Sul senso di una crisi. Critica della ragione liberale e dissoluzione sociale nell’ultimo libro di Andrea Zhok

venerdì, 20 Marzo, 2020
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«Il vero è l’intero» recita un famoso passo della Prefazione di G. W. F. Hegel alla Fenomenologia dello Spirito. E indipendentemente dal senso con cui intendiamo tale affermazione e dalla maggiore o minore simpatia che nutriamo per il filosofo di Stoccarda, non c’è dubbio che grande e persistente resta il fascino che essa può esercitare in tempi incerti e inquieti come quelli che stiamo vivendo.

La circostanza per la quale Critica della ragione liberale, ultimo libro di Andrea Zhok, edizioni Meltemi, sia uscito negli stessi giorni in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità s’accingeva a proclamare la pandemia di Covid-19 e gli italiani, dopo i cinesi e prima di altri, si sono dovuti chiudere nelle loro case per appiattire una curva di un contagio capace di travolgere i loro sistemi di salute pubblica, è senz’altro casuale. Difficile resistere, però, alla tentazione di leggere anche questa sciagura ancora purtroppo in evoluzione mentre scriviamo chiusi in una casa in Lombardia alla luce di questo ponderoso lavoro, che raccoglie in forma diremmo di trattato ricerche che l’Autore nel corso degli anni ha svolto in molteplici direzioni, ben oltre i limiti della letteratura filosofica stricto sensu.

Diversamente da autorevoli filosofi che nei giorni scorsi hanno sostenuto e ribadito una lettura tanto profonda dell’emergenza in corso da farne quasi un epifenomeno, se non trascurabile, ontologicamente riconducibile a rivelazione di un paradigma di crisi (stasis) sempre latente perché costitutivo della nostra civiltà, va riconosciuto a questo pur ambizioso scritto il merito di un approccio metodico capace di mantenere alla crisi il senso della crisi, riconoscendo all’ordinario procedere della vita quella normalità senza la quale anche l’emergenza rischia di perdere un senso logico. Una civiltà non può essere strutturalmente in crisi. Può, invece, soprattutto nell’esplodere di un’emergenza, interrogarsi sui motivi storici che, nella limitata misura del potere umano, possono avervi contribuito, rifiutando la banalizzazione che tende a ripartire le ragioni dello stato presente nelle categorie di senso comune del caso, della necessità, della cattiva volontà, o della volontà malvagia, se non addirittura del destino, sempre cinico e baro. Una tentazione certamente umana, ma fin troppo, per contribuire a una comprensione adeguata di quel che in una maniera che lascia tragicamente stupiti sta accadendo e che a partire dai differenti modi con cui individui, popoli e Stati stanno reagendo rivela una complessità di ordini di valori che meritano tutta la nostra attenzione e a partire dalla cui analisi soltanto un orientamento teorico e pratico verso il futuro può prendere le mosse, se vogliamo rimanere umani razionalmente.

Da questo punto di vista quella di Andrea Zhok rappresenta una proposta che costringe utilmente a riflettere, anche e forse soprattutto chi, come chi scrive, non ne condividesse in tutto o in parte le tesi o, se non altro, incontrasse soverchie difficoltà a rassegnarvisi.

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Volendo usare una terminologia ottocentesca desueta, e che per la verità non appartiene all’Autore, Critica della ragione liberale, di seguito indicata semplicemente come Critica, è una esposizione dello “spirito del liberalismo” nelle sue premesse storico-antropologiche e nei suoi esiti attuali d’ordine nichilistico. Avremmo potuto anche usare l’espressione “spirito del capitalismo”. Ma sarebbe stato limitativo. Perché è nel liberalismo classico, incarnato nelle figure di Thomas Hobbes, John Locke e Adam Smith, che il volume rintraccia le moderne e compiute premesse antropologiche che hanno definito, giustificato e sostenuto lo sviluppo dell’economia capitalistica e, insieme, gli ordinamenti giuridici, politici e sociali che via via ne hanno retto l’evoluzione.

Per comprendere tali premesse, però, è necessario risalire più indietro. E qui, forse, troviamo uno dei contributi più originali dell’Autore, che fa valere in un ambito che convenzionalmente sarebbe ascritto alla storia e alla teoria delle dottrine politiche riflessioni svolte in opere precedenti disciplinarmente lontane da esse e nelle quali decisivo è l’approccio fenomenologico agli argomenti.

Abbiamo parlato di “esposizione dello spirito del liberalismo”. Ma con un’importante e decisiva differenza, che dovrebbe liberare l’Autore dal sospetto di riproporre sotto mentite spoglie una metodologia idealistica di matrice hegeliana o materialistica di matrice marxista nella sua ricostruzione, che comunque a tutti gli effetti si presenta sin dal sottotitolo come una filosofia della storia corrente. Non si tratta, infatti, di rintracciare un télos cui fatalmente le società contemporanee a vario titolo ascrivibili alla famiglia liberal-democratica o social-democratica sarebbero destinate. E, sulla scorta di questa conoscenza, riconoscerne hegelianamente l’intrinseca razionalità o predisporsi marxianamente alla prassi più adeguata, giacché razionale, per attuarne il rovesciamento. La questione è qui più sottile. Anche se in definitiva non meno ambiziosa.

Così la espone l’Autore in una nota metodologica nella prime pagine del volume: «La storia che c’interessa ora raccontare è una storia speciale, una storia che ci mette in grado di trovare orientamento nella selva dei dilemmi politici ed etici del nostro tempo. (…) Ciò che desideriamo proporre è (…) un quadro narrativo di massima, empiricamente fondato, e capace di identificare una linea di sviluppo profonda nella storia occidentale, una linea capace di illuminare la nostra posizione nella storia contemporanea» (p. 13). Sulla scorta dei risultati di ricerche precedenti, svolte in particolare nei saggi Libertà e natura (Mimesis, 2017) e Identità della persona e senso dell’esistenza (Meltemi, 2018, qui una recensione), ci si propone di tracciare un profilo saliente, anche se non necessariamente unico, di filosofia della storia alla luce di un’analisi fenomenologica più profonda della soggettività, capace di leggere l’attualità sociale, economica, politica in una prospettiva di lungo periodo che risalga all’origine di quella che chiamiamo “cultura occidentale”, ma che di fatto, attraverso il processo della globalizzazione, ha profondamente e capillarmente permeato il mondo.

Libertà e necessità, infatti, nella Storia universale come in quella personale, convivono in una forma specifica, diversa da come le tradizioni storicistiche del XIX e XX secolo l’hanno concepita, tra le quali un ruolo eminente è stato giocato anche da quelle hegeliane e marxiste: «Ogni agente ha davanti a sé una pluralità di opzioni, ma mai un’infinità arbitraria di opzioni, giacché le determinazioni pregresse pongono limiti al proprio spazio di possibilità reali. Al tempo stesso, ogni realizzazione (l’esito di un’azione) umana produce una variazione, rilevante o trascurabile, negli spazi di possibilità disponibili per le azioni successive. Questo significa che certe azioni, certi obiettivi e modi di vita, in certi momenti storici sono senz’altro impossibili perché le determinazioni passate non ne hanno aperto lo spazio (e questo è il senso della necessità). Ma significa anche che la concatenazione delle azioni nel tempo può aprire spazi di possibilità oggi inattingibili, e questa è l’essenza della libertà storica». (p. 14) Ci siamo dilungati su queste premesse metodologiche, con ampiezza di citazioni, perché le riteniamo cruciali per una comprensione non equivoca e non riduttiva del testo, che altrimenti prima facie potrebbe essere inteso come la riproposizione di una forma di storicismo a sfondo genericamente hegelo-marxista. È fondamentale, invece, mantenere ben salda la matrice fenomenologico-trascendentale dell’approccio e i suoi pregressi risultati descrittivi nella sfera umana della motivazione e determinazione soggettiva e intersoggettiva, matrice evidenziabile sin dal titolo dell’opera, che s’annuncia appunto come una “critica”. Nel volume, quindi, pur parlando a proposito di processi, sviluppi, fasi, stadi, crisi, movimenti e orientamenti di pensiero e d’azione di soggetti individuali e collettivi, organizzazioni e istituzioni storicamente determinati, la logica alla base di tale ricostruzione non ha carattere predeterminato e necessitante, ma cerca di evidenziare tra i fenomeni tendenze, intrecci, sovrapposizioni, anticipazioni, dipendenze, rinforzi e indebolimenti, rallentamenti e accelerazioni, che, pur accettando la sfida d’intendere l’essenziale del presente, nulla garantiscono sul futuro.

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Dopo questa lunga, ma crediamo indispensabile, premessa, veniamo ora al merito della Critica.

Della ragione liberale l’Autore offre anzitutto una prima genealogia, che risale all’origine del pensiero filosofico, tecnico e scientifico nella Grecia dal VI al IV secolo, e precisamente al passaggio da una cultura a trasmissione in prevalenza orale a una cultura a trasmissione scritta, e specificamente fonetica, capace quindi di riprodurre il parlato e di consentire una linearizzazione logica del pensiero, creando lo spazio intellettuale e morale, teorico e pratico, per un più ampio esercizio della libertà, ovvero di un più ampio intendere volto alle proprie possibilità di individuo umano, senza che per questo venisse meno, tuttavia, il generale prevalere di motivazioni collettivamente orientate nell’organizzazione sociale.

Un secondo passaggio cruciale, intrecciato ma non coincidente con il primo, avrebbe riguardato la diffusione del denaro come mezzo di scambio economico. Lungi dall’essere riducibile a un utile stratagemma pratico volto banalmente a superare i limiti di un’economia basata sul baratto, il denaro si rivela nell’analisi che l’Autore riprende da un precedente testo dal titolo Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo (Jaca Book, 2006) un genere di “scrittura” che a sua volta tende a favorire la patrimonializzazione individuale realizzabile attraverso lo scambio di merci indipendentemente dal rango della nascita e dalla conquista militare, aprendo un altro ambito d’esercizio della libertà individuale e di interscambio tra gruppi umani variamente sovrapponibile, secondo forme d’interdipendenza, con quello indotto dall’adozione diffusa della scrittura fonetica.

A partire dal XVI secolo, con la riduzione logico-matematica del discorso accompagnata dall’indipendente sviluppo di un sistema di notazione numerica posizionale e dall’invenzione della stampa a caratteri mobili, si creano le premesse per lo sviluppo della moderna scienza ipotetico-sperimentale, che introduce un modello di controllo soggettivo e intersoggettivo della verità non più basato sulla tradizione e anzi in contrapposizione con essa. Parallelamente, il richiamo alla responsabilità personale di fronte a Dio basata sulla critica delle religioni protestanti alla mediazione secolare del suo messaggio da parte della Chiesa di Roma, dischiude una nuova pretesa di verità all’individuo, pretesa che in ambito teologico e religioso è anche garanzia di salvezza.

Solamente nel XVII secolo, però, si creano per la prima volta le condizioni propizie alla fioritura di un orizzonte di pensiero in senso proprio liberale, capace di informare progressivamente di sé, seppure tra conflittualità e contraccolpi reazionari, e in tempi e modi estremamente diversi, gran parte degli ordinamenti sociali, economici, giuridici, politici e istituzionali dei costituendi Stati europei. Sarebbe un errore, però, considerare questo orizzonte di teorie e pratiche come un intero coeso e coerente. È questa una sottolineatura che l’Autore ribadisce a più riprese: «Si tratta di un orientamento politico magmatico, privo di una forma precisa, definito di volta in volta da ciò contro cui combatte, il cui minimo comune denominatore ideologico è in ultima istanza solo una concezione della libertà negativa, individuale ed economica. La particolarità di questa concezione della libertà è la sua neutralità assiologica: non è libertà per fare alcunché, ma libertà da interferenze altrui» (p.151) Questa ultima caratterizzazione è fondamentale per comprendere il terzo aggettivo con il quale Zhok definisce la libertà configurata dalla ragione liberale, ovvero, come libertà economica. Con le sue stesse parole: «Dalla sua neutralità assiologica deriva il suo incarnarsi nell’unica libertà positiva compatibile con questa vuotezza valoriale, ovvero la libertà di iniziativa economica e di commercio, che è libertà di acquisizione di mezzi per qualunque fine».

È così che dall’individualismo radicale di Thomas Hobbes, giustificativo di un potere sovrano tanto assoluto quanto irriducibile a qualsiasi forma di eticità diversa da quella imposta ai singoli con la forza della legge, attraverso l’etica della tolleranza di John Locke, che elidendo dalla realtà del mondo le qualità soggettive riduce a mero opinare ogni pretesa di verità al di fuori di tale canone e il suo rispetto a mero distanziamento individuale, si arriva ad Adam Smith, in cui lo scambio economico tra agenti in un mercato ideale viene eretto, oltre le stesse intenzioni del moralista scozzese, a modello eminente dell’agire libero. Beninteso: non si tratta qui di negare alla scienza economica valore e meriti teorici e pratici indiscutibili, oltre che una varietà di approcci diversificati ai suoi stessi problemi. Irriducibili, però, sono le idealizzazioni alla base delle sue elaborazioni, che non possono fungere da semplici assunti o da ipotesi soggette a falsificazione, perché nel caso esse venissero meno, l’intero edificio che è stato costruito sulle loro basi crollerebbe: «Le concezioni dell’individuo umano come originario e irriducibile, e del valore come appagamento interiore (utilità percepita), sono incardinate nella spina dorsale della concettualità economica. La realtà umana, la concretezza storica e antropologica, vengono perciò sempre lette come una sorta di eccezioni, di deviazioni, più o meno marcate e possibilmente da correggere, invece l’astrazione di partenza appare per la moderna riflessione economica come un “luogo naturale” aristotelico, un punto di attrazione cui si tende a ritornare sempre, salvo esplicito impedimento» (p. 153).

Non per questo l’Autore intende negare il fatto che in connessione con l’affermarsi del pensiero liberale si è diffusa la ricerca di modelli istituzionali non oppressivi, la pluralistica tolleranza verso una sfera interiore di pensieri e opinioni e altre importanti e sotto molti profili irrinunciabili conquiste emancipative di gruppi di individui affini. Ma tali istanze e appare questo il punto nodale del discorso non necessitano affatto delle premesse del liberalismo per essere sostenute. In compenso, una volta intesa la continuità di fondo tra ragione liberale e razionalità economica neoclassica, s’intende facilmente la naturalezza del successivo sbocco neoliberale per come s’è imposto in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, sbocco già visibile a partire dalla fine degli anni 70, ma galoppante dopo il crollo dell’URSS: «Il neoliberalismo, infatti, rappresenta la presa di coscienza storica del carattere normativo dell’economia neoclassica. Non si tratta più di immaginare un mondo (uno “stato di natura”) dove gli esseri umani siano massimizzatori razionali autoreferenziali, dove la storia e la cultura siano inconferenti, dove il mercato sia un’entità originaria e lo Stato un accessorio a esso funzionale. Questo mondo non c’è mai stato. Ma in una prospettiva economica è ritenuto auspicabile che esso ci sia, o che ci si approssimi quanto possibile a quel modello, e questa è l’essenza della proposta neoliberale. È perciò che alla fine del XX secolo lo Stato liberale dismette le proprie remore e si fa carico di creare, o approssimare, le condizioni perché le idealizzazioni del mercato perfetto si realizzino» (p. 153).

Nella vasta e diversificata discussione attorno alla sussistenza e alla definizione del neoliberalismo, il volume formula dunque una sua precisa proposta, in base alla quale sarebbe il trasferimento sul piano normativo generale di idealizzazioni sorte sul legittimo ma limitato terreno della modellizzazione dei processi economici a rappresentare il punto di discrimine tra liberalismo moderno e neoliberalismo contemporaneo. Ciò che un tempo poteva risultare utile a descrivere sotto certe condizioni lo scambio economico (i mercati nelle loro varianti tipologiche) è divenuto un orizzonte antropologico cui tendere, salvo eccezioni da ridurre al massimo grado perché ritenute con esso poco conciliabili.

Il processo ha vaste conseguenze che in generale attuano uno sbilanciamento dei rapporti di forza tra ceti abbienti e non abbienti su scala globale: dalla finanziarizzazione dell’economia all’aumento delle diseguaglianze sociali, dalla precarizzazione del lavoro alla riduzione del controllo democratico, dalla disgregazione dell’unità e capacità di azione individuale e collettiva di persone, famiglie e comunità alla polverizzazione e perdita di credibilità dell’autorità e dell’opinione pubblica fino ad arrivare alla marginalizzazione dei poteri sovrani degli Stati socialmente più vulnerabili.

L’esito è la caduta tendenziale in quello che senza esitazioni è denominato nichilismo: un nichilismo individualista che avrebbe in Friederich Nietzsche il suo anticipatore e nella famiglia filosofica post-modernista, non meno che nel naturalismo scientifico riduzionista, i suoi eredi più o meno diretti e consapevoli: «Nietzsche è (…) “antiborghese” proprio come saranno poi antiborghesi i postmoderni, perché ne rifiuta l’ipocrisia, rifiutando con ciò anche l’eredità premoderna della borghesia (Dio, patria, famiglia)». Tale rifiuto avviene però in nome del compimento della ragione liberale, per tramite di un presunto superamento che in realtà ne rappresenta una sorta di compimento estremo: «Nietzsche denuncia le maschere borghesi, fustiga la falsità della morale borghese, della religione borghese, della tradizione borghese, ma non lo fa nel nome di alcuna natura o autenticità, bensì nel nome di un abbandono di ogni morale, ogni religione, ogni tradizione cioè nel noime di un compimento dell’epoca dell’autoriproduzione del capitale» (p. 254).

Il che significa: della pura e semplice volontà di potenza.

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Giunti a questo punto, si apre l’ultima parte del volume, che a partire dalla concettualizzazione offerta si propone di mettere in prospettiva tutta una serie di temi filosoficamente attuali, in ambito economico, sociale, morale, politico. Non è possibile in questa sede entrare nel merito delle singole trattazioni. Ci limiteremo a esaminare l’ambito problematico che a noi sembra più importante, se non altro perché dalle prese di posizione in merito discendono in effetti amplissime conseguenze.

È quello dei cosiddetti diritti umani, che il libro affronta a partire da pagina 260.

L’Autore opera un rapido, ma importante excursus di quelli che chiama “antecedenti nobili” della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 per sottolineare “l’audacia innovativa” di quest’ultima. Esaminando la Dichiarazione d’Indipendenza americana (1776), la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del cittadino (1789) e gli “emendamenti” alla Costituzione americana (1789-1791) non si troverebbe traccia di un diritto naturale che apparterrebbe come proprietà essenziale a ciascun membro della specie umana in quanto tale: «Gli antecedenti storici non andavano al di là del fissare un principio funzionale a una politica contingente, quel principio che consentiva rispettivamente alla nazione americana e francese di investirsi di una sovranità indipendente dal re britannico e francese». La “naturalità” del diritto è servita qui per fare “un passo di lato” rispetto alla tradizione. Ma una volta compiuto tale passo, tali “diritti naturali” hanno rivestito “poco peso”.

Le cose cambiano drasticamente con la Dichiarazione del 1948. In questo caso, infatti, l’ambizione appare quella di sancire come “diritti” in realtà valori (vita, sicurezza, salute, libertà, lavoro ecc.) e di sancirli come individuali in modo radicalmente avulso da qualunque contesto storico: antropologico, sociale, politico, giuridico, istituzionale. Ma da questi “valori”, in linea generale banalmente condivisibili, non possono di per se stessi discendere norme alle quali si abbia il dovere di attenersi. Non sono dunque se non per equivoco definibili come “diritti”. Come Norberto Bobbio correttamente ha inteso, essi possono tutt’al più essere configurabili come esigenze, che devono poi essere fatte valere sul piano di ordinamenti normativi positivi con tutte le criticità che questo comporta. Proprio qui sta il problema di ogni riga della Dichiarazione del 1948: « (…) questo elenco di “desiderata occidentali” manca proprio delle due condizioni che ovunque nella storia consentono a dei valori di trasformarsi in norme condivise e in diritto positivo: manca del riferimento a un organismo deputato a implementarle, e manca di una cornice culturale condivisa che possa sostenere criteri di interpretazioni univoci per quelle che sono solo verbalizzazioni volutamente vaghe». (p. 265) Zhok a questo punto previene una facile obiezione. Se anche le cose stessero così, infatti, il limite non sembrerebbe particolarmente grave: perché prendersela con dei buoni propositi, una volta riconosciuto che sono effettivamente buoni? È precisamente in questo punto che la critica alla nozione di diritti umani della Dichiarazione del 1948 s’innesta su quella della ragione liberale. I diritti umani, infatti, «Non si presentano affatto come espressioni utopiche di condizioni desiderabili, ma appunto come diritti, cioè come ciò che Ronald Dworkin chiama trumps (assi di briscola), cioè istanze normative che, una volta riconosciute, devono battere ogni altra considerazione». Questo accade, si prosegue, perché la forma logica di un diritto soggettivo è quella di un’istanza inerente a un individuo per essenza, che deve poter avere la meglio anche eventualmente a scapito di importanti interessi pubblici o fini collettivi. Pertanto è non negoziabile.

Le conseguenze di questo modo d’intendere si scorgono non appena s’immagina o, almeno nel caso dell’Autore, si rileva il suo divenire culturalmente egemonico e politicamente e non di rado anche militarmente operativo, in particolare a seguito della fine della Guerra fredda e dell’orizzonte ideologicamente alternativo che fino al crollo dell’URSS ha fatto da contraltare alla ragione liberale. Si nota, infatti, ritenendo la concomitanza rivelatrice di una dinamica profonda, come l’espressione “diritti umani” non divenne formula ricorrente prima degli anni 70. E come negli stessi anni in cui i diritti sociali nei paesi occidentali subivano una compressione, con la stessa curva di accelerazione aumentava lo spazio dedicato nel discorso pubblico proprio ai diritti “naturali universali” del 1948.

A partire di lì si assiste allora a un’autentica mutazione culturale su vasta scala, sostanziata da tre momenti della logica dei “diritti umani” tendenti a rafforzarsi tra loro: individualismo metodologico, rivendicazionismo, manipolabilità, senza i quali difficilmente si può riuscire a intendere e giudicare la dinamica storica contemporanea nella sua apparente instabilità e caoticità.

Per individualismo metodologico ci si intende riferire alla tendenza a moltiplicare e sacralizzare ogni qualsivoglia pretesa soggettiva. Si moltiplicano così le richieste di riconoscimento di sempre nuovi “diritti umani”, dal “diritto dei bambini ad essere amati” al “diritto alla pace”, dal “diritto al suicidio assistito” al “diritto a un genere a dispetto del sesso”, dal “diritto a una famiglia” al “diritto all’informazione”, dal “diritto a un lavoro dignitoso”, al “diritto all’acqua” e così via. Ma al di là di quello che si può ritenere serenamente più o meno ammissibile in merito a questo o a quel “diritto”, si assiste qui a uno scivolamento in cui diviene sempre più difficile distinguere una legittima pretesa da un semplice desiderio. Questo ha un duplice effetto: delegittima gli ordinamenti sociali pregressi e accredita progressivamente il desiderio individuale come fonte sovraordinata del diritto. Il che intrinsecamente, pare sostenere l’Autore, rappresenta un autentico controsenso sul piano logico, che finge di ignorare come ogni norma debba necessariamente poggiare su una condivisione di abiti collettivi, usi, pratiche sociali, che la rendano anzitutto intellegibile quindi persuasiva.

Da questa confusione deriva il secondo momento di sviluppo problematico di quella che a questo punto potremmo chiamare una ideologia dei diritti umani, ovvero, il loro tendere al rivendicazionismo, che proietta a partire da ciascuna rivendicazione individuale o di gruppo di un diritto un’immagine sempre e comunque tendenzialmente oppressiva della tradizione. Ma questo significa trascurare pericolosamente il fatto che in un contesto sociale ordinario, salvo rare eccezioni, a ogni diritto di qualcuno corrisponde il dovere di qualcun altro. Una società che incentivi la crescita illimitata di diritti soggettivi basati sulla rivendicazione individuale, quindi, tende a essere una società che necessita di sempre più elevati sistemi di controllo sociale a garanzia non di tutti bensì di ciascuno. Inoltre, a moltiplicare le occasioni di contenzioso privato e pubblico: «Ciò che sul piano del mercato è la competizione per il massimo vantaggio economico, sul piano normativo diviene lotta per rivendicare il massimo riconoscimento dei propri desideri. La sacralizzazione delle inclinazioni, opinioni e desideri personali esige semplicemente di trovare qualcuno che ti dia ragione e ti attribuisca i mezzi per esercitare la tua volontà» (p. 273). In ultimo, divenuto modello, questo approccio si presta in linea di principio non meno che di fatto alla più ampia discrezionalità interpretativa del “diritto” e alla sua manipolazione al servizio del più forte, tanto a livello intrastatale quanto interstatale, con la copertura di organismi sovranazionali il cui ruolo super partes facilmente si rivela meramente esornativo se non tendenzialmente pretestuoso. I “diritti umani”, così malamente intesi, si rivelerebbero allora «trumps fondati in una natura mitologica e imperscrutabile, i cui aruspici, autorizzati a interpretare i responsi, finiscono per “avere ragione” sulla semplice scorta della loro forza» (p. 274). Nichilismo, ma eretto a sistema. Il modello dell’interventismo mondiale, che da un punto di vista politico e militare, dalla Prima guerra del Golfo a oggi, ha via via perduto anche la sua legittimazione formale dell’Onu, è inteso quindi come un “archetipo di hybris” sostenuta da un soggetto anch’esso parte del modello liberale: l’opinione pubblica mondiale, senza i cui buoni uffici ben difficilmente i Paesi occidentali potrebbero valicare, con o senza armi, i loro confini nel nome delle loro cause “umanitarie”. In realtà, essa non è altro che «Un’entità metafisica che si esprime in occasionali sondaggi e che non ha né il tempo né la preparazione per farsi un’opinione fondata sui temi che viene chiamata a giudicare. L’opinione pubblica si esprime su finestre informative intrinsecamente limitate, cui peraltro dedica generalmente pochissimo tempo (…) Per queste ragioni (…) la chiave per ottenere l’attenzione (…) è di natura squisitamente emozionale e passa attraverso testimonianze commoventi o scatti fotografici “fortunati”». È su questa base che governi e organizzazioni non governative si concedono di “parlare a nome dell’umanità”. Ma è un gioco di specchi, che l’Autore stigmatizza scivolando quasi nell’invettiva: «L’illusione prima, circa l’esistenza di diritti personali disseminati in natura, crea l’illusione che in un mondo di individui sempre più autoreferenziali e desocializzati ci si possa comprare una scala per il paradiso con qualche scampolo di indignazione telecomandata, e relativa donazione» (p. 290)

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2 commenti a Sul senso di una crisi. Critica della ragione liberale e dissoluzione sociale nell’ultimo libro di Andrea Zhok

  1. venerdì, 20 Marzo, 2020 at 23:11

    Parlando della Dichiarazione Universale del 1948: « (…) questo elenco di “desiderata occidentali” manca proprio delle due condizioni che ovunque nella storia consentono a dei valori di trasformarsi in norme condivise e in diritto positivo: manca del riferimento a un organismo deputato a implementarle, e manca di una cornice culturale condivisa che possa sostenere criteri di interpretazioni univoci per quelle che sono solo verbalizzazioni volutamente vaghe». (p. 265). Già. Andatelo a chiedere all’avvocata dell’Arabia Saudita condannata a 38 anni di galera che non farà perché morirà sotto i colpi di frusta in pubblico (per aver difeso il movimento delle donne arabe contro il porto obbligatorio del velo) – se sono proprio solo “desiderata occidentali” i Diritti Umani. Andatelo a chiedere alla ragazza iraniana che fu impiccata perché aveva resistito al suo violentatore. Alle centinaia di giornalisti in galera in Turchia. Ai torturati in Egitto. Ai bravi cinesi che sconfiggono il Coronavirus e uccidono moralmente chi primo lo denunciò. Ecco, con tutto il male che c’è in terra, prendersela proprio con i Diritti Umani in quanto legati al liberalismo politico mi sembra uno sport a metà strada fra la geenna e il fascio – tanto per parafrasare il liberale Albert Camus, che nacque fra la miseria e il sole.

  2. Stefano Cardini
    domenica, 22 Marzo, 2020 at 20:02

    Come anticipato nella mia recensione, che come sempre vuole essere un’esposizione articolata e teoricamente orientata, nutro perplessità sull’impianto complessivo e su diverse analisi di dettaglio dell’opera. Tuttavia, in merito al fondamento filosofico dei cosiddetti Diritti Umani temo non sia sufficiente stigmatizzare gli argomenti dell’Autore, quasi che fosse inaudita l’idea stessa di averli messi in gioco, anche perché ampio è sempre stato il dibattito in merito, che non vorrei avere banalizzato con la mia esposizione. Quanto al riferimento al fatto ovvio che in molti Paesi illiberali esistano legittime e condivisibili istanze più o meno diffuse che rivendicano diritti costituzionalmente garantiti negli Stati liberal-democratici e social-democratici, purtroppo non è di per sé un contro-argomento né in merito alla legittimità dell’uso dell’espressione “diritto” né in merito al “diritto” di entità statali e sovrastatali di farle valere con la forza politica, economica o militare. Non serve che io ricordi l’amplissima letteratura e l’accanito dibattito attorno al concetto di “guerra giusta”, dibattito oggi sorprendentemente scomparso dall’agenda pubblica benché dal 1990 di “guerre giuste” se ne siano consumate e ancora se ne consumino con effetti disumani e destabilizzanti come forse mai prima nel mondo. C’è tanto lavoro da fare e da riprendere, credo. Proprio e soprattutto da chi, tra cui anche il sottoscritto, al concetto di “diritto umano” non è disposto a rinunciare troppo facilmente.

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