Riprendiamo qui volentieri l’articolo di Marco Santambrogio in ricordo di Giulio Giorello, pubblicato su Il Manifesto il 17.06.2020.
Giulio Giorello, il filosofo dalla curiosità insaziabile
di Marco Santambrogio
Ritratti. Una vita passata a infrangere le barriere culturali, dal greco ai fumetti, dalla poesia alla
storia dell’Irlanda, dalla filosofia politica alla matematica.
A scuola Giulio Giorello aveva 10 in greco. Oggi può sembrare un dettaglio irrilevante ma allora era
una cosa di cui si parlava nei corridoi del liceo Berchet. Quella memoria leggendaria e la capacità di
studiare qualunque cosa a fondo e rapidamente (soprattutto di notte) non gli sono mai venute meno.
Forse perché eravamo compagni di scuola e di università (io di poco più giovane), ho sempre
pensato che le qualità che facevano apprezzare Giulio da tutti sono state le stesse che aveva
dimostrato in gioventù: la curiosità insaziabile per le cose più disparate — dal greco ai fumetti, dalla
poesia alla storia dell’Irlanda, dalla filosofia politica alla matematica — e la capacità di discuterne
alla pari con chiunque, che fossero studenti, colleghi o profani, nonostante una profonda e mal
celata timidezza. Ma se dovessi scegliere il tratto che preferisco di Giulio, direi il suo strano
carattere giocoso e il divertimento che gli dava infrangere i luoghi comuni e la ristrettezza di certe
consuetudini, ad esempio accademiche. Eppure aveva un forte senso delle istituzioni e molto rispetto
per la sua Alma Mater.
AVEVA UN SENSO dell’umorismo tutto suo e lo divertiva profondamente tessere le lodi di quel
liberale di John Stuart Mill, negli anni dell’asfissiante ortodossia marxista, davanti a Lodovico
Geymonat che l’aveva convinto, ma per poco, a dedicarsi allo studio del materialismo dialettico. Con
Geymonat, per cui Giulio ha sempre provato molto affetto, non poteva andare d’accordo a lungo sul
piano delle idee: il maestro era nella sostanza uno stalinista a cui l’invasione sovietica
dell’Afghanistan non era dispiaciuta, l’allievo era un libertario che, se mai avesse capito qualcosa di
politica (non la capiva), sarebbe stato piuttosto un attivista del Partito Radicale.
A PROPOSITO di perbenismo accademico: molti suoi colleghi lo disapprovavano, ma Giulio
dedicava ore e ore dei suoi corsi di filosofia della scienza alla Gloriosa Rivoluzione,
all’indipendentismo dell’Irlanda e simili argomenti storici, che lo appassionavano ma appartenevano
a settori piuttosto lontani dal suo nelle partizioni accademiche. Il bello è che sapeva inserire quelle
divagazioni in un discorso filosofico coerente. La storia del resto lo appassionava e penso che
avrebbe potuto essere un grande storico se lo avesse voluto, con la sua curiosità e la sua memoria.
Una sua osservazione mi è servita a capire il senso avventuroso di tanti suoi interessi
apparentemente disparati: leggere i libri di storia — diceva — è immergersi in altri mondi, esplorarli
e scoprirli coerenti, proprio come accade leggendo Il signore degli anelli.
Come riuscisse poi a mettere insieme il liberalismo con la simpatia che professava, almeno con me,
per l’Ira irlandese, ala Provisional, non l’ho mai ben capito. Ma forse si prendeva gioco di me e
intendeva parodiare l’apologia che Geymonat era solito fare della lotta armata partigiana in Italia. O
forse prendeva sul serio le provocazioni dadaiste di uno dei suoi filosofi preferiti, Paul Feyerabend,
che metteva in discussione uno dei capisaldi della filosofia di tutti i tempi, l’orrore per le
contraddizioni. «Forse che mi contraddico? | Benissimo, allora vuol dire che mi contraddico, sono
vasto, contengo moltitudini» era una delle sue citazioni preferite. (continua a leggere l’articolo qui)
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