Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, queste limpide e condivisibili parole sulla natura dell’educazione.
Quando la scuola rinuncia all’educazione
Educare non vuol dire lasciar scorrere.
Ebbene sì. Cominciare uno scritto con una negazione sembrerebbe già porre le basi per una riflessione poco costruttiva. Una riflessione pronta a distruggere, cancellare e, dunque, negare.
Ma perché siamo affetti da questo pregiudizio per cui la negazione sia sinonimo di negatività? L’atto del rifiuto è un atto profondamente costruttivo: un atto che pone un divieto, un ostacolo, una porta chiusa. È un atto che educa al coraggio, all’autoconsapevolezza, alla crescita della propria autostima. Vedersi chiudere una porta in faccia non fa certo piacere nessuno. Ma in certi casi è profondamente necessario ed altamente educativo. Non riconoscere questa valenza e questa necessità ci porta inevitabilmente a diventare schiavi di pregiudizi e stereotipi. Ci lasciamo incantare da discorsi che fanno leva sulla formazione, su percorsi didattici individualizzati, sul legame affettivo ed amicale da intrattenere con gli studenti.
Ma se consideriamo gli studenti nostri amici e se giustifichiamo ogni loro azione alla luce della loro peculiare situazione che richiede una costante e martellante attenzione, allora non li stiamo rispettando in quanto persone. E come ogni ontologia potrebbe riconoscere, uno studente è innanzitutto una persona, e solo in secondo luogo gli viene affibbiata l’etichetta sociale di “studente”. Ed essendo una persona, grida al rispetto, non ad un’attenzione maniacale che, quasi alla maniera hegeliana, giustifica tutto ciò che lo studente pensa, compie e propone come dispiegamento di un oscuro processo di crescita.
In ambito scolastico, rispettare una persona sembra voler dire, prima di tutto, educarla. Educare non è sinonimo di formare, come anche una spiccia analisi può dirci. Formare qualcosa sottintende l’esistenza di una materia ancora informe, che si tratta di plasmare secondo una forma. Educare qualcuno, invece, sottintende un atto di “estrarre”, di e-ducere: condurre fuori, estrarre, condurre alla luce. Non bisogna plasmare alcunché, non ci si arroga il diritto di plasmare e dare forma. Ci si incarica del compito, difficile, di estrarre da una persona le sue potenzialità, di portare alla luce i suoi talenti, di far emergere le sue abilità (che un buon burocrate scolastico ci inviterebbe a distinguere dalle competenze e, peggio ancora, dalle capacità o conoscenze; ma pensiamo che, con buona pace della burocrazia scolastica, qui il senso sia sufficientemente chiaro). Ora, quali sono gli strumenti che un docente possiede per portare a termine questo compito? La risposta sembra essere tanto semplice quanto veritiera: il suo sapere. Che si tratti di fisica, letteratura italiana, lingua inglese, filosofia o quant’altro, questo è il suo tramite per educare i suoi studenti.
In questo processo educativo di “estrazione” non tutto fila liscio: essendo una relazione, come tutte le relazioni incontra punti di scontro e dialoghi mancati. Ma nella misura in cui lo scopo rimane quello prima definito, tutto sarà allora finalizzato all’educazione della persona. Un momento di scontro porta ad una successiva consapevolezza, un dialogo mancato porta ad un successivo tentativo. È difficile, ma quando gli studenti capiscono che la loro educazione ti sta a cuore e che il rispetto costituisce il fondamento di ogni tua relazione ed azione, allora i giochi sono fatti. Non che il lavoro di “estrazione” diventi una passeggiata, ma si cominciano lentamente a scorgere i primi frutti. Questa è la soddisfazione di un docente educante.
Educare non vuol dire lasciar scorrere: così abbiamo esordito. Insito nell’atto educante è l’atto della negazione: dato che stiamo ormai partendo dal presupposto di trovarci di fronte ad una persona che richiede rispetto (e-ducazione) e non di fronte ad una materia che noi pretendiamo di saper plasmare (formazione), è chiaro allora che compito categorico dell’educante non è lasciar scorrere e lasciare che la forma si costituisca da sé, bensì indirizzare, instradare, a volte costruire argini, a volte abbattere dighe. Una relazione che voglia dirsi educativa è una relazione costruttiva: chi costruisce deve avere l’entusiasmo di progettare, la voglia di edificare ma anche, e soprattutto, il coraggio di negare: questo non è da farsi, questo pilastro va posto altrove, questo sostegno non regge. Se ci si lascia abbindolare dal lusso di fare a meno di questo coraggio, allora ci stiamo scrollando di dosso la responsabilità dell’educazione per sentirci le spalle leggere e la coscienza leggera.
Ogni persona è diversa, ciascuno vive o subisce le proprie esperienze, ma è un compito imprescindibile educare alla realtà. Se invece commiseriamo gli studenti trovando diagnosi per ogni loro disagio e rinvenendo una giustificazione idiosincratica per ogni azione da loro commessa o omessa, non li educhiamo alla realtà: li stiamo semplicemente formando nel peggiore dei modi, stiamo dando loro una forma (dimenticandoci che una forma la hanno già), la forma della pusillanimità, dell’inerzia e dell’autogiustificazione. Educare alla realtà, invece, è forse un compito meno scenico, che non ci fa sentire le spalle leggere, e che ci fa pure sudare: educare al rispetto, alla stima delle proprie capacità, alla cura per i propri talenti, alla consapevolezza dei propri limiti. Educare alla realtà vuol dire coltivare nei propri studenti il senso di giustizia e meritocrazia. Ci stiamo prendendo gioco di loro se li trattiamo in modo ingiusto. Ma se lo scopo è semplicemente quello di formare, allora tutto è permesso: questo caso è specifico, questo caso è particolare, qui abbiamo un grave disagio, qui abbiamo un’importante incomprensione, qui abbiamo una scarsa autostima. Lasciamo scorrere, chiudiamo gli occhi. E intanto la forma che si dà ai propri ragazzi è quella dell’indifferenza e dell’ingiustizia.
Educare significa scorgere le differenze, con l’attenzione dell’estrattore di minerali, non con la faciloneria di un contrabbandiere alle prime armi. E quando tutti gli studenti vengono definiti come casi particolari a cui tutto è permesso, allora forse non siamo di fronte a ragazzi difficili, ma a docenti che preferiscono rinunciare alla fatica dell’educazione per accettare il plauso che spetta a formatori che affrontano ragazzi difficili.
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