Nei giorni del Festivalfilosofia di Modena, tutti i relatori, e il Direttore scientifico del Festival, Daniele Francesconi – hanno ricevuto questo appello a che una modifica così vasta e importante come l’immissione di dosi massicce di didattica a distanza nell’insegnamento secondario venga discusso anche dai docenti che ne saranno protagonisti, e che chi decide ascolti le loro osservazioni, questioni, critiche e suggerimenti.
Accogliamo questo appello promuovendolo per quel poco che possiamo fare, mettendo a disposizione per questa discussione lo spazio del Phenomenologylab. Sarebbe bello se chiunque abbia cose significative da dire su questa esperienza aprofittasse (anche) di questo canale. D’altra parte, il problema riguarda massicciamente anche i docenti universitari, e uno scambio di esperienze e valutazioni – magari anche suggerimenti e iniziative – potrebbe essere molto utile.
Roberta De Monticelli
L’appello
Siamo un gruppo di insegnanti dell’associazione Cidi (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) e collaboratrici/tori della rivista “insegnare”: nel prendere in considerazione il tema del festival, desideriamo sollecitare direzione e voci partecipanti a una riflessione sulle conseguenze di un fenomeno che riguarda la scuola del nostro Paese.
Ci riferiamo al massiccio ricorso alla tecnologia da parte della stragrande maggioranza dei docenti per sopperire alla chiusura delle scuole a causa della pandemia, denominato in modo inadeguato e genericamente fuorviante “didattica a distanza” (DAD). A questa scelta, determinata dall’emergenza cogente della pandemia, e ora confermata e mantenuta da parte del Ministero, viene così attribuita una legittimazione di valore didattico-culturale poco o per nulla verificata.
Noi pensavamo che sulle attività a distanza dei docenti, spesso di carattere puramente addestrativo, per esempio all’uso delle piattaforme interattive, si dovesse compiere uno studio attento, prima che queste venissero prescritte anche in situazione di ritorno alla normalità. Invece a noi docenti si è dato da compilare soltanto un esile questionario online; non c’è stata alcuna discussione sugli esiti dell’indagine né tanto meno – mancanza questa di assoluta gravità- sulle motivazioni epistemologiche delle successive scelte ministeriali.
Riteniamo infatti che sia una grave forzatura misurare la qualità del lavoro didattico su un risultato di mero addestramento, o sull’uso massivo di videolezioni frontali. Il Ministero, invece, all’inizio dell’estate ha avallato l’esperienza con la seguente motivazione: “La didattica digitale integrata, intesa come metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento, è rivolta a tutti gli studenti della scuola secondaria di II grado, come modalità didattica complementare che integra la tradizionale esperienza di scuola in presenza, nonché, in caso di nuovo lockdown, agli alunni di tutti i gradi di scuola, secondo le indicazioni impartite nel presente documento.” (Linee guida MIUR per il Piano scolastico DDI, D.M. 26 giugno 2020. 7/8/2020).
Siamo molto preoccupate/i di questa svolta improvvisata che peraltro interviene su una realtà scolastica già problematica: nel corso di venti anni di autonomia la pratica didattica ha evidenziato numerose falle, quanto a competenze, rigore e, soprattutto, effettiva e consapevole condivisione delle scelte operate da quella politica economicistica che si è dimostrata, se non estranea, distante dai problemi dell’istruzione. In poche parole è mancata una formazione efficace e su obiettivi di sapere disinteressato. Ora apprendiamo che su questa debolezza sopravviene una novità di enorme portata culturale oltre che economica, gravata nella sua realizzazione da un impegno notevole di risorse pubbliche e da taluni interessi di parte dell’industria. Oltre tutto si tratta di una novità deprivata di fondamenti teorici, così come ha sottolineato di recente lo stesso Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione.
In noi docenti certo non riscontriamo quegli strumenti necessari a impostare teoricamente una discussione di questo tipo e portata, ma sicuramente sappiamo che un apprendimento/insegnamento è un processo complesso di interazione fra soggetti e contenuti disciplinari, e possiamo inoltre ipotizzare che i saperi traslati attraverso canali prestabiliti, omologati su procedure obbligate, avulse dal processo di destinazione, non manterranno intatti le proprie strutture e i propri significati.
Pertanto, consapevoli delle nostre poche certezze e dell’incognita gigantesca che questa operazione apre sull’umanesimo scolastico e dunque sui fondamenti dei suoi saperi, oltre tutto essenziali ai valori di cittadinanza, chiediamo agli intellettuali di questo Paese, per primi a voi in indirizzo, di aiutarci a promuovere questa discussione, ad attribuire a questo passaggio, a nostro avviso epocale, lo spessore problematico che gli è dovuto, nel timore che la mancanza di questa riflessione venga a inficiare gravemente, forse a cancellare, il significato democratico del nostro mandato costituzionale, in rapporto alla finalità formativa dell’istituzione scolastica, ossia alla costruzione di una società plurale di individui consapevoli, critici, liberi. Un rischio che vogliamo evitare con tutte le nostre forze.
Firmato: Luigia Amoroso, Rosanna Angelelli, Anna Angelozzi, Mauro Baldassarre, Gloria Calì, Roberta Canale, Ernesto Caranci, Angela Caruso, Daniela Casaccia, Raffaella Consorte, Anna Di Iulio, Mariella Ficocelli, Carmela Fortugno, Caterina Gammaldi, Lucia Iannucci, Carla Martella, Annachiara Monardo, Franca Montese, Marilena Nobis, Fiorella Paone, Angela Salvitti, Lorenza Pelagatti, Luigi Tremoloso, Maria Angela Truccolo.
Roma, Palermo, Cosenza, L’Aquila, Pescara, Pordenone, Torino, 16/09/2020
Leggo solo oggi questo “Appello per la scuola” e intervengo volentieri. Insegno filosofia e storia in un liceo di Milano, e come tutti i colleghi ho letto e riletto le Linee guida del Ministero sulla Didattica Digitale Integrata, cercando di capire e interpretare, anche in vista del collegio nel quale abbiamo dovuto scrivere e approvare il Piano Scolastico per la DDI. Ritengo che effettivamente siamo di fronte a un passaggio cruciale e forse irreversibile nella scuola italiana, innescato dalla pandemia ma che risponde, probabilmente (ed è questo il nodo su cui occorre riflettere maggiormente), a esigenze che erano già presenti nella realtà contemporanea e nella vita scolastica anche prima della pandemia stessa.
Cerco di spiegarmi meglio. E’ chiaro che l’esigenza di riaprire le scuole e al contempo salvaguardare la sicurezza prevenendo il più possibile il diffondersi di nuovi contagi ha portato all’idea di ridurre il numero di alunni presenti in classe per consentire il distanziamento. Fin qui tutto bene, ma è importante notare che il ministero non ha per nulla modificato la normativa sul numero di alunni per classe in vista della formazione delle classi prime: tutto è rimasto esattamente come prima, e per esempio, nel nostro istituto, a fronte di 131 nuovi iscritti allo scientifico abbiamo potuto formare 5 classi prime di 26 alunni. Se la normativa fosse stata modificata, abbassando il numero di alunni per classe, avremmo potuto formare 6 prime invece di 5, con circa 22 alunni per classe. Certo: ridurre il numero di alunni per classe vorrebbe dire aumentare il numero di docenti, quindi più stipendi eccetera. E’ anche vero che incidere su prime più piccole non avrebbe risolto il problema complessivo del distanziamento, ma avrebbe innestato un cambiamento profondo nel lungo periodo, che avrebbe portato a un beneficio “naturale” per la didattica tradizionale: lavorare con classi di 20 studenti (addirittura di 15?) significa snellire i tempi delle verifiche, consentire una relazione didattica più attenta al singolo e così via.
Ecco quindi l’idea: metà classe in presenza e l’altra metà a casa, collegata in videoconferenza, con turni settimanali o giornalieri. Ora è chiaro che chi segue da casa la lezione fa sicuramente più fatica a seguire ciò che avviene in classe (penso soprattuto alla difficoltà di sentire le domande e gli interventi degli alunni, non appena la lezione frontale accoglie domande o diventa lezione partecipata, con continue interazioni fra docente e studenti; ma anche seguire a distanza una lezione puramente frontale è sicuramente più difficile per la tenuta dell’attenzione, con un punto di vista fisso sul docente… ci sono poi i problemi legati a un eccesso di ore davanti al computer eccetera). Da qui l’idea che la didattica in presenza debba adattarsi alla didattica digitale, e che quest’ultima debba differenziarsi in attività sincrone e asincrone, e il suggerimento di tutta una serie di metodologie innovative, alcune delle quali però appaiono fuorvianti. Se la cosiddetta classe capovolta sembra calzare con la prospettiva delle turnazioni e con l’esigenza di staccare chi è a casa dal collegamento continuo, l’apprendimento cooperativo non si capisce come possa essere realizzato, se sono distanziati in classe e non possono nemmeno lavorare a coppie…
Le linee guida lanciano la DDI come una innovazione, ma non è affatto chiaro come possa essere concretamente realizzata e credo che nella sostanza sarà solo la pratica e la sperimentazione per prove ed errori a indicare la strada giusta, almeno per quest’anno scolastico.
E qui arriviamo al punto più critico e profondo. La sensazione è che questa introduzione massiccia del digitale a scuola sia sì legata al momento contingente, ma che fosse in qualche modo attesa e richiesta dai tempi, dalla mutazione antropologica dei nostri giovani e di noi stessi, immersi in pieno nella “quarta rivoluzione” della infosfera (per usare l’espressione del libro di Floridi). E’ vero però, come l’appello qui presente richiede, che questo passaggio epocale avrebbe richiesto, per essere “accolto” nella scuola in modo meno traumatico, una riflessione molto maggiore, con un coinvolgimento profondo dei docenti stessi. L’ipotesi è che il ministero abbia proposto una soluzione “rapida” a un problema imprevisto (la pandemia) e abbia voluto presentarla come una risposta meditata a un problema di passaggio epocale, di transizione storica. In realtà, se dobbiamo cogliere l’occasione della pandemia per ripensare la scuola, dobbiamo tutti accettare di darci il tempo necessario a farlo sul serio, più profondamente, con riforme di lungo periodo. E, ripeto, credo che purtroppo sarà necessaria una lunga fase di sperimentazione per prove ed errori, nella quale sarà bene tenersi sempre collegati, scambiarsi le idee e le esperienze e pretendere ascolto da parte del ministero.