filosofo tedesco, vogliamo capire come il soggetto conosce la realtà, ossia ciò che il mondo è, dobbiamo anzitutto capire che cosa è importante per lui, che cosa del mondo è saliente per lʼessere umano. In questo limitato senso, allora, lʼautore di Essere e tempo non avrebbe tutti i torti a invitarci a superare il pensiero metafisico del passato, perché persino il naturalismo scientifico si è concentrato troppo sulla pura e semplice cognizione del mondo, mentre lʼesperienza che il soggetto ha della realtà muove anzitutto da un “prendersene cura”, diciamo così, selettivo, in cui non tutte le cose hanno la stessa rilevanza e ricevono quindi la nostra stessa attenzione. Ciò che chiamiamo realtà, quindi, benché non sia relativizzabile al soggetto, cʼinforma di sé in forza di questo farcene pragmaticamente, emotivamente e socialmente carico. E Heidegger ce lo rammenta. La biologia, tuttavia, per lo scienziato, “è in grado di operare una piena riduzione naturalistica di questa rilevanza”. La Cura di cui parla il filosofo, infatti, non è per Rovelli nullʼaltro che la “rilevanza” nel processo di selezione naturale di Darwin in forza della quale gli esseri viventi si sono evoluti e continuano a evolvere. Nulla che non sia spiegato. Ma che in ogni caso è stato meritevolmente intuito.
Il secondo spunto che Rovelli ha trovato di “grandissimo interesse” in Heidegger riguarda il tempo. Per il filosofo tedesco il tempo sarebbe “lʼavvenire degli eventi” e non il tempo “oggettivo” di Newton. Questa idea secondo lo scienziato riproporrebbe la nozione aristotelica di tempo e sarebbe compatibile con quella seguita alla pubblicazione della teoria della relatività generale di Einstein. Niente che non sappiamo, anche qui. Ma nulla che la fisica di Einstein contesterebbe. Più interessante, invece, è la sottolineatura heideggeriana del ruolo essenziale che il tempo svolgerebbe nellʼesperienza soggettiva del mondo. Tanto da avere “convinto” Rovelli della legittimità degli sforzi che molti neuroscienziati oggi stanno facendo per spiegare la nostra esperienza, che non è riducibile a una “coscienza istantanea” della realtà, essendo non uno “stato”, ma un “processo”. Direbbe cioè Heidegger: siamo “esseri-nel-tempo… (siamo) sentire, emozione, prima di sapere”.
Lʼarticolo si chiude riprendendo il tema iniziale del discorso. Nonostante lʼacutezza di alcune idee, Heidegger pare più impegnato a costruire attorno a se stesso e alla propria opera “unʼaura di profondità”, che non a intendere la verità, “alludendo a esperienze indicibili” come “uno sciamano della filosofia”. Dʼaltronde,“molti sciamani incantano gli allocchi” e al riguardo Rovelli istituisce un parallelo singolare tra le invettive antisemite di Hitler e un passo di Essere e tempo secondo lui particolarmente astruso. In conclusione, la “maniacale attenzione” del filosofo al “resoconto diretto del vissuto” della propria “esperienza dellʼesistere”, cui ricondurrebbe la realtà, ne spiegherebbe “il fascino”. Si tratta della “realtà vista dallʼinterno, anziché dallʼesterno”: una “bella avventura”, ma “un punto di vista limitato, il punto di vista di “un esserino che non riesce a pensarsi se non come il centro. Come un figlio unico che non si è mai accorto che non è lui il centro del mondo. Mentre ci sono anche gli altri esseri umani. E gli animali. E le piante. E le montagne. E le stelle. E le galassie”. Lo scienziato ribadisce così la sua distanza da Heidegger, che nel frattempo, però, seppur più velatamente, pare coinvolgere una larga parte di quella che lui chiama filosofia, la quale “scambierebbe una singola prospettiva per lʼunica “vera”, alla ricerca di “certezze finali”.
Fin qui Rovelli. A questo punto, ci si attenderebbe che un filosofo, heideggeriano, antiheideggeriano o membro di una qualsiasi altra curva di ultras, anzitutto prendesse sufficientemente sul serio il suo generoso tentativo di lettura di Essere e tempo per fare un poʼ dʼordine. È quello che presumo farebbe, per esempio, lo stesso Rovelli, se un filosofo si prendesse la briga di esporre e discutere pubblicamente in merito, che so, al valore della teoria classica della termodinamica, non per questo pretendendo di costringere il povero lettore a padroneggiare la matematica superiore.
Rovelli, però, si perita di prevenire eventuali puntalizzazioni storico-filosofiche, riconoscendo apertamente di “usare violenza” al pensiero di Heidegger. E giustificandosi dicendo che “ha un età per cui può provare a pensare quello che vuole”. Mentre De Monticelli, per parte sua, non si preoccupa di entrare, anzitutto, nel merito della lettura dell’opera offerta dallʼemerito scienziato. Ma coglie immediatamente lʼoccasione per formulare una critica generale al “naturalismo scientifico” orgogliosamente professato dallo scrittore. La critica coglie nel segno: come si evince già soltanto dal titolo di uno dei libri di successo di Rovelli, lo scienziato è convinto di sapere, diversamente da chi non fa il fisico quantistico, quale sia la realtà e proprio per questo, benché rimproveri ai filosofi di ambire a verità definitive, si sente di garantire a noi lettori che “nulla è come appare”, gettandoci disinvoltamente nel più elettrizzante ma anche paradossale scetticismo-relativistico. Giustamente, De Monticelli gli ricorda, invece che tutto ciò che è, anzitutto appare, argomenti e protocolli scientifici inclusi. E questo nulla ha che fare con la revoca in dubbio della “oggettività” della ricerca scientifica, perché intende dar conto del senso della realtà e non del suo fatto, fatto che – come tutti i fatti – potrebbe sempre risultare prima o poi altrimenti, senza che questo intacchi minimamente lʼoggettività della sua conoscenza, essendone semmai la sua garanzia. Proprio questa lucida consapevolezza di matematico, dʼaltronde, fu allʼorigine della fenomenologia di Edmund Husserl, allievo di Weierstrass, Kronecker e Brentano, e che proprio Essere e tempo pubblicò sul suo Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung. Sono banalità, che De Monticelli sa a memoria e che sarebbe bastato poco fare acquisire anche al lettore e rammentare allo stesso Rovelli, offrendogli una chiave di accesso al testo un poʼ meno vaga se non anche fuorviante dellʼidealismo tedesco “influenzato” da Cartesio e Kant.
De Monticelli, invece, dà lʼimpressione di avere talmente in antipatia Heidegger, che pure è il soggetto dellʼarticolo di Rovelli, da non peritarsi neppure per un momento di offrirne una lettura più attestabile. Fino al punto di sorvolare completamente sulla spiritosa, ma un tantino sconcertante per noi lettori, “assunzione di irresponsabilità” in base alla quale dopo una certa età anche se la tua interpretazione di Heidegger fosse inconsistente non sarebbe poi tanto grave. La frase mi ha ricordato la battuta di Jep Gambardella, il protagonista de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, quando assediato da Isabella Ferrari che si ostina a volergli mostrare le sue foto, se ne va dicendo: «La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare». Una dichiarazione liberatoria e piena di humor, ma che difficilmente sarebbe perdonata dai colleghi fisici al nostro immaginario filosofo intento a discutere in parole povere, districandosi tra adiabatiche e isotermiche, il ciclo di Carnot.
Ora, dato che De Monticelli da sempre è estremamente sensibile al valore etico della professione intellettuale, credo che, anche a costo di apparire pedanti parrucconi degni dellʼetà vittoriana, sarebbe stato doveroso contribuire alla meritoria lettura di Rovelli di Essere e tempo dando comunque a Heidegger quello che è attestabilmente di Heidegger, oltre che al naturalismo scientifico riduttivista quello che è del naturalismo scientifico riduttivista. Per la semplice ragione che, se davvero si vuole, come apparentemente sia Rovelli sia De Monticelli sembrano lasciar intendere, che “scienze dure” e “scienze umane” tornino a parlarsi proficuamente – e anche il frangente che stiamo vivendo credo dimostri di quanto ce ne sia bisogno – dovrebbero tornare anzitutto a prendersi reciprocamente un pochino più sul serio, non con affettazioni di modestia che rischiano di suonare come alibi, bensì con studio. Perché, insomma, anche senza avere mai e poi mai subito alcuna fascinazione da parte del Pastore dellʼEssere, lo dobbiamo dire: Essere e tempo non è in alcun senso pregnante un testo relativista in merito all’oggettività delle conoscenze scientifiche, benché il pensiero di Heidegger nel tempo acquisisca un profilo che si può argomentare tenda a portare a esiti nichilistici dal punto di vista etico-normativo. Le sue analisi delle strutture dellʼesistenza non sono banalmente una maniacale e soggettivistica descrizione “diretta” del suo vissuto. E basterebbe suggerire la lettura di un testo di agevole ingresso e certo insospettabile di “sciamanesimo” come La mente fenomenologica di Dan Zahavi e Shaun Gallagher per riconoscere a Essere e tempo di avere contribuito – beninteso come altri prima e dopo di lui – a mettere in luce essenziali dinamiche affettive, pratiche e sociali della nostra esperienza che possono offrire spunti rilevanti anche nel campo delle scienze cognitive. Anche Rovelli lo intuisce, infatti. Ma ne fraintende il significato “soggettivizzandolo”, perché il suo riduttivismo naturalistico non gli concede proprio di intendere il rapporto puramente ideale di fondazione tra le strutture di senso della nostra ordinaria esperienza e le ipotesi teoriche e i protocolli sperimentali sulla cui processualità storica perveniamo alla oggettività sempre rivedibile delle nostre acquisizioni scientifiche. E questo non va addebitato certo al solo Rovelli, perché è responsabilità di un vasto e popolare fronte di scienziati, filosofi e divulgatori, divenuto senso comune tra molti, quello che non vede più lʼirriducibilità di principio dei vincoli ideali della logica e dellʼesperienza alle risultanze sperimentali della ricerca delle neuroscienze.
Tutto questo, per concludere un intervento divenuto troppo lungo, dovrebbe forse indurci a riflettere sulla direzione che ha preso ormai lʼindustria culturale in senso ampio, di cui anche io faccio parte. Si colga lo spirito critico costruttivo e tuttʼaltro che irrispettoso della domanda. Chiediamoci perché per lo più facciamo scrivere i professori sui giornali, perché li facciamo intervenire alla radio, in tv o li seguiamo in Rete. E viceversa, perché loro si prestano su varia ma sempre più vasta scala a farlo. Non è ovvio, infatti, né per un professionista dellʼinformazione ricorrervi compulsivamente, né per un professore prestarsi non meno di frequente. “Lo facciamo tutti”, “è così da sempre”, si può rispondere. Ma questo non è ancora un buon motivo. Io credo che un buon motivo sarebbe fornire buoni esempi di confronto dialogico, anche aspro, ma intellettualmente ambizioso. Ma non è quello al quale i format culturali dei media, case editrici incluse, per lo più mirano e da molto tempo. Senza tirare in ballo il Capitalismo, il Neoliberismo o altre Macchinazioni dellʼEnte così inesorabilmente invisi a De Monticelli, per me che vivo corresponsabilmente questa realtà, appare chiaro anche da questo confronto un poʼ claudicante tra due menti preparate quanto ormai senza quasi rendercene conto stiamo abdicando al nostro compito, “modernamente” rassegnati al fatto che i media per lo più non siano altro, in fondo, che format commerciali per ospitate in stile televisivo in cui popolarità, personalità brillante o pedigree di successo alleggeriscono quasi da ogni responsabilità, mentre lʼunica cosa imperdonabile sarebbe rischiare, per eccesso di serietà, di risultare seriosi come forse, lo riconosco, un poʼ serioso è anche questo mio contributo. Ma è un lento declino della vigilanza intellettuale, cui siamo assuefatti a ogni livello per primi noi editor, ai quali spetterebbe il dovere oltre che il diritto di assumersi la responsabilità della regia dello spettacolo culturale che mettiamo in scena, della cui credibilità né popolarità, né prestigio né autorità dei “content provider” offrono da soli garanzia. È così che intratteniamo senza trattenere alcunché di buono né per noi né per il pubblico, ridotto a target di mercato. Perché poi, a diventare credibile, semplicemente perché pubblicata nellʼinserto di un famoso quotidiano, sarà proprio la lettura di Essere e tempo “relativista” nella cupa ombra del nazismo dello scienziato emerito, con tutto quello che avrebbe ancora da dire la filosofia, persino quella di Essere e tempo, in merito a onori e oneri di unʼimpresa scientifica tanto più orgogliosa dei suoi successi applicativi quanto poco riflessiva sui propri fondamenti. Un fisico di fama dalla penna accattivante legge Essere e tempo. Potrebbe essere una bella occasione di confronto, ci concedessimo tutti un poʼ di tempo e di energie prima e dopo la pubblicazione del suo articolo. Invece tutto finisce in una surfatina dandosi le spalle attorno a unʼisola del sapere che non cʼè, forse perché sappiamo che, tra breve, nulla o quasi resterà. Mentre la macchina dellʼindustria “culturale” avanza, inesorabile e cieca.
Rassegna del dibattito attorno ai Quaderni neri di Martin Heidegger:
Recensione di Martin Heidegger, Fenomenologia dell’intuizione e dell’espressione. Teoria della formazione del concetto filosofico, a cura di Vincenzo Costa (Quodlibet) di Giuliano Zingone
https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2012/12/heidegger-concetto-filosofico/
Ancora Heidegger, il vate-delatore? di Roberta De Monticelli
https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2014/01/heidegger-il-vate-delatore/
L’antisemitismo metafisico nell’ombra dell’Essere. Heidegger e gli ebrei alla luce dei Quaderni neri di Stefano Cardini
https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2014/11/heidegger-quaderni-neri-di-cesare/
Nel nuovo numero di Scenari, la deludente verità dell’antisemitismo di Heidegger di Andrea Zhok
https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2015/01/antisemitismo-heidegger/
“Il dibattito su Heidegger: la posta in gioco” – di Jeanne Hersch
https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2015/03/heidegger-hersch/ di Redazione
Del mestiere di pensare. E dell’arte di discutere. Riflessioni augurali in vista del seminario all’Università Vita-Salute San Raffaele sui Quaderni neri di Martin Heidegger
https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2015/03/quaderni-neri-martin-heidegger/
Sui “Quaderni neri” di Martin Heidegger – Il dibattito continua
https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2015/04/heidegger-quaderni-neri/
L’Ebreo sradicatore e l’edizione italiana dei Quaderni neri di Heidegger
https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2015/12/heidegger-quaderni-neri-2/
Ho due ringraziamenti per Stefano e due obiezioni sul merito del suo pezzo.
Ringraziamenti : 1. Grazie per avermi iscritto in una curva di ultras (“Ci si attenderebbe che un filosofo, heideggeriano, antiheideggeriano o membro di qualsiasi altra curva di ultras…”). D’ora in poi invece di porre domande e offrire argomentazioni dovrò cercarmi una maglia? 2. Grazie per aver “messo ordine” come avrei dovuto fare io nelle (caotiche? erronee?) incursioni di Rovelli in filosofia. Peccato che io abbia invece trovato la sua lettura di Heidegger talmente legittima nell’essenziale (riduzione della dimensione personale-razionale della sensibilità assiologica a quella vitale, riduzione dell’istanza deontologica individuale e universale alle dinamiche regolative biologiche e sociali) da stupirmi che Rovelli stesso non ne vedesse le possibili conseguenze anti- o post-umanistiche.
Obiezioni nel merito: 1. Contesto che “Essere e tempo non [sia] in alcun senso pregnante un testo relativista in merito all’oggettività delle conoscenze scientifiche”. Lo è eccome. La nozione di verità ridotta a quella di verifica possibile all’interno di una determinata cultura (verità come evidenza o “aletheia”, ciò che si rivela a una determinata epoca o “precomprensione”) è una nozione di verità relativa, opposta a quella di verità trascendente la verifica (le cose stanno in un certo modo, indipendentemente da se, come e quando riusciremo a dimostrare come stanno). Vedi il famoso passo di Essere e Tempo secondo cui le leggi della gravitazione non erano vere prima che fossero scoperte.
2. Non ho neppur lontanamente avanzato “una critica generale al “naturalismo scientifico” orgogliosamente professato dallo scrittore”. Al contrario: ho sostenuto che il naturalismo può tranquillamente spiegare la soggettività, ma non la normatività nei suoi aspetti più peculiari. E in base alla replica di Rovelli ho richiamato la distinzione fra naturalismo riduttivo e naturalismo “liberalizzato” (che ammette virtualmente qualunque spiegazione eccetto quelle teologiche), argomentando (con un controesempio e non un apriori) contro la riconduzione delle ragioni morali alle ragioni vitali e sociali (“rilevanza”). Idem per le ragioni “logiche”, più in generale per i valori epistemici, e qui mi pare che siamo d’accordo, caro Stefano. Quanto alle “essenziali dinamiche affettive, pratiche e sociali della nostra esperienza”, chi contesta che sia buona cosa scoprirle e conoscerle? Certo non io. Ma neppure Rovelli, mi pare.
Ah – forse un’ultima cosa. Mi stavo già comprando la maglia da curva, coi miei preferiti colori rosa e verde, quando rileggendo le conclusioni mi viene un dubbio: ma non avrò per caso cambiato categoria così di colpo, immeritatamente accolta anche io fra i surfisti da intrattenimento, che “intrattengono senza trattenere alcunché di buono né per noi né per il pubblico, ridotto a target di mercato”, invece di cogliere “una bella occasione di confronto”? No, no, figuriamoci se parla di te, mi dico, troppo onore, quello spetta al fisico brillante che non riflette sui suoi fondamenti. Meno male che c’è Stefano Cardini a ricordarglielo, e pazienza se i problemi di cui si occupa il fisico Rovelli, che riesca a farne capire qualcosa a noi o no, sono fra i più fondamentali della fisica. Mi tengo la mia bella maglia rosa-verde!
Rispondo per punti: 1) “Peccato che io abbia invece trovato la sua lettura di Heidegger talmente legittima nell’essenziale (riduzione della dimensione personale-razionale della sensibilità assiologica a quella vitale, riduzione dell’istanza deontologica individuale e universale alle dinamiche regolative biologiche e sociali)”. Questa può essere una lettura retrospettiva alla luce degli sviluppi del pensiero di Heidegger. Essere e tempo però si apre dando per scontate le acquisizioni già prefigurate da Husserl nei Prolegomeni alle Ricerche Logiche sulle ontologie regionali e sulle discipline scientifiche (ontiche) che le indagano, senza mettere minimamente in dubbio i risultati. Semmai si propone di affrontare un livello “più profondo” d’indagine che attraverso l’analisi delle strutture esistenziali (Analitica dell’Esserci) avrebbe dovuto portare a una fondazione della verità che non la riducesse alla sola obiettività delle scienze. Essere e tempo prefigura il compito, ma non lo porta a compimento. Si può discutere, naturalmente, della fondatezza del proposito, si può discutere della continuità o meno tra Essere e tempo e quanto seguì, ma non mi pare che leggendo Essere e tempo si possa evincere qualcosa come una “soggettivizzazione” della conoscenza che in qualche modo relativizzi l’obiettività dei risultati delle scienze positive. Vi è la pretesa, a mio e immagino a tuo giudizio erronea, di trovare un “fondamento” più radicale della logica stessa, oltre la semplice presenza dell’ente. Ma anche in questo caso, non è intesa in senso scettico-relativistico, anzi: nulla per Heidegger, anche negli sviluppi successivi, è più metafisico della “volontà di potenza”. E nulla è più soggettivamente arbitrario, aggiungerei. Personalmente, credo che il discorso cada in contraddizione, ma una cosa è commettere un errore, un’altra sostenere una tesi. “Le leggi di gravitazione non erano vere prima che fossero scoperte” significa che pur essendo onticamente “vere” (obiettive) non sono ancora fondate fino a quando non andremo a quella radice ontologica della verità che Heidegger si propone di indagare. 2) Sono d’accordo sostanzialmente su tutto quello che avevi scritto e che qui ribadisci: dove parlo di critica generale mi riferisco al naturalismo professato da Rovelli, che mi pare francamente riduttivista per quel che se ne capisce. Non ho alcun dubbio che le scienze possano “spiegare” la soggettività, figurati. Semplicemente: fondare questa spiegazione richiede anzitutto chiarirsi le idee su che cosa intendiamo per “soggettività” e questo le scienze non possono farlo se non riflettendo a loro volta filosoficamente sul problema, come in modo a volte consapevole a volte meno anche fanno quando devono circoscrivere il loro campo di indagine, il che a volte accade in maniera precisa altre volte strada facendo ecc. In sostanza: se togliamo enfasi all’aggettivo “generale” la questione di separare il naturalismo “riduttivista” da quello “liberalizzato”, come lo chiami, non si pone. In effetti avrei potuto tranquillamente non usare “generale” e inserire invece fin da subito “riduttivista” accanto a “naturalismo”, è vero. 3) “Quanto alle “essenziali dinamiche affettive, pratiche e sociali della nostra esperienza”, chi contesta che sia buona cosa scoprirle e conoscerle? Certo non io. Ma neppure Rovelli, mi pare.”. Non è quello che ho scritto: ho scritto che in Essere e tempo si trovano analisi riguardanti queste dinamiche che, solo per fare un esempio, anche Zahavi e Gallagher riprendono, che tutto sono tranne che sciamani filosofici. Era per dire che si poteva valorizzare quanto intuito da Rovelli anche valorizzando quanto scritto in proposito da Heidegger, ma fornendo una lettura non riduzionista della cosa, come Rovelli sembra in definitiva fare quando riduce la salienza a rilevanza dovuta alla evoluzione biologica 4) Né tu né Rovelli dovreste risentirvi, qui. Non più di quanto non dovrei risentirmi io, visto che mi sono per prima cosa autodenunciato. I professori fanno i professori, i giornalisti fanno i giornalisti o almeno ci provano. Per quanto questo possa ferire il nostro amor proprio, il nostro sentirci e volerci individui capaci, meritevoli, sempre lucidi, consapevoli, razionalmente agguerriti, purtroppo, come non solo Spinoza ma anche Husserl mise perfettamente in chiaro, siamo soggetti a molteplici dinamiche e abiti passivi non facili da dismettere, soprattutto in società governate da mass media. Non si tratta di personificare alcuna “macchinazione”, ma di cogliere fortissime correnti inerziali che sia a livello personale sia a livello collettivo nostro malgrado incidono sul nostro stile di confronto, dialogo, scambio. La mia era un’autocritica costruttiva, quindi, non meno che una critica, perché so perfettamente – vivendo quotidianamente il mondo dei media da molti anni – perché tendenzialmente oggi si sceglie questo o quell’esperto, il modo in cui lo si schiera in campo e abbina nel format, il livello dell’interlocuzione critica (ma forse sarebbe meglio dire non-interlocuzione) con il quale lo si ingaggia e i motivi per cui tutto questo è favorito, favorisca o sfrutti la coltura di “personaggi” di successo. E so come raramente, a mio giudizio, sta aiutando a creare sui mass media confronti di merito come molti che chi ha la mia e la tua età credo abbia conosciuto in passato. Invitare tutti i responsabili, allenatori, registi e giocatori, a prestare attenzione a questo fenomeno a dir poco dilagante, non credo sia un atto di presunzione, ma semmai un contributo critico perché anzitutto autocritico di consapevolezza che almeno per la professione che svolgo potrebbe essere preso in considerazione. Marshall McLuhan molto prima della transizione digitale ci ha fornito strumenti di decodifica del rapporto forma / contenuto nella comunicazione di massa di cui riscontro ogni giorno la pregnanza semplicemente lavorando. Percepirsi vulnerabili al mezzo è il primo passo per prendere le misure al mezzo e usarlo piegandolo a fini superiori a quello per cui viene per lo più indirizzato. Non una diminutio. In merito alle maglie, chi oggi non è tentato da vestirne qualcuna? Il mio stupore, infatti, è stato dovuto al fatto che, nonostante tante maglie filosofiche in circolazione, certi limiti (quasi rivendicati) della pur generosa lettura di Essere e tempo non fossero stati – per quanto io sia riuscito ad appurare – costruttivamente evidenziati. M’è parso un peccato. Quanto al riconoscimento del lavoro meritorio di Rovelli come divulgatore, più che come epistemologo, più che leggere i suoi libri non so che cosa potrei fare. Semplicemente: non si parlava di questo. Si parlava di Essere e tempo, della filosofia, della scienza e dell’industria culturale con la quale nel bene e nel male dobbiamo tutti variamente confrontarci.
Voglio ringraziare Stefano Cardini per questo ottimo intervento. Per molti motivi, ma sopratutto perché è il primo che leggo (perdonate se ce ne sono stati altri e non li ho visti) che reagisce all’unica idea originale nel mio articolo sul Corriere, invece di reagire alla parte che ripete cose sentite mille volte. Cioè al suggerimento di riutilizzare la nozione di cura di H. in ambito naturalistico, per affrontare un problema cruciale in quel contesto. È un’idea che non so se sia buona o no, ma era l’idea dell’articolo, un’idea su cui rifletto da qualche mese. L’altra –che la coscienza sia un processo e non un dato istantaneo– è più scontata.
Approfitto per dire alcune cose, giusto per chiarezza. Alla fine del mio articolo, con “l’esserino che credeva di essere al centro dell’universo” non intendevo Heidegger! Intendevo l’uomo, l’umanità! Sono stupito del malinteso, che ha tanto offeso!
Più di sostanza: anche l’intervento di Cardini inquadra la divergenza di fondo nei termini scienze-umane/scienze-naturali o filosofia/scienza, e mi dipinge come un riduzionista scientista. Ovviamente Cardini non conosce il mio pensiero in proposito (e non ha nessun motivo per doverlo conoscerlo!), ma l’inquadramento è improprio. La filosofia, mi permetto di ricordare, è vasta. È vero che la mia principale competenza è in fisica teorica, ma –permettetemi– sono anche stato dieci anni Affiliate Professor del dipartimento di FILOSOFIA all’università di Pittsburgh, che è uno dei centri più importanti della filosofia della scienza anglosassone. Sono in queste settimane invitato all’università del Western Ontario dal centro Rotman di FILOSOFIA. Ho pubblicato su riviste di FILOSOFIA importanti (compreso articoli su Aristotele), eccetera. Non dico questo per sciocca vanteria, o per mostrare credenziali: lo dico per ricordare a tutti che esistono tanti pensieri FILOSOFICI nel mondo attuale. Esattamente come mi piaceva ricordare ai miei colleghi filosofi di Londra, Cambridge e New York, che forse potrebbe essere anche interessante per loro leggere Hegel (e mi guardavano interdetti), così mi permetto timidamente di dire ai filosofi italiani che forse potrebbe anche essere interessante leggere Quine o Lewis. Questo per dire che la mia visione del mondo, il naturalismo di cui parlo, non è per nulla il riduzionismo scientista in cui Cardini mi inquadra (nessuna polemica: Cardini non ha motivo di conoscere le mie idee). E tanto meno una sciocca idea che la scienza “conosca la verità”. Il mio ultimo intervento a una conferenza internazionale di filosofia della scienza (a cui mi è stato chiesto il keynote speach) a Londra era intitolato: “Perché la scienza non può fare a meno della filosofia”. Il punto che sto facendo è che non c’è da un parte Heidegger e dall’altra uno scienziato che pensa di conoscere come sia fatto il mondo. Esistono scuole filosofiche diverse. Accusare il naturalismo contemporaneo di ingenuità, di non rendersi conto di quanto ciò che chiamiamo scienza sia dipendente dalle nostre osservazioni, dal nostro linguaggio, sia un prodotto culturale, eccetera, è non conoscerlo. Esistono anche Hume, Wittgenstein, e poi Kuhn, Lakatos, van Fraassen, e quant’altri… Non è una divergenza fra filosofia e scienza. È una divergenza fra due correnti, entrambe vastissime, della filosofia contemporanea. Che se si ignorassero un po’ meno, e avessero meno pregiudizi l’una sull’altra, forse sarebbero entrambe più profonde, sembra a me, che alla fine sono (e questo è vero), solo un fisico… un “vil meccanico”…
Ringrazio Rovelli per i suoi chiarimenti. Vorrei chiarire qualcosa anche io. Ho discusso quello che ho letto, senza altra pretesa. Valutando lʼeffetto che avrebbe potuto procurare su un lettore, quale sono, in merito a Essere e tempo, la filosofia e la scienza. Inoltre, traendo qualche considerazione non ottimistica sullʼeffetto sul nostro senso comune – incluso quello di scienziati e filosofi – di un certo modo di discutere argomenti filosofici sui mass media, il mio ambito professionale (come “vil meccanico”, quindi, non mi batte nessuno). I filosofi, in realtà, oggi non solo studiano e discutono Hume, ovviamente, Wittgenstein, Kuhn, Lakatos, Quine, Fodor, ecc , ma Gould, Kaufman, Edelman, Dennett, Churchland, ecc (alcuni, poi, meritoriamente, Schroedinger o Hilbert, come certi scienziati Aristotele o Hegel). Non credo sia questo il problema. Il punto è il tipo di domanda che formuliamo e lʼapproccio metodico cui si ricorre. Quando diciamo “Tutto ciò che è anzitutto appare” intendiamo, almeno nellʼaccezione della fenomenologia di Husserl come lʼho appresa, che lasciamo fondamentalmente alle scienze lʼonore e lʼonere di dirci via via ciò che è, riservandoci il compito fondazionale di descrivere le condizioni di possibilità in ragione delle quali esso appare così come è, le quali risultano consapevoli soltanto implicitamente e non di rado oscuramente. Ci si occupa cioè dellʼesperienza a partire dalla quale si definisce, seppur in modo ancora medio e vago, un campo di ricerca: i concetti primitivi, assunti o implicitamente presupposti, le pratiche e le metodologie, anche i retaggi, i pregiudizi ecc. Il che offre ulteriore garanzia razionale alla loro veridicità, non certo la toglie. Si tratta di portare alla luce le operazioni idealizzanti alla base delle nostre esperienze e metodologie veritative, a partire dalle più elementari. Sono operazioni idealizzanti, perché altrimenti non insegnerei ai miei bambini “il teorema di Pitagora” – di solito in “una” delle sue dimostrazioni divenute standard nel nostro sistema educativo – ma “un teorema di Pitagora”, il che suonerebbe decisamente strano. Essere e tempo, da questo punto di vista (benché, come ha visto, la questione possa risultare controversa) almeno prima facie secondo me non fa eccezione. Esso pone però, questo sì, unʼenfasi particolare, sulla dimensione “storica” delle verità delle scienze, in cerca delle condizioni di possibilità che storicamente le hanno rese intersoggettivamente possibili. Heidegger ritiene di poterle rintracciare in strutture che chiama esistenziali, che nulla hanno di “soggettivo” nel senso, per esempio, in cui oggi potremmo intendere il termine distinguendo conoscenza in “prima persona” da conoscenza in “terza persona”. Per questo parlare di “soggettivismo”, “relativismo” o magari “privatezza del vissuto” (“Ma un altro non potrà mai provare questo dolore!”, disse il filosofo battendosi il pugno sul petto) secondo me è fuorviante. Ma se ho frainteso il suo pensiero me ne scuso. Il problema con Heidegger, comunque, si complica davvero più in là, benché in Essere e tempo se ne possano rintracciare alcuni presupposti. Accade quando si avanza in modo sempre più pressante la pretesa che la nostra fondazione proceda “oltre” le operazioni della soggettività e intersoggettività storica (piano trascendentale) in direzione di una “nozione” di “verità” più originaria di quella che di norma intendiamo: “oltre”, cioè, la sfera delle possibilità ideali della nostra esperienza. Fatto sta che, come ha ben intuito, le analisi della Cura, ma non solo, presentano profili interessanti per approfondire, per esempio, quelle che Gibson avrebbe poi chiamato affordances pratiche e affettive di primo accesso al mondo. E sono inscindibili proprio dal tema anche a lei caro del tempo. Heidegger, dʼaltronde, fu lʼallievo che, poco prima di Essere e tempo, pubblicò le Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo di Husserl compilate da Edith Stein, fondamentali per approfondire lʼamplissimo tema delle sintesi passive, senza il quale una filosofia dellʼesperienza è zoppa. E lì tra i due già si ruppe qualcosa. Ma “interno”, qui, non sta per “privato”, “relativo al singolo” di contro a “esterno”, cio che “sta là fuori, indipendentemente”. Ogni cosa, nella nostra ordinaria esperienza del mondo di taglia media anzitutto appare secondo un decorso temporale, che deve presentare una certa struttura ideale invariante affinché si giustifichi il suo modo dʼessere: diverso per teoremi di Pitagora, galassie, persone, quanti ecc. Concludo su questa parola: “esperienza”. Lʼesperienza non è un “esperimento”. Questʼultimo è anche unʼesperienza, magari “controllata e protocollata” da un team di ricerca secondo standard, ma non solo. Non vale il viceversa: non faccio alcun “esperimento” guardando fuori dalla finestra. Perciò, quando lei scrive: “per me lʼesperienza è una parte del mondo” o quando afferma “Ci sono anche gli altri esseri umani. E gli animali. E le piante. E le montagne. E le stelle. E le galassie“ (non avevo equivocato il termine “esserino”: certo, esiste anche “lʼumanità” ed è un tema cruciale capire in che senso, ossia sotto quali vincoli logici) afferma qualcosa di cui né De Monticelli né io, ma ritengo neppure Essere e tempo, dubiti. Semplicemente, in un compito di fondazione del sapere, non possiamo assumere questo sapere, senza contraddizione, come un semplice fatto del mondo, ossia come una sua “parte reale”, ossia il semplice “risultato” di una “storia naturale, sociale” ecc. Lʼunica cosa che i filosofi devono fare, perché è la sola che possono fare, è domandarsi come siamo arrivati idealmente a tali certezze – solamente in apparenza ovvie –, intese come possibilità della ragione radicate sì in una storia naturale e umana, ma in una storia intesa a sua volta in senso ideale. E da questo punto di vista, il loro onere, per come lʼho inteso, non è lo stesso degli scienziati, che possono anche ignorare o sorvolare su certi presupposti o assunti. Anche se talvolta, cosa di cui mi pare anche Rovelli sia assolutamente convinto, potrebbero essere loro utili.
Credo che il dialogo fra scienziati e filosofi sia, in generale, importante e fecondo. Esiste anche un settore della filosofia che si occupa proprio, sistematicamente, di discutere filosoficamente sulle conoscenze scientifiche: è la “filosofia della scienza”. In Italia un eccellente filosofo della scienza (della fisica in particolare) che mi piace qui ricordare è Mauro Dorato (si è occupato moltissimo del tempo, e ha scritto anche su alcune idee di Rovelli). Il tema del tempo è di per sé un territorio “di confine”, perché sul tempo la filosofia ha scritto da sempre, e ha continuato a scrivere anche dopo la nascita della scienza moderna… Un esempio fondamentale è proprio Husserl (molto più profondamente di Heidegger, direi). Ma esiste una “scienza della filosofia”, così come esiste una filosofia della scienza? C’è un settore della scienza che si occupi dei risultati della filosofia? Dovrebbe essere una delle “scienze umane”? C’è la metafilosofia, ma quella è filosofia che riflette su se stessa… Un filosofo della scienza deve studiare a fondo la materia scientifica si cui si occupa; Giorello aveva una laurea anche in matematica, Civita insegnava epistemologia delle scienze umane esercitava come psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico. Trovo lodevolissimo che Rovelli sia anche un filosofo, ma leggendo questo suo ultimo commento resto un po’ perplesso. Che inviti i filosofi italiani a leggere Quine o Lewis rivela che abbia letto molto poco della filosofia italiana contemporanea… vorrei invitarlo a leggere i libri di Franca D’Agostini, anche per capire che “la divergenza fra due correnti, entrambe vastissime, della filosofia contemporanea” è un tema che è stato ampiamente introdotto, discusso, sviscerato (e ormai considerato quasi obsoleto, anche se personalmente ritengo faccia parte di un problema più vasto e ramificato… ho cercato di spiegare in che senso in un piccolo post sul mio blog: https://giulionapoleoni.blogspot.com/2018/02/libero-arbitrio-e-disunita-della.html) nella cultura filosofica italiana. Per una riflessione filosofica sui risultati delle neuroscienze abbiamo Michele Di Francesco che è un altro filosofo della scienza italiano di eccellenza… Vorrei però chiarire che ho amato moltissimo un libro di Rovelli (La realtà non è come ci appare) e ritengo il suo modo di fare alta divulgazione (come solo i veri scienziati sanno fare!) un contributo fondamentale alla crescita culturale di TUTTI, compresi i filosofi italiani.
A proposito del tema introdotto da Giulio Napoleoni, è certo utile la lettura del volume Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni che Franca D’Agostini pubblicò nel 1997, nel quale la distinzione allora molto utilizzata tra filosofi cosiddetti “analitici” e filosofi cosiddetti “continentali” è ripercorsa nella sua storia e nelle sue linee teoriche. Nel Mestiere di pensare Diego Marconi, nel 2014, ripropose la questione dal punto di vista di un “analitico” piuttosto schierato. E su questo blog, nel merito, riprendemmo un intervento su Scenari (Mimesis) di Andrea Zhok commentato da De Monticelli. Personalmente mi sono sempre chiesto che cosa di teoreticamente interessante si potesse ricavare da una distinzione che contrappone una supposta convergenza nel metodo e nei presupposti della ricerca all’appartenenza a un’area geografica (tralasciando il fatto che se esiste una filosofia “analitica” lo si deve in buona parte ai filosofi “continentali” emigrati dall’Europa continentale in Paesi anglofoni a cavallo della Seconda guerra mondiale). Intendo dire che forse la sola cosa storicamente interessante in quella distinzione mi pare proprio la domanda su come si sia potuta seriamente imporre per così tanto tempo alla nostra attenzione. Dove ormai più di trenta anni fa (30!) feci i miei studi, all’Università degli Studi di Milano, dubito che chiunque studiasse, che so, le Ricerche Logiche di Husserl o la Filosofia delle forme simboliche di Cassirer, non si sentisse in dovere di studiare Parola e oggetto di Quine o i Saggi di metafisica descrittiva di Strawson. E certamente non si poteva sottrarre facilmente, se non per negligenza o pigrizia, allo studio di Essere e tempo o delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein. Se poi intendeva approfondire l’epistemologia della scienza, gli era praticamente impossibile eludere lo studio di Pierce, Popper, Kuhn, Lakatos ecc, oltre a una serie di esami in facoltà “scientifiche”. Certamente, se si restringe la tradizione filosofica “continentale” del XIX e XX secolo a un numero ristretto di autori francesi del Dopoguerra che si sono rifatti, tra altri, a Heidegger, la schematizzazione pare forse funzionare un po’ di più. Detto ciò, non vedo perché uno potrebbe precludersi senza danno un attento studio di autori come Sartre, Derrida, Foucault… Certo: non si può fare tutto, gli approcci sono diversi, i linguaggi, i metodi ecc… Però, se esiste un problema, ha una storia. E quella storia ha un rilievo teorico. Ragazzi, verrebbe da dire: i “classici” esistono! E quasi sempre insegnano qualcosa di importante, bello o brutto che sia. Seneca scriveva nelle sue Lettere a Lucilio: leggo molti libri, ma mi aggrappo saldamente a pochi. Oramai, giunti nel bel mezzo di questa nostra digital transition, verrebbe da correggere con “disperatamente a pochi”: quanto tempo e quante energie vogliamo impiegare a inseguire mese dopo mese lo status quaestionis contemporaneo di un qualunque problema, ora che con tre parole chiave abbiamo accesso in una frazione di secondo a migliaia di volumi, saggi e monumentali compendi globali? Il mondo è là, con tutti i classici che ne hanno parlato, intanto. Ed è del mondo che ci dobbiamo occupare. Più che una questione di libero arbitrio, quindi, mi pare una questione di libertà intellettuale. A mio parere, quindi, sia da un punto di vista storico-filosofico, sia da un punto di vista teoretico, certe stereotipate griglie contrappositive, se prese troppo sul serio, rischiano di essere culturalmente impoverenti e in definitiva di ostacolo al pensiero oltre che, talvolta, molto più prosaicamente, un modo per semplificarsi la vita o facilitarsi la carriera accademica. Si può imparare moltissimo leggendo le riflessioni che la “analitica” (?) Franca D’Agostini ha dedicato al problema dell’ontologia in Quine e in Heidegger. E parimenti imparare moltissimo leggendo le lezioni che il “continentale” (?) Paolo Spinicci ha dedicato a Kant, Husserl e Quine sulla distinzione tra “analitico” e “sintetico”. Per tornare alle questioni sollevate dalla discussione tra Rovelli e De Monticelli, esiste a mio parere un solo motivo d’interesse teorico nell’idea in base alla quale sarebbero esistiti da un certo momento in poi “analitici” e “continentali” e che è sotteso anche a quella discussione. È il problema della legittimità teorica di un programma scientifico di “naturalizzazione” della ricerca filosofica che includa, tra le altre cose, la sua riconduzione alla forma standard che si ritiene le discipline scientifiche avrebbero con successo assunto nell’ultimo secolo, forma che implicherebbe – tra le altre cose – un elevatissimo tasso di specializzazione della ricerca, indice da molti ritenuto “indiscusso” di progresso conoscitivo. Ecco: naturalizzazione e specializzazione. Non è qui possibile anche solo impostare l’argomento. Ma credo che su questo esista una tendenziale divergenza tra una forma mentis “analitica” (favorevole) e una “continentale” (circospetta) ormai trasversale alle aree linguistiche. Non saprei quale delle due sia di maggioranza o di minoranza, sebbene la diffusione planetaria della lingua inglese anche in filosofia suggerisca un certo prevalere a livello globale della prima e un più residuale radicamento nazionale della seconda.