Carlo Rovelli ha scritto un articolo su Heidegger “La lettura”, 6 dicembre 2020, scaricalo qui) dando conto della sua lettura di Essere e tempo. Un dubbio mi ha presa, e gliel’ho sottoposto. Che proprio l’”intuizione straordinaria” che Rovelli trova, nonostante tutto, in Essere e tempo sia un fondamento e una condizione del suo nazismo e antisemitismo, che ovviamente Rovelli vede con orrore. Naturalmente condizione necessaria non significa anche condizione sufficiente: un’intuizione come quella, ipotizzo, può portare a anti-umanesimi di altro tipo, magari ideologicamente opposti, e anzi di nozze del genere nel nome della critica della modernità (o dell’Occidente, del suo destino etc.) sono tuttora di moda fra i filosofi, purtroppo.
Provo a chiarire il dubbio. Prima di tutto, l’orrore iniziale di Rovelli per il nazismo del pensatore è tanto condivisibile quanto il fastidio per il suo “stile estremamente involuto e ampolloso, che di tutto dà l’impressione fuorché di volersi far capire” (un mio maestro diceva di peggio: non è qualche verità che gli sta a cuore di comunicare. Evoca abissi, crea liturgie verbali, vuole certamente eccitare e scuotere, ma non chiedetegli a che condizioni i suoi enunciati sono veri, o che controesempi dovremmo fornire per mostrali falsi. Non ce ne sono, né per l’una né per l’altra ipotesi). Io direi di più, ha creato il linguaggio per la più diffusa paranoia del nostro tempo, offrendo ai nostalgici più innocui e ai più temibili demagoghi le formule sulla “macchinazione” universale (di chi? Ma del sistema, del capitale, del neoliberismo, dell’industria, delle troppe macchine, fate voi) condensando in pochi slogan le più illiberali vituperazioni contro la modernità, la democrazia, l’universalismo e perfino l’economia. Ma non importa, “sono difficoltà superabili”, pensa Rovelli. Essere e tempo è “straordinariamente interessante”, perché buttando a mare l’attardata centralità che per la filosofia occidentale ha, nell’indagare su ciò che il mondo è, la conoscenza (e la scienza) che ne facciamo, stabilisce che il mondo è esclusivamente ciò che ha per noi rilevanza, ciò che ci interessa. Che “quello che conta, appunto, è quello che conta per il soggetto”. “Le cose che non hanno interesse per noi e stanno là fuori, “sono per noi un residuo, un prodotto di scarto”, rispetto alle cose che invece hanno interesse”. E’ questa l’intuizione che Rovelli trova straordinaria. “Non sono gli aspetti cognitivi che fondano i rapporti fra il soggetto e il mondo: è la rilevanza per il soggetto”.
Perché tanto entusiasmo? Rovelli ce lo spiega: perché questa intuizione spazza via le remore dei filosofi che accusano il naturalismo scientifico di non riuscire a rendere conto della soggettività. E invece questo “è un suggerimento acutissimo per comprendere come un soggetto possa essere apparso nel mondo”, comunque l’intendesse Heidegger. Ci si era troppo preoccupati della cognizione e del cervello, che conosciamo ancora poco. Passiamo invece per la biologia e Darwin! “La biologia è in grado di operare una piena riduzione naturalistica di questa rilevanza: questo è il risultato filosofico della rivoluzione darwiniana”.
Ma è sicuro, caro Rovelli, che paradossalmente lei non raggiungerebbe le stesse conclusioni di Heifdegger, per questa via? Va bene, Heidegger fa un po’ di differenza fra l’animale, che è “povero di mondo”, e noi che invece appunto siamo al mondo proprio come dice lei. L’animale infatti manca un po’ di orizzonte, anzitutto temporale (i progetti, la memoria storica), e manca anche un po’ di ambizione (da “ambire”: cioè camminare, e a camminare eretti subito ci si ritrova al centro dell’orizzonte, con tutte le conseguenze un po’ narcisiste che lamenta lei). Ma la differenza con quei filosofi che Heidegger disprezzava (e in primo luogo il suo ex maestro Husserl, che poveretto non si riebbe in cambio molta gratitudine) è tutt’un’altra. Perché NON è vero che il naturalismo scientifico non riesce a rendere conto della soggettività. Quello di cui non riesce a rendere conto è la normatività, e la “soggettività” solo in quanto il soggetto in questione sia un animale normativo. Vale a dire, uno che qualunque vissuto gli capiti di avere, può – (non: “deve”, ma può: e non è stupefacente?) chiedersi: “è giusto”? Questa percezione: non sarà illusoria? Questo ricordo: non sarà inventato? Questa mia credenza: non sarà infondata? Questo mio giudizio: non sarà falso? Ecco: l’animale normativo può, se vuole, anche chiedersi: questo mio desiderio di farti fuori o comunque che tu mi sia levato di torno, perché non mi interessi, perché “sei per noi un residuo, un prodotto di scarto”, è accettabile? È decente? I codici penali e il senso comune dicono che ciò che ci distingue è di essere agenti liberi. Ma fra i filosofi che Heidegger disprezzava a morte (letteralmente) c’era anche chi affermava che libertà non è affatto poter fare ciò che si desidera, che ci interessa, che è per noi rilevante. E’ la capacità di non farlo – perché è indecente, ad esempio. Solo che per ammettere questa libertà (e la cognizione del valore che ne è alla base) come quella che definisce l’humanitas, non bisognava pensare che l’umanismo fosse l’illusione che sradica l’io dal noi, l’ente dall’essere e Husserl dal popolo e dal suo destino. L’illusione che il Führer finalmente aveva dissipato.
Ecco la risposta che ho avuto da Carlo Rovelli stesso, che mi consente di renderla pubblica:
“Solo qualche commento.
Il primo è che io penso che si possa buttare via quasi tutto del pensiero di una persona, e lo stesso imparare qualcosa di interessante. Ci sono tante cose che non amo di Heidegger, comprese quelle di cui lei parla, ma non era di questo che volevo parlare nell’articolo, per cui mi sono limitato all’antisemitismo e all’oscurità. Ma sono d’accordo con lei che c’è di più che non ci piace.
Il secondo è che invece non sono d’accordo sul fatto che la normatività sia così difficile da capire in termini naturalistici. Diventa difficile da capire solo se ne facciamo un Assoluto innaturale, ma è questo l’errore. Mi sembra del tutto comprensibile il fatto che la nostra biologia, la nostra storia, la nostra cultura, cioè tutto ciò di cui siamo fatti, abbiano sviluppato quelle che chiamiamo norne, comprese quelle etiche. Comprenderne l’origine naturale non significa sminuire, significa anzi apprezzarle e dare loro concretezza.
Sull’atteggiamento generale politico verso Heidegger, temo che tanti disastri sarebbero successi lo stesso anche senza di lui. Ho sempre pensato che la filosofia abbia grande influenza sul mondo Ma non così grande. Non c’è bisogno di fare sempre guerre culturali, secondo me. Oppure, se vuole: reinterpretare un’idea di Heidegger in termini razionalistici e naturalistici è togliere il terreno sotti i piedi al suo torvo irrazionalismo.
Questo era il mio spirito…”
A me sembra che questo scambio potrebbe aprire una discussione interessante…..
Mi pare che qui Rovelli si imbatta in un equivoco di fondo: non c’è una contrapposizione tra “rilevanza” e “conoscenza”, visto che ciò che non è rilevante per noi, non rientra neppure nel nostro campo cognitivo. La rilevanza è semmai vettore di conoscenza, proprio perché la conoscenza altro non è che esplorazione del senso stesso delle cose. Questo l’aveva capito benissimo Gurwitsch, e l’hanno capito benissimo gli studiosi contemporanei di scienze cognitive in tutte le discipline, che infatti da tempo hanno proposto di estendere il concetto di “cognizione” verso i livelli più profondi e inconsci del soggetto. Del resto, quello che propone Rovelli, cioè “reinterpretare un’idea di Heidegger in termini razionalistici e naturalistici”, è un’affermazione che appare priva di significato, se non uno: gettare a mare Heidegger, e riscoprire la fenomenologia Husserliana. Con una avvertenza: come Piana aveva notato, Husserl si era concentrato deliberatamente, forse eccessivamente, sui problemi della conoscenza, lasciando a margine le questioni generative che costituiscono le fondamenta della “rilevanza”. Ma come Piana stesso ha dimostrato con la sua opera, ciò non impedisce affatto di esplorare questa strada in un’ottica pienamente fenomenologica, anzi: questo è un tema che ci invita, che ci chiama ad essere esplorato, per riportare definitivamente il soggetto nell’alveo di un’idea di conoscenza (e quindi, di normatività) più ampia, profonda, e compiutamente umanistica.
Chi come Rovelli vede le cose da un punto di vista scientifico coglie sì per un attimo la soggettività, ma poi non può fare a meno di riconsiderarla sotto il profilo della scienza. Cosa sfugge? La normatività è forse comprensibile in termini naturalistici, ma solo dal di fuori, in termini descrittivi. Ciò che non viene colto è l’aspetto deliberativo, la discussione, quelle domande (“non sarà infondata?… non sarà falso?”) che rappresentano la discussione intorno a valori, a ciò che conta. Ciò che vale è soggettivo. Cosa dice il pensiero scientifico riguardo a cosa scegliere, volta per volta e in generale? Se esiste una risposta del pensiero scientifico a domande simili, entrando nel merito, solo allora ricomprende quello soggettivo. Altrimenti “vede che c’è”, lo riconosce, che è molto, ma non lo capisce nella sua peculiarità.
La recente lettura di “Neurobiologia del tempo” di Arnaldo Benini mi ha dimostrato con concreti esempi la non veridicità della affermazione della dottoressa De Monticelli “L’animale infatti manca un po’ di orizzonte, anzitutto temporale (i progetti, la memoria storica)” e la risposta di Rovelli sulla comprensibilità della normatività in termini naturalistici confermano la mia convinzione che, quando il fisico specula nel proprio ambito di conoscenze, le scienze della natura, rende un servizio molto più utile alla società rispetto a quando azzarda invasioni di campo nell’ambito delle scienze sociali, vedi recente intervista rilasciata al quotidiano The Guardian, che del mondo scientifico possono adottare il solo metodo, non l’oggetto delle indagini. Con stima
Gentile Roberto Papa, vorrei solo osservare che le affermazioni che mi attribuisce erano solo citazioni o parafrasi da Heidegger, del cui pensiero come avrà forse avuto modo di notare non condivido quasi neppure le virgole. Ancorché, a onor del vero, io non abbia in effetti ancora trovato libri di storia attribuibili a delfini, o progetti urbanistici firmati da un bonobo. E lei?
Gentile Prof. Rovelli,
Dopo la lettura del suo articolo sulla Lettura del Corriere della Sera, devo ammettere che sono rimasto abbastanza colpito dai suoi pensieri, che ahimè colgono solo parzialmente il pensiero heideggeriano.
Mi limiterò a mostrare i limiti dei suo discorso senza minimamente toccare il tema dell’antisemitismo e dell’ odiosa adesione al nazismo da parte di Heidegger perché meriterebbero una trattazione dedicata e puntuale.
Le fa certamente onore in qualità di fisico aver avuto il desiderio di confrontarsi con Essere e Tempo, e l’aver colto i punti cruciali del discorso heideggeriano relativi all’importanza della vissuto e all’esperienza dell’essere e la sua relazione con la temporalità.
Risulta però inaccettabile il pensare ad Heidegger come colui che attraverso Essere e Tempo abbia voluto esprimere certezze finali, o l’aver avuto idea di erigere punti di partenza assoluti.
La filosofia è per sua stessa natura contraria a qualsiasi forma di universalità, e va pensata esclusivamente come un’avventura del pensiero, priva di qualsiasi fondazione stabile ed imperitura. Altrimenti si tratterebbe di religione e non di filosofia.
Sul limitato punto di vista di un esserino che non riesce se non a pensarsi se non il centro credo che sia caduto in un profondo equivoco dettato forse da una lettura estiva superficiale di Essere e Tempo, come da sua palese ammissione. L’essere è essere nel mondo, In-der-Welt-sein e sarebbe impensabile senza il mondo in cui è immerso.
Mi permetta di citarle la sindrome dell’arto fantasma indagata da Merleau-Ponty, essa si verifica dopo la mutilazione di un arto. Il corpo vive una tremenda mutilazione di ciò che prima poteva raggiungere e che adesso gli è impossibile vivere. Quello che gli manca è proprio il mondo stesso.
Tralascerò le tematiche relative al linguaggio definito involuto, ampolloso e contorto caratteristica essenziale di Heidegger, nella profonda convinzione che il linguaggio rifletta le strutture del pensiero e quindi in questo caso rifletta la complessità del continente Heidegger.
Infine la prego, sullo sciamanesimo o presunto tale, lasciamo che le convinzioni della filosofia anglosassone con cui è venuto a contatto negli Stati Uniti restino negli Stati Uniti, paese che storicamente non ha certo mai brillato rispetto a prospettive o tematiche filosofiche.
Un cordiale saluto,
Umberto Tesoro
*I corsivi sono dell’autore dell’articolo C. Rovelli Natura e individuo. Un fisico a tu per tu con Heidegger, La Lettura 6 Dicembre 2020