Volentieri segnaliamo questo articolo di Maurizio Ferraris, a cui farà seguito un articolo di risposta di Roberta De Monticelli.
Sinistra
Dovrebbero essere i Big Data a pagare il welfare del futuro
MAURIZIO FERRARIS
La sinistra è in difficoltà non perché abbia mancato i suoi obiettivi, ma perché li ha conseguiti, e stenta a darsene dei nuovi. Il mandato otto- novecentesco della sinistra, la socializzazione del plusvalore del capitale industriale, è stato realizzato dalle socialdemocrazie europee, e i tradizionali elettori della sinistra si dividono in due parti.
Una minoritaria, “l’élite”, per la quale in effetti i cambiamenti politici contano poco, visto che vota a sinistra in base a convinzioni etiche. Un’altra maggioritaria, “il popolo”, che, avendo incassato i benefici della socializzazione del capitale industriale, non è più interessata a un voto a sinistra perché la produzione non è più in carico ad agenti umani (gli operai), e il rischio è piuttosto quello di perdere i privilegi acquisiti, per esempio spartendoli con i migranti. La competente maggioritaria, dunque, vota a destra (esemplarmente, ed è un fenomeno vecchio di trent’anni, le regioni che passano dal comunismo al leghismo).
Sin qui tutto normale, e persino ovvio. Il problema è che di fronte a questo la sinistra non vede che il problema non è fidelizzare la minoranza etica, ma riottenere i voti della maggioranza opportunistica. I messaggi sono allora o la scimmiottatura inefficace degli slogan di destra, o la ricerca di nuovi elettori improbabili per ragioni di fatto (se le destre bloccano i migranti, quelli non ti voteranno mai) o di diritto (gli animali e l’ambiente non votano).
Più sensatamente, la sinistra dovrebbe mettere a fuoco il nuovo compito che ha di fronte a sé. Prima di tutto, capire che i lavoratori, se per “lavoro” si intende la fatica e l’alienazione, sono una minoranza in via di estinzione, almeno alle nostre latitudini. Vale la pena di osservare che quando si tratta di parlare di fatica, ci si riduce a tre esempi: i rider, i raccoglitori di pomodori e i magazzinieri di Amazon, tre funzioni che saranno presto svolte dai droni. E che quando si tratta di fare esempi di alienazione è difficile parlarne in senso proprio (gli stessi gesti ripetuti per ore, giorni e anni) ma si è costretti a sostenere che dopotutto chi si spara l’integrale di Narcos in un week end un po’ alienato lo è.
In secondo luogo, occorre comprendere che il lavoro è oggi produzione di valore, e va cercato non nella produzione, ma nella invenzione, nella mobilitazione e nel consumo. L’invenzione è trovare usi per i prodotti, seguendo l’esempio di Duchamp, che ha trovato nuovi pensieri per orinatoi, scolabottiglie e ruote di bicicletta e che l’umanità ripete collettivamente giorno dopo giorno (non è per una decisione individuale ma per una invenzione collettiva che il telefonino è diventato il centralizzatore della realtà sociale). La mobilitazione è l’attività di generazione di dati che ci impegna in ogni momento, e che vale molto più della classica produzione (i turisti che affollano le calli di Venezia producono molto più valore che se scavassero in miniera). E il consumo è il fine ultimo che conferisce senso al sistema, ciò senza cui la produzione sarebbe futile, e soprattutto l’unica cosa in cui nessuna macchina potrà mai sostituire un umano, visto che è una funzione che richiede necessariamente un organismo: possiamo costruire macchine che fabbricano e distribuiscono sushi, non macchine che li consumano.
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LE NUOVE SEDI DEL VALORE
di Giacomo Costa, 4V19
Tento di esporre in un linguaggio meno immaginifico quello che ho capito dell’articolo di Marizio Ferraris “La Sinistra oggi” pubblicato nel Manifesto il 19IV19 , e una confutazione di alcune sue tesi, condizionata naturalmente alla correttezza delle mie ipotesi interpretative.
Ferraris parte da due costatazioni, ma mentre la prima è chiara, sono stato costretto a un certo lavoro di interpretazione nel formulare la seconda:
1) fine del lavoro nella sua componente di fatica fisica o di routine impiegatizia; certo dunque, aggiungo io, non fine del lavoro professionale, manageriale, organizzativo, amministrativo, educativo…
2) ingresso nella struttura produttiva di alcuni paesi avanzati di un nuovo sub-settore dei servizi dedicato alla raccolta, elaborazione, e vendita di dati. Uno dei principali usi dei quali è il marketing, la creazione di nicchie di consumatori, la loro fidelizzazione individualizzata da un lato, liberazione dall’altro. (Dell’altro vantato impiego dei dati, la costruzione di strategie vincenti in Borsa, egli non parla.)
Ferraris sembra pensare che per natura sua, il tasso di rendimento dell’investimento in questo settore debba restare più alto -molto più alto- che negli altri. Non dà che io possa vedere alcuna spiegazione di questa sua asserzione che gli sembra ovvia. Forse ritiene che questo tasso di rendimento sia dato in termini fisici, anche se non chiarisce in termini di quale unità egli lo calcoli. Vi sono comunque alcune obiezioni ad essa.
In primo luogo, i prodotti di questa industria saranno ricercati in quanto le imprese negli altri settori si ripromettano degli aumenti dei profitti dal loro uso; e se li ottenessero anch’esse godrebbero di più elevati profitti, nella misura in cui solo alcune -le prime ad impiegare tali prodotti- se ne dotassero. Ne seguirebbe un ingresso in massa nell’industria dei dati, che porterebbe a una totale saturazione dei suoi prodotti con conseguente caduta nel tasso di rendimento in tutte le industrie, compresa naturalmente quella dei dati. In secondo luogo se nel medio-lungo periodo il risparmio fosse determinato -come è- da fattori demografici, sociali, istituzionali, ecc., dati e permanenti, o più generalmente, se i consumatori ferrarisiani volessero continuare a essere tali anche nel loro futuro, l’apporto del nuovo sub-settore a spingere la gente al consumo si rivelerebbe in complesso nullo, come quello della pubblicità dell’ultimo secolo. E il tasso di profitto si allineerebbe a quello della pubblicità, che è da lungo tempo la sede dei fenomeni ludico-estetici preconizzati come manifestazioni di creatività diffusa da Ferraris.
Restano certamente in parte non affrontati due problemi tutt’altro che facili con in quali dobbiamo misurarci: i) una chiara formulazione e attuazione del diritto a non cedere indesideratamente informazioni su noi stessi, che possono rivelarsi di alto valore economico a nostra insaputa (di questo Ferraris non parla), e ii) la messa a punto di strumenti fiscali per non lasciarci sfuggire e omettere di tassare i profitti conseguiti in questo settore (forse questa sarebbe la “socializzazione” su cui Ferraris giustamente insiste.)
FERRARIS ALLA LUCE DI TEGMARK
Leggendo il finale dell’articolo di Maurizio Ferraris del 19 aprile sul manifesto (“Dovrebbero essere i Big Data a pagare il welfare del futuro”), che poi lui stesso ha ripreso il 3 maggio sullo stesso quotidiano come «la mia proposta di un welfare digitale» (“Una sinistra finalmente pensosa”), difendendola dalle appassionate e calzanti critiche di Roberta De Monticelli del 30 aprile (“Una Sinistra finalmente spensierata”), ho avuto l’intuizione di andare a leggere una parte del libro di Max Tegmark Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale (Raffaello Cortina Editore, 2018).
Si tratta di una sezione del Capitolo 3, intitolata “Occupazione e retribuzione”. Qui Tegmark si chiede che impatto avrà l’intelligenza artificiale sul mercato del lavoro e scrive: «Se riusciamo a capire come aumentare la nostra prosperità grazie all’automazione senza che le persone perdano reddito o scopo, abbiamo la possibilità di creare un futuro fantastico fatto di tempo libero e di opulenza senza precedenti, per chiunque lo desideri». Tegmark, a sua volta, si rifà alle idee di un economista (che in questo caso viene però non solo ampiamente citato, con precisi riferimenti bibliografici, ma anche descritto scherzosamente e affettuosamente), Erik Brynjolfsson, il quale ha «una visione ottimistica del mercato del lavoro, che chiama “Atene digitale”. Il motivo per cui i cittadini ateniesi dell’antichità avevano tempo libero per godersi la democrazia, l’arte e i giochi era principalmente perché avevano schiavi che svolgevano gran parte del lavoro. Perché allora non servirsi di robot dotati di IA al posto degli schiavi, così da creare un’utopia digitale di cui tutti possano godere?».
È evidente la somiglianza con quanto scrive Ferraris: «Di fronte all’umanità si apre la prospettiva di una vita dedicata interamente alla produzione di valore, quella tanto idealizzata dei Greci e dei Romani, che hanno goduto prima di noi dei benefici dell’automazione, solo che nel loro caso gli automi erano gli schiavi. Loro lavoravano, mentre i patrizi scrivevano e viaggiavano. Proprio quello che potrebbe nel tempo fare l’umanità intera (…)».
La differenza sta nel fatto che Tegmark inserisce questa prospettiva in un discorso molto realistico, di analisi storica ed economica, nel quale, come cercherò di riassumere di seguito, i mali del nostro tempo sono messi bene a fuoco, mentre Ferraris la inserisce in una critica verso i progetti dell’attuale sinistra italiana attraverso un discorso che contiene qualche incoerenza, ma soprattutto omissioni sulle grandi difficoltà da superare per conquistare la prospettiva proposta.
Tegmark ricorda, innanzitutto, che una situazione di prosperità crescente per tutti grazie all’innovazione tecnologica si è già verificata in Occidente nel periodo del secondo dopoguerra, fino alla metà degli anni Settanta («le dimensioni complessive della torta sono aumentate in misura tale che che tutti hanno potuto averne una fetta più grande»). Poi, però, a fronte di una crescita economica ancora forte, si è cominciata a produrre una disuguaglianza crescente, già chiaramente percepibile in Occidente ma ancora di più a livello internazionale («nel 2013 la ricchezza complessiva della metà più povera della popolazione mondiale (…) era pari a quella delle 8 persone più ricche del mondo» – sono dati Oxfam). La disuguaglianza è oggi in aumento. Mentre in genere, soprattutto a sinistra, si sostiene che la causa di ciò sia la globalizzazione, Tegmark riprende la tesi dell’economista sopra citato, secondo il quale la causa principale è proprio la tecnologia (cfr. E. Brynjolfsson, A. McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, tr. it. Feltrinelli, Milano 2015): la tecnologia informatica premia le persone istruite, avvantaggia un piccolissimo numero di superstar, e tende, dal 2000 in poi, sempre più ad arricchire i proprietari delle aziende (quindi delle macchine) a svantaggio di chi vi lavora. Oggi la maggior parte dei ricavi va agli investitori, non ai lavoratori: l’effetto di aumento generalizzato del benessere, tipico della fase di boom economico anni 50-70, non si verifica più per la diversa natura della tecnologia in gioco; non c’è una legge economica secondo la quale se cresce la torta economica complessiva tutti devono beneficiarne.
Il secondo problema è costituito dalla crescente automazione, che potrebbe portare secondo alcuni alla creazione di nuovi tipi di lavoro, secondo altri alla scomparsa del lavoro umano. Tegmark sostiene che probabilmente entrambe le tesi sono corrette: la prima sul breve periodo e la seconda sul lungo periodo, ma esplora la seconda ipotesi per vedere se in una prospettiva di largo respiro si possano considerare le conseguenze come non necessariamente catastrofiche.
Perché è importante il lavoro? Perché ci può dare un reddito e uno scopo, ma «dovrebbe essere possibile trovare modi alternativi per avere un reddito e uno scopo senza avere un lavoro». Il problema del reddito si potrebbe risolvere attraverso politiche di ridistribuzione della torta economica in crescita (ammesso – e qui vorrei far notare che nel caso dell’Italia di oggi la cosa non è affatto scontata… – che la crescita effettivamente ci sia!). Tegmark pensa al reddito di base, un pagamento mensile senza particolari requisiti, a servizi gratuiti (entrambe le cose a carico degli Stati), e a prodotti e servizi gratuiti messi a disposizione dal progresso tecnologico senza bisogno di interventi statali (effetti già fruibili in parte come conseguenze gratuite del possedere una connessione al web: enciclopedie, atlanti, posta, telefonate…). Tegmark sottolinea, giustamente, che questa generale redistribuzione o condivisione della ricchezza prodotta dalle macchine è possibile ma non è detto che si verificherà realmente, anzi oggi assistiamo alla tendenza opposta, ovvero a crescenti disuguaglianze. Questa è una delle sfide, aggiungo io, che può orientare – anche nel presente – la politica economica della sinistra: ridurre la disuguaglianza di reddito. Tornando a citare Tegmark: «esistono prove fattuali che una maggiore uguaglianza faccia funzionare meglio la democrazia: quando esiste un’ampia classe media istruita, è più complicato manipolare l’elettorato ed è più difficile che un piccolo numero di persone o di aziende possa acquisire un’influenza indebita sui poteri dello Stato. Una democrazia migliore a sua volta può produrre un’economia meglio gestita, meno corrotta, più efficiente e che cresce più in fretta».
Il problema dello scopo, o del senso, in mancanza di lavoro viene affrontato brevemente da Tegmark, il quale sostiene che le cose positive che in generale un lavoro può fornire (ma ovviamente non sempre e comunque) si possono ottenere anche al di fuori del lavoro stesso. Una rete di relazioni interpersonali, l’autostima e la realizzazione dei propri talenti, la sensazione di essere necessari e di far parte di qualcosa di più grande di se stessi sono cose che si possono trovare «per esempio tramite lo sport, gli hobby e l’apprendimento e con famiglie, amici, squadre, club, comunità, scuole, organizzazioni religiose e umanitarie, movimenti politici e altre istituzioni. (…) Se ci impegneremo seriamente a creare benessere per tutti, finanziato con parte della ricchezza che genererà l’IA futura, la società dovrebbe poter fiorire come mai in passato. Se non altro, si dovrebbe poter rendere tutti felici come se avessero il lavoro dei loro sogni, ma non appena ci si liberi dal vincolo che le attività di tutti debbano generare un reddito non esistono più limiti».
Il sogno di uno scienziato? Qualcosa che, se non altro, può far riflettere la politica.
Torniamo adesso, alla luce di queste parole, alle idee di Ferraris. La sinistra avrebbe secondo lui già realizzato i suoi obiettivi otto-novecenteschi, e la maggioranza del suo elettorato tradizionale avrebbe smesso di votarla «perché la produzione non è più in carico ad agenti umani (gli operai), e il rischio è piuttosto quello di perdere i privilegi acquisiti, per esempio spartendoli con i migranti». Già qui mi sembra ci sia un appiattimento del presente sul futuro: non siamo ancora nella condizione per cui il lavoro produttivo sia stato completamente sostituito dalle macchine, e fra gli slogan diffusi contro i migranti c’è proprio quello secondo cui questi toglierebbero il lavoro agli italiani. Ho l’impressione che Ferraris abbia trasferito un discorso sul futuro come quello di Tegmark, in maniera troppo frettolosa e semplificatoria, sul presente.
«Il problema è che di fronte a questo la sinistra non vede che il problema non è fidelizzare la minoranza etica, ma riottenere i voti della maggioranza opportunistica.» Qui mi sembra proprio che Ferraris non prenda atto della realtà: Zingaretti va dicendo ormai da tempo che uno dei suoi obiettivi è proprio quello di riconquistare gli elettori che si sono allontanati per votare M5S (o addirittura Lega). Nella frase successiva poi Ferraris smentisce la sua stessa tesi: perché la sinistra dovrebbe “scimmiottare gli slogan della destra” se non perché vuole riottenere i voti che ha perso? Almeno l’intenzione lo stesso Ferraris gliela riconosce!
Sempre per il meccanismo di appiattire il presente sul futuro Ferraris sostiene poi che oggi il lavoro è «produzione di valore, e va cercato non nella produzione, ma nella invenzione, nella mobilitazione e nel consumo», in altri termini inventare usi per i prodotti, informare sui comportamenti e i bisogni, e consumare, «mentre le macchine producono e distribuiscono». Poi però riconosce uno scarto temporale quando sostiene che il far pagare questo “circolo virtuoso” ai Big Data è un obiettivo per il futuro, di cui dovrebbe occuparsi la sinistra.
L’altro difetto sostanziale della proposta di Ferraris, oltre a questo dissesto temporale presente/futuro, è che rimuove completamente i problemi del presente, in primis la disuguaglianza crescente. Che la socializzazione del plusvalore del capitale industriale sia stata realizzata dalle socialdemocrazie europee, è una mezza verità, che funziona per il periodo del grande sviluppo economico dal secondo dopoguerra alla metà degli anni Settanta (precisamente fino alla crisi petrolifera del 1973) ma non funziona più per tutto quello che è venuto dopo. Se si torna a rileggere Marx non è perché si pensi di essere fermi agli effetti della prima rivoluzione industriale, ma è perché gli effetti della terza stanno tornando a produrre problemi analoghi, in proporzioni rapportate ai numeri di oggi, in termini di diseguaglianze. Certo, è ovvio che Marx non può bastare per chi cerchi la giusta interpretazione del presente. L’idea di fare uno sforzo immaginativo per guardare nel futuro e trarne ispirazione per l’azione politica nel presente è in fondo un’idea dello stesso Marx, ma un conto sono le previsioni sul futuro, un conto è l’analisi del presente. Considerare il presente come già risolto per quanto attiene alla socializzazione del capitale industriale sulla base di una visione ottimistica del futuro di alcuni scienziati ed economisti è un’operazione che rischia di confondere la sinistra, più che farla pensare.
Puntuale e pieno di informazioni questo commento di Giulio Napoleoni. Ne ricavo: l’indicazione di alcuni libri da leggere, e davvero grazie di questo; un’analisi assai puntuale del perché il tema proposto da Maurizio Ferraris è profondamente interessante, e del perché meriterebbe di essere approfondito davvero (vabbè, la scanzonatura di Maurizio sarà servita a mettercelo nell’orecchio, come una pulce).
A me personalmente libera una zona di chiarezza che attende espressione, di fenomeni da descrivere. Il lavoro di distinzione nel cumulo confuso di idee che il concetto di lavoro porta con sé Giulio ha cominciato a farlo. E a me lascia vedere che ciò per cui istintivamente riterrei il lavoro una dimensione da salvare per tutti, ANCHE UNA VOLTA LIBERATO DALLA FUNZIONE DI PRODURRE IL PARTICOLARE REDDITO DI CIASCUNO, è precisamente quella che non è sostituibile dalle attività che Giulio elenca almeno in una cosa: l’aspetto della disciplina. Dell’obbedienza al modo in cui le cose si debbono fare in quel campo specifico, e che dobbiamo conoscere anche e soprattutto per innovare. Dell’apprendimento. Della fatica, della concentrazione, della non-libertà momentanea. Dell’attenzione, fondamento attuale di quella che in termini disposizionali è la serietà di una persona. Dell’impegno non dismettibile a talento proprio, pena il crollo di ciò che si era cominciato a costruire. Della conoscenza, anzi del suo lato sofferto, il cosiddetto “mestiere che entra nel corpo”. Sì, anche del mestiere, appunto, una delle poche cose di cui agli uomini (uffa sì, anche alle donne, che barba) è lecito essere orgogliosi. E quanti altri ce ne sono di questi aspetti di fenomenologia del lavoro, sullo sfondo dei quali soltanto hanno senso i concetti di tempo libero, di gratuità, di otium, più o meno patrizio o romano, o bergamasco. Ecco, facciamola, una lista ragionata delle qualità di valore che ineriscono a ciò che in molte lingue si dice in una maniera che evoca la fatica di fare dei figli.