A lezione dalle cose. Bodei, il suo stile filosofico e il suo insegnamento – di Barbara Carnevali

domenica, 17 Novembre, 2019
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Per gentile concessione dell’Autrice riprendiamo questo testo in ricordo di Remo Bodei, pubblicato in Cristalli di storicità. Saggi in onore di Remo Bodei, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019.

 

A lezione dalle cose

Bodei, il suo stile filosofico e il suo insegnamento

Barbara Carnevali

 

1. Mentre rileggevo La vita delle cose in vista di questo incontro, mi è tornato in mente un episodio pisano che ai suoi tempi mi aveva già impressionata e che ora, retrospettivamente, mi sembra condensare lo spirito dell’insegnamento di Bodei. A richiamarlo alla mia memoria sono stati quei capitoli del libro in cui si mostra come sia possibile far filosofia a partire dagli oggetti più banali e umili del mondo della vita. Un giorno, durante una delle sue lezioni universitarie, in un corso sulla memoria e sull’oblio, Bodei illustrava le tecniche della damnatio memoriae. A un certo punto, rivolgendosi al pubblico, chiese se qualcuno avesse mai notato come la sequenza perfettamente simmetrica di palazzi che costeggia i lungarni di Pisa, contornata da un marciapiede rettilineo, fosse interrotta in un solo e unico punto da un giardino. Nessuno se ne era accorto. Ci spiegò che si trattava del Palazzo dei Consoli del Mare, o Palazzo Fiumi e Fossi, che appunto gode della caratteristica unica di non affacciarsi direttamente sul fiume ma di arretrare rispetto al resto degli edifici, offrendo alla vista un piccolo parco delimitato da una ringhiera di ferro. La ragione di questa particolarità, aggiunse, era che su quel terreno sorgeva un tempo la casa del conte Ugolino della Gherardesca. Dopo la sua condanna per tradimento dei pisani fu ordinato di radere al suolo i suoi possedimenti e di cospargere sale sul terreno perché non vi sorgesse più nulla.

Ricordo bene questo aneddoto perché mi rivelò per la prima volta uno degli aspetti più amabili dello stile filosofico di Bodei; lo avrei poi ritrovato ovunque, nei suoi libri come nelle conversazioni pubbliche e private, e lo avrei personalmente coltivato come una fonte di ispirazione: un’attenzione unica per le cose all’apparenza più insignificanti, capace di mettere in moto pensieri là dove la persona distratta non noterebbe nulla di rilevante. Tutti eravamo passati infinite volte davanti a quel giardino sul fiume, ma solo Bodei aveva notato il dettaglio e se ne era stupito. Era tornato a casa, si era informato, e dalla configurazione anomala di un marciapiede era nata una lezione sulla memoria.

La forma di pensiero che non disdegna di chinarsi per perlustrare il ciglio di una strada non è quella che normalmente ci si aspetta dal filosofo, almeno non secondo la caricatura del pensatore con la testa tra le nuvole canzonato da Aristofane o dal riso della servetta di Tracia. Contro il luogo comune secondo il quale la nobiltà della professione filosofica si misurerebbe in proporzione alla sua distanza rispetto alla Lebenswelt (un luogo comune, a dire il vero, diffuso polemicamente soprattutto dai critici della filosofia, molto più raramente dai filosofi stessi), quella difesa e impersonata da Bodei si definisce come una capacità di pensare a partire dal mondo e soprattutto, da qualsiasi cosa esso contenga. Un’arte di distillare pensiero non solo da ciò che contempliamo con gli occhi della mente, come le idee, i principi, i valori, ma anche da ciò che, nel nostro quotidiano scontro pratico con la realtà, maneggiamo, strapazziamo, calpestiamo persino sotto i piedi: il bicchiere da cocktail o il foglio di carta con cui Sartre illustrava i principi della fenomenologia, la poltrona su cui Simmel improvvisava sul campo una filosofia della sedia, le lastre sconnesse del cortile dell’Hôtel de Guermantes da cui prende vita la meditazione sul tempo e la memoria della Recherche proustiana. Bodei ha sempre espresso la sua sintonia con questi autori. Non c’è limite alla sua curiosità, vorace ma mai frivola o dispersiva, e al suo sguardo che scova oggetti filosofici incongrui e terra-terra e che, soprattutto, non pretende poi di legittimarli solo attraverso la sublimazione, ossia sollevandoli in una dimensione superiore allegorica o estetica che li trascende e ne annulla l’origine “volgare”.

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