“Non pensare, ascolta!”. Parafrasando il celebre motto indirizzato da Ludwig Wittgenstein ai filosofi, potrebbe essere questo l’imperativo cui attenersi leggendo Come suono di natura di Carlo Serra (Galaad Edizioni), il cui sottotitolo recita Metafisica della melodia nella Prima Sinfonia di Gustav Mahler. E già qui si comprende la sfida del libro, che intreccia metafisica e musicologia, considerazioni sull’universalità del musicale e analisi tecnica, rievocazione dell’atmosfera culturale dell’opera e studio della partitura. Così, benché il volume, come promesso dal sottotitolo, si concentri su una singola opera, accettando così il rischio di scoraggiare chi non sia un appassionato stretto del compositore boemo, diventa occasione esemplare per parlare in generale dell’espressività musicale, accompagnando il lettore passo passo nei fenomeni attraverso i quali la Natura e la Volontà si rivelano e sono messe musicalmente in scena da Mahler.
Il saggio muove da una suggestione, che ne ispira il titolo. “Lento. Trascinato. Come suono di natura”, infatti, è una dicitura che compare come indicazione espressiva apposta dall’Autore stesso ad apertura del primo movimento della sinfonia, che il libro si propone di analizzare minuziosamente, sinfonia composta probabilmente tra il 20 gennaio e la fine di marzo del 1888, ma abbozzata anni prima. In seguito, nel 1894, Mahler avrebbe d’altronde riorchestrato l’opera, introducendo una sezione di armonici eseguita dagli archi, tenuti costantemente di sfondo per esprimere l’idea di risveglio della Natura da un indefinito stato di torpore.
Può sorgere così una domanda: in che senso la Natura dovrebbe potersi esprimere in un suono?
Non si tratta qui, ovviamente, di riflettere sulla possibilità di un compito banalmente imitativo di sonorità naturali. Ma di analizzare attraverso quali scelte compositive possa esprimersi una certa idea di Natura, in modo tale da far sperimentare nell’ascolto quello che può essere definito un vero e proprio “pensiero musicale”.
Due risultano allora gli imprescindibili riferimenti di Mahler: Goethe e Schopenhauer. Ma se questo può apparire relativamente ovvio, se si ripensa all’influsso che questi due giganti hanno avuto sulla cultura di lingua tedesca, non lo è affatto il modo in cui Serra invita l’ascoltatore a rintracciare nella partitura, ma anche nelle modalità esecutive suggerite dal compositore, il dramma metafisico che in essa vi risulta rappresentato. E proprio la decisione di Mahler di impiegare gli armonici degli archi come trama di sfondo nell’incipit del movimento dà conto dell’analisi. In quel risveglio, infatti: «Qualcosa si muove in modo stentato, viene sollecitato al movimento, ma resiste, dev’essere trainato. L’accostamento fra le indicazioni rimanda a un movimento che sta cercando una propria articolazione, che fa fatica a prendere forma, come accade dopo un lungo torpore» (p. 64). Non v’è traccia, qui, di un riferimento concreto a qualcosa che dovrebbe essere “imitato”. È invece chiaramente evidenziato un compito interpretativo per il compositore che fa proprie le possibilità espressive ed evocative del materiale sonoro prima ancora di porsi il problema di una loro formalizzazione. Sono le immagini implicite nelle proprietà fisiognomiche dei suoni a essere protagoniste. E tuttavia, al contempo, è il compositore a dare loro uno specifico sviluppo, una curvatura che non può non richiamare quella metafisica di cui Goethe e Schopenhauer, in modi diversi, sono stati gli ispiratori. La Natura nasconde un mondo, che la musica ha il potere di raccontare, superando i limiti della nostra conoscenza rappresentativa. Ed è caratteristico di questo “mondo” dietro al mondo ‒ affatto oggettuale ‒ che il compositore si proponga di evocarne il risveglio come un processo organico che dall’oscurità procede verso la luce, dall’indefinitezza verso una forma. Le oscillazioni, scrive Serra, «indicano appunto la generalità, l’ampiezza del concetto di risveglio, e quindi anche la sua ambiguità, perché il risveglio si muove in una lunga fase di chiaroscuro, rimanda ossessivamente a un processo che sta per aprirsi. Tali fattori puntando alla visione di una ciclicità della natura, di un nascere e di un morire, di qualcosa che conquista la luce e la pienezza sullo sfondo di una rovina, del buio, della notte, dell’aridità gelida dell’inverno» (p. 66). Un sentimento, qui, assume allora attraverso la musica aspetto di paesaggio. Ma senza concessioni ad alcun descrittivismo.
Un paesaggio, d’altronde, è uno spazio: uno spazio in cui si diffonde oggettivamente una precisa atmosfera emotiva, che nulla ha conseguentemente di banalmente “psichico”, nel senso di una supposta “interiorità” in qualche modo proiettabile sullo sfondo inerte del mondo fisico. Se questo è vero, Serra mette alla prova le analisi già condotte in un suo precedente saggio, La voce e lo spazio (una recensione qui) per evidenziare la capacità e l’intento di Mahler di “dare corpo” a tale paesaggio, di scolpirlo tridimensionalmente, per così dire, con una molteplicità di effetti di lontananza, cui partecipano le fanfare, non meno che i clarinetti e gli oboi, sulla trama luminescente degli armonici scandita dal ripetuto ’“annuncio” di un accadere incipiente dato dal suono individuato di un “cucù”.
È in questo spazio che, grazie alle indicazioni di Serra, oltre che naturalmente alle soluzioni di Mahler, udiamo via via distintamente farsi avanti “un mondo”, un mondo che sorge in tutta la sua rigogliosa potenza e bellezza generativa come soltanto la musica, verrebbe da dire, pare poter rendere giustizia. Ma un mondo, anche, in cui l’essere umano, con la sua attitudine rappresentativa, è destinato come Schopenhauer insegna, a un eterno scacco. La visione armonica dell’intero naturale di Goethe cede così il campo al dramma del suo talentuoso allievo, alla cui metafisica della volontà si rivolge Mahler per mettere in scena il conflitto già profilato nel Lied da cui il movimento prende ispirazione.
S’impone ora, per stasi, interruzioni, frammenti e lacerazioni melodiche, il tema romantico del sublime. Accade secondo una trama in cui la fascinazione per la dismisura, che si esprime nel crescendo finale, si apre a un «momento di impressionante intensità, in cui il riverbero della percussione entra in contatto con l’esplodere della fanfara dei sette corni», precipitando repentinamente sullo sfondo flauti, oboi e clarinetti. (p. 170). È il caso di dire, commenta Serra, che qui il suono crolli letteralmente addosso all’ascoltatore, mettendo a dura prova la consueta frontalità dell’ascolto per rompere gli argini dello spazio non soltanto orchestrale, bensì simbolico, che Mahler stesso in precedenza ha con tanta perizia costruito. L’immagine che viene evocata è quella della «sublimazione di un potentissimo emergere della voce della natura», dei suoi registri più esuberanti: «Il sublime, il terribile, emergono in una rappresentazione che vuole fare ammutolire, un ammutolimento reso ancora più potente dal motto gioioso che si ripete tre volte nei corni, a chiusura della sequenza. Una gioiosità festosa cade ora sulla ripresa dei temi, fino alla chiusura del movimento» (p. 173)
Se la prima parte del volume invita e guida soprattutto a un vero e proprio esercizio di ascolto, la seconda fa tesoro delle acquisizioni compiute per approfondire alcuni temi specifici di filosofia della musica. Tra i molti Autori presi in considerazione, un posto d’onore spetta naturalmente a Theodor L. Wiesengrund Adorno e alla sua celebre monografia su Mahler. Sono molteplici gli spunti offerti. Noi ci soffermeremo in particolare sulle considerazioni svolte attorno alla melodia, che gettano nuova luce anche su alcune dinamiche d’ascolto in precedenza messe in evidenza.
In merito alla melodia, Serra non si dimentica, naturalmente, di citare il suo maestro, Giovanni Piana, che segnalava come caratteristico della percezione di una frase musicale sia il suo farsi. I suoni, benché possa apparire banale dirlo, non sono “cose” del mondo: pezzi, per così dire, di esso. E proprio per questo si prestano così bene a divenire spunto per una metafisica del “mondo” dietro al mondo, così come la troviamo, al pari di Mahler, anche in Schopenhauer. Ma non è tutto. Proprio in ragione del non essere “cose”, i suoni nel loro costituirsi ‒ anzitutto passivo ‒ in una frase melodica, rivelano la loro unità e identità soltanto strada facendo, in modo del tutto diverso da come, per esempio, si svela a poco a poco, per parti contigue, un disegno inizialmente coperto alla vista. Nella melodia ogni nuovo suono contribuisce a modificare il senso con il quale abbiamo percepito il precedente e il senso sulla base del quale percepiamo il successivo, in un continuo ristrutturarsi dell’intero sulle base delle aspettative che via via si creano, confermano, negano. Solamente quando la melodia è giunta al suo termine, pertanto, la frase acquista un unità definitiva e una propria identità. Questo fa sì, però, che anche interruzioni, stasi, vuoti, abbiano un significato in merito alla melodia stessa, sia che quest’ultima risulti chiaramente riconoscibile sia che venga spezzata o vagamente evocata, esercitando una funzione vuoi rassicurante vuoi spaesante vuoi ancora perturbante. Se le cose stanno così, allora, irrigidire, come fa Adorno, nello schema della ritorno dialettico del medesimo il succedersi in occorrenze distinte delle frasi, rischia di limitare la comprensione delle scelte del compositore boemo. La Prima sinfonia si muove infatti continuamente «tra i poli di una staticità che conserva l’identità della forma, la Gestaltung, e le articolazioni in formazione, che nascono dal modificarsi di quelle relazioni, la Bildung. Ma il gioco di Mahler è arrestare i processi, farci prendere dentro la contemplazione delle forme, narcotizzare, prima di arrivare a uno sviluppo vero e proprio. Non si lavora su una semplice alternanza di stati, ma sulla messa in scena del prevalere ora dell’uno, ora dell’altro» (pp. 147-148).
Non c’è spazio, qui, propriamente, per quelle “irruzioni” che Adorno considera le “novità” che consentirebbero su un piano formale il ritorno dialettico del medesimo. Una prospettiva del genere proporrebbe d’altronde una lettura fratta, intermittente, dove tali irruzioni non creerebbero altro che fratture in forza delle quali, ottemperando a una visione coerente con la dialettica negativa adorniana, lo strappo e la ricongiunzione di parti che si ripetono rappresenta il movimento che, nella negazione e ricomposizione in forma nuova di ciò che è già stato udito, porta a compimento il riscatto della natura per mezzo dell’arte. Ma i suoni non sono pezzi di mondo che devono essere “redenti”. Essi sono dentro e fuori dal mondo al medesimo tempo, perché del mondo esprimono, come Mahler sulla scorta di Schopenhauer ha inteso, la dimensione affettiva profonda, l’esprimersi per gradi, dagli elementi inorganici per arrivare a quelli organici, di un senso sublime e tragico: un suono di natura, appunto.
Non è difficile, allora, comprendere quanto la melodia si presti perfettamente a esprimere la volontà umana, il dinamismo, tortuoso e tormentato, del desiderio attraverso il quale si manifesta nel mondo, in molteplici forme, quella che chiamiamo, a torto o a ragione, libertà: «Il tessuto del mondo, il tessuto musicale, ogni cellula, ogni altezza, è pervasa da questa dimensione cosmica, dalla profonda unità che caratterizza tutte le dimensioni della natura. I frammenti dispersi dell’unità melodica, i suoi caratteri ‒ che siano un ostinato ritmico, un intervallo, il congiungersi di spezzoni in diminuzione, gli attriti fra melodia e pedale, o la dispersione della consistenza delle voci nel tessuto orchestrale ‒ raccontano le mille forme di una continuità di cui non possiamo liberarci, perché è lo sfondo desiderante della nostra vita, un basso continuo che colora il modo dell’esistenza nel riso o nel pianto». Perché «La polifonia del suono è la polifonia dei caratteri che si dispiegano nel teatro dell’esistenza» (pp. 282). E in tale teatro, allora, anche il semplice suono di un “cucù” o il canto popolare di San Martino, nel loro progressivo disciogliersi nel movimento orchestrale, possono esprimere il perturbante straniamento dell’uomo dinanzi al mondo e alle sue inesorabili leggi.
Un mondo di cui egli si sa parte e insieme solitario spettatore.
Grazie! E grazie per aver valorizzato il passivo, che costituisce il registro analitico del problema