A proposito di Scuola. Questo articolo di Galli della Loggia (“Corriere della sera”, 25/09/2020), potrebbe essere un ottimo spunto per la discussione cui ci chiamava l’appello precedentemente pubblicato di un gruppo di insegnanti dell’Associazione Cidi, Se è decisamente dubbia la seconda parte, in particolare l’esempio tedesco, la prima pare fotografare in modo ahimé realistico e accurato (oltre che accorato) la situazione italiana. Se mi sbaglio – e soprattutto, se si sbaglia, ne sarei felice. La discussione è aperta.
La qualità negata a scuola (Ernesto Galli della Loggia)
L’istruzione in definitiva è la capacità e dedizione, la qualità degli insegnanti, non i programmi, i laboratori, le attrezzature, l’«inclusione»
Che significa «investire nell’istruzione»? Che significa in concreto questa formula che sentiamo ripetere come un mantra da settimane, specie da quando è all’ordine del giorno la famosa «ripartenza del Paese» sollecitata dal luccicante miraggio dei forzieri di Bruxelles? Investire nell’istruzione va bene, ma in che cosa in particolare? Nel diritto allo studio? Nell’edilizia? Nel Mezzogiorno? Nella riduzione dell’abbandono scolastico? Nelle retribuzioni degli insegnanti? Nel favorire corsi e sedi d’eccellenza? Nella digitalizzazione, nel promuovere all’università un settore disciplinare piuttosto che un altro? Nessuno si cura di specificarlo: il che come si capisce è la migliore premessa per la solita distribuzione di soldi a pioggia di cui noi italiani siamo specialisti. Riempirsi la bocca di chiacchiere e concepire progetti grandiosi per poi alla fine distribuire un mare di mance che lasciano le cose come prima. Invece dovremmo preliminarmente chiederci: siamo davvero sicuri che in vista di una buona scuola (mi occupo solo di questa, non dell’università) il problema principale, quello da cui ogni altro dipende, sia quello finanziario? Non lo credo. Più soldi sono necessari, necessarissimi per mille ovvie ragioni, ma la questione decisiva è un’altra. Sono gli insegnanti. Sono infatti loro la scuola. La scuola in definitiva è la loro capacità e dedizione, la loro qualità, non i programmi, i laboratori, le attrezzature, l’«inclusione» o quant’altro. E dunque la crisi dell’istruzione scolastica dipende in larga misura dalla crisi della loro figura e del loro ruolo. In una parola dalla fine della loro centralità.
Negli ultimi decenni la peculiarità della figura dell’insegnante, di chi ogni mattina entrando in classe e chiudendosi la porta alle spalle affronta la scommessa cruciale: riuscire ad avviare delle giovani menti alla conoscenza e alla vita, oppure ridursi al rango di un impiegatuccio qualsiasi, questa peculiarità è andata scomparendo. Cancellata dal dilagante burocratismo cartaceo, dall’affollarsi di compiti e mansioni le più varie collaterali all’insegnamento, ma soprattutto da una pervasiva ideologia che ha fatto della scuola una istituzione di tipo socio-assistenziale regolata da un democraticismo pseudobenevolo che si è fatto un punto d’onore nel considerare degli inutili ferrivecchi il merito e la disciplina. Cioè proprio le due dimensioni cruciali in cui s’incardina il ruolo dell’insegnante e per riflesso anche la sua autorevolezza sociale: la possibilità grazie all’accertamento non contrattabile del primo e all’amministrazione della seconda di influire in maniera significativa sul futuro dei giovani.
So bene che parole come queste suonano alle orecchie di molti come un condensato di pensiero reazionario, a un dipresso come il proposito di trasformare la scuola in un penitenziario. Ma a chi la pensa così vorrei ricordare l’esempio della Germania, uno dei Paesi più liberi e democratici d’Europa. Dove al termine dei quattro anni della scuola elementare (della scuola elementare!) un alunno non può affatto iscriversi al corso di studi che più gli piace. A raccomandare l’iscrizione a questo o a quel corso, infatti, è la scuola, e dipende dai voti che il bambino ha conseguito. Ad esempio, per potersi iscrivere al Gymnasium, l’equivalente più o meno del nostro liceo e via maestra per l’iscrizione all’Università, bisogna aver riportato nelle materie basiche almeno una votazione corrispondente al nostro 8. Si noti che in molti Länder tale «raccomandazione» della scuola è in realtà vincolante e dove non lo è, se i genitori vogliono comunque iscrivere al liceo il bambino, questo deve allora sostenere un esame o una lezione di prova.
Lascio ai lettori stimare le conseguenze positive che un simile sistema produce (ne produrrà senz’altro anche di negative ma sfido chiunque a trovare un sistema perfetto che non lo faccia), a cominciare dall’ovvia diminuzione degli abbandoni scolastici a causa dell’errata valutazione da parte dei giovani della propria vocazione/capacità. Ma il punto che ora m’interessa è un altro, ed è questo: riesce qualcuno a immaginare il clima, l’insieme delle relazioni alunni-docenti, che vigono in una scuola come quella che ho appena delineato? Riesce qualcuno a raffigurarsi nei termini esatti il prestigio sociale che in un tale sistema finisce per avere l’istruzione, la figura del maestro e dell’insegnante in generale? È presumibile, certo, che anche l’entità delle retribuzioni di questi sia consistente, più consistente di quello a cui siamo abituati noi in Italia — e infatti lo è — ma da che cosa dipende ciò se non pur sempre dal prestigio di cui sopra?
Si tratta di un prestigio, come si capisce, direttamente proporzionale al ruolo in buona parte decisivo che il giudizio della scuola ha, e non esita ad avere, sulla vita dei giovani, sul loro futuro, un giudizio in pratica senza appello, per rimediare al quale non esistono le dubbie scappatoie a caro prezzo tipo Cepu, «Grandi Scuole» e Università telematiche che esistono da noi. Ed è un prestigio direttamente proporzionale al profondo senso di responsabilità e dunque alla serietà con cui la scuola e chi vi lavora sentono di dover assolvere al proprio compito: senza indulgenze pelose, senza farsi scudo dietro la retorica dell’«accoglienza», e naturalmente tenendo le famiglie rigorosamente fuori dalla porta.
Certamente l’Italia non è la Germania, ma dobbiamo convincerci che la qualità dell’istruzione dipende più che da ogni altra cosa dalla centralità/qualità degli insegnanti, e che a sua volta questa finisce per dipendere direttamente dal modello di scuola che si adotta. Negli ultimi decenni noi abbiamo introdotto una serie di riforme scervellate che hanno costruito una scuola in cui per fortuna i bravi insegnanti ancora esistono ma dove quella centralità è stata di fatto spregiata e messa al bando. Restaurarla, rafforzarla, stimolarla dovrebbe essere oggi il primo compito di un ministro dell’Istruzione che non volesse rassegnarsi ad essere, dietro la cortina di generiche vuotaggini, un virtuale curatore fallimentare.
Cara Roberta,
raccolgo il tuo invito alla discussione (e segnalo che ho appena commentato il precedente post sulla scuola).
Senza entrare in un’analisi dell’articolo di Galli della Loggia, dico solo solo un paio di cose. Sono abbastanza d’accordo che gli insegnanti, la loro capacità, la loro preparazione, il loro prestigio sociale, siano al centro del buon funzionamento del sistema scolastico e quindi occorra operare per rinforzare questi elementi, ma ritengo invece che un punto ritenuto marginale da Galli della Loggia vada riportato al centro dell’attenzione: la necessità di ripensare i programmi. Intendo sia la scelta sui contenuti dell’insegnamento, sia la loro distribuzione nei cicli scolastici e nei curricoli dei singoli cicli. Ci sono contenuti, come la logica (e quest’idea la riprendo da Franca D’Agostini), che non sono mai entrati nei programmi ma sarebbero fondamentali per formare alla razionalità e al pensiero critico. E l’economia? Gli studenti dei licei arrivano alla maturità avendone una vaga idea (studiando Marx in filosofia e la crisi del ’29 in storia) ma almeno le basi sarebbero essenziali, per poter capire anche solo un articolo sulla prima pagina dei quotidiani di oggi… Suggerirei anche le basi della psicologia cognitiva… Troppe cose? Non c’è il tempo? Non ho la soluzione in tasca, ma sono sicuro che la realtà contemporanea imponga un ripensamento anche dei contenuti.
Che in Germania si decida del futuro scolastico dell’alunno a 10 anni d’età, in base al voto raggiunto, lo trovo piuttosto discutibile. Conosco giovani che avevano raggiunto votazioni solo discrete e che, maturando, hanno conseguito ottimi voti in facoltà universitarie particolarmente impegnative. Mi sembra anche un’affermazione classista perchè sappiamo che i figli provenienti dalle famiglie socio-culturali più elevate conseguono risultati in genere migliori. Concordo sul recuperare la centralità della figura dell’insegnante e sul valorizzare l’impegno e la flessibilità adottata anche nell’uso della didattica digitale, aspetti che solo gli addetti ai lavori riconoscono.