Gennaio 1960: un incidente automobilistico spegne a quarantasei anni il timbro inconfondibile della voce di Albert Camus, che traduce in lucidità intellettuale la sua limpidezza morale. Non parlo solo delle opere che lo hanno reso famoso e gli hanno, nel 1957, guadagnato il Nobel per la letteratura: Lo straniero (1942), La peste (1947) – e Il mito di Sisifo (1942), di cui bisogna almeno ricordare la tesi che sfata l’abusata nozione di assurdo: “è la ragione lucida che constata i suoi limiti”. Neppure parlo solo delle pagine di resistenza antifascista di “Combat”, di cui assume la direzione fra il ’43 e il ’47, o delle grandi pièces teatrali, dal Caligola (1938) a I giusti (1949), per non menzionare che le più celebri. Parlo soprattutto del grande saggio che nel cuore del secolo tragico scioglie, almeno filosoficamente, il nodo di ogni tragedia, rifondando il progetto dell’umanesimo: L’uomo in rivolta (1951), il libro che gli procurò l’ostilità di tutta la Rive Gauche, l’assalto sartriano su procura (a firma di Francis Jeanson) su “Les temps modernes” e la sprezzante risposta di Sartre stesso: “Et si votre livre témoignait simplement de votre incompétence philosophique?”.
Ma a onta del disprezzo di Sartre, quel saggio è un vero grande libro di filosofia, che ha un raggio di visuale tanto lungo da scandagliare le origini illuministiche della modernità alla ricerca di quel nodo, e da protendersi come un fascio di luce ben oltre il suo secolo e l’Europa. Immaginatelo come il fascio di una torcia potente che improvvisamente illumina un dettaglio umano di qualche giorno fa: la maglietta di un ragazzo nel caos di una piazza nella Hong Kong in rivolta, su cui si legge, in inglese: “La libertà non è altro che una chance di essere migliori” – cioè una frase di Camus. Universalistico e antinazionalistico fin dalle origini, il pensiero che scioglie il nodo tragico è oggi il più tradotto (settantacinque lingue) e rappresentato (cinque continenti) degli autori francesi. Il filosofo resta philosophe, la sua lucidità è chiara come il sole, la sua lingua è per tutti: e non per caso, ma perché dà ascolto “a questo disperato desiderio di chiarezza il cui appello risuona nel profondo dell’uomo”. Andatelo a dire ai deleuziani, ai derridiani, alla progenie degli heideggeriani e dei pensatori dialettici che hanno occupato le scuole di Francia e d’Europa fino alla fine del secolo scorso e oltre, e costruito il canone della filosofia detta continentale. Ma qual è il nodo tragico che il pensiero di Camus provò a sciogliere? Andiamo con ordine. Nel 1949, presentando L’enracinement di Simone Weil che aveva fatto pubblicare da Gallimard, Camus lo definiva un vero e proprio trattato sulla civiltà e uno dei libri più importanti del dopoguerra, capace di gettare “una luce potente sull’abbandono in cui si dibatte l’Europa”. La cellula di quel libro deve aver nutrito anche il grande saggio di Camus – che di quella scoperta è figlio. “Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male”, scrive Weil – e il lettore attento trova traccia della sua origine in Pane e vino, il secondo romanzo di Ignazio Silone, che Simone Weil lesse e amò. Come nasce questa mescolanza? Ogni iddio, ogni ideale palingenetico la porta in noi se – ma soltanto se – rinunciamo anche per un solo attimo all’esperienza viva del valore, cioè all’attenzione per la preziosità che esiste qui e ora, fragile. Come la madre che Camus disse di preferire alla “giustizia” – se mai sia “giustizia” l’esplosivo degli indipendentisti di Algeria che rischiava di ucciderla. Robespierre confonde l’idea di giustizia con il Comitato di Salute Pubblica, e ne nasce il Terrore. I Bolscevichi portano i valori massimi sulle bandiere del Partito-Stato, e ne fanno parole assassine. L’ideale della democrazia diventa il marketing dei bombardieri – o dei venditori d’armi – e rinuncia alle sue ragioni. E’ il paradosso dei valori, questo: come ideali trascendono i beni finiti che per un momento li incarnano, e guai a confonderli con questi, ma guai anche a tagliare i vincoli che essi soli pongono all’arbitro illogico del nostro dire e all’arbitrio violento del nostro volere. Rinunciate – ed è atto di libertà – a riconoscere qui e ora la domanda muta di tutto ciò che unico, fragile e prezioso: e avrete eluso i vincoli alla politicizzazione di tutta la vita, che è il suo abbandono all’arbitrio indefinito della forza.
Nel 1956 Nicola Chiaromonte – del quale è uscita quest’anno da Gallimard la Corrispondence 1945-1959 con Camus – fondò con Ignazio Silone “Tempo Presente”, la rivista che più tenacemente promosse la libertà di quegli spiriti che non si lasciarono persuadere dall’una o l’altra delle “parole assassine” della Guerra Fredda. La rivista tesse “la trama di un potere onesto” – l’espressione è di Camus, e si riferisce alle fila del pensiero di Weil che lo stesso Chiaromonte aveva contribuito a diffondere, portando con sé nell’esilio americano, e facendo tradurre in molte lingue, il grande saggio omerico di Simone: L’Iliade, poema della forza.
Camus pubblicò sul primo numero La donna adultera: che come l’anima silenziosa di Juan de la Cruz tradisce il sonno coniugale con lo splendore del cielo stellato sul deserto africano. Su quel primo numero comparvero molte versioni del pensiero che Chiaromonte aveva diffuso fra i suoi amici dell’esilio: “L’indifferenza alla verità è il più terribile dei flagelli che possano sconvolgere una società”. Nel ’63 vi comparirà il saggio di Silone, Nichilisti e idolatri, che in due sole parole riassume la sconfitta dell’intelligenza europea di fronte al nodo tragico della “mescolanza del bene e del male” – e le vie per le quali la sinistra restò senza ragioni. Mi sono sempre chiesta perché tanto a lungo perfino la filosofia insegnata nelle scuole europee sia rimasta prigioniera di entrambi quei suoi semiciechi guardiani, il nichilismo dell’ideale e l’idolatria dell’ideologico, invece di rinascere ogni giorno nella difficile medietà umanistica indicata da tanti spiriti compagni di Weil e di Camus, come di Chiaromonte e Silone, di Jeanne Hersch e di Ceslaw Milosz, di Altiero Spinelli e di Edmund Husserl: gli eredi dei Lumi, che come Camus nacquero e continuarono a splendere “a metà strada fra la miseria e il sole”.
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Carissima Robi , sono troppo ignorante in filosofia per commentare adeguatamente il tuo appassionato articolo, ma ho letto per la prima volta da poco tempo Lo straniero e, probabilmente sbagliando, alla fine della lettura ho pensato: “Lo straniero è il Cristo” e mi sembra che il libro sia una perfetta sintesi di realismo e misticismo: tutto terreno con incastonato un gioiello di luce. Perdona queste ingenue considerazioni che spero ti siano gradite e compagne nella tua ricerca.
Un abbraccio Marina