Aveva ventitré anni, Italo Calvino, quando scrisse Il sentiero dei nidi di ragno (1947). Il mondo lo ha subito amato. Pin è senza dubbio lui stesso, lo scrittore – o per lo meno l’anima che gli ride sulla punta della penna, tutta nuova. Pin – il ragazzo cencioso e maligno, senza madre né legge, la cui giornata “scontrosa sboccata maligna come trascorre, è tutta fresca, baldanzosa di scoperte, di gesta, di onore, proprio come la giornata di un Astolfo e di un Jim Hawkins” (Cesare Pavese). Pin è Calvino, che tale è rimasto. Sarà anche ariostesco, come dice Pavese. Sì, avrà più intelligenza di un filosofo, di un moralista, forse perfino di un tragico. L’intelligenza di ciò che non ha senso, ma iridescenza di fili di ragno e d’erba, di schrapnel e scintillio di canne di fucile e occhi gialli di falchetto e seni rosa di donna e tutti gli altri dettagli senza numero offerti a uno sguardo senza centro e senza gerarchie. Forse l’intelligenza che Calvino ha del mondo e della vita è più grande di quella pietosa, tersa di sole, prosciugata e come assetata di giustizia di un Camus, ad esempio. Rispecchia il mondo lasciandolo impenetrabile come lo trova, lo restituisce in tutta la crudeltà dei suoi particolari, il falchetto strozzato e i morti nella terra, gli sguardi fissi al fondo viola dei bicchieri, le menti buie e balorde, i tic e le ossessioni, le carogne e le canzoni più antiche, le donne, le armi…l’onore anche, come dice Pavese – senza accorgersi che così lo chiama lui, però. Non ci sono vizi né virtù in quel mondo, e le passioni sono solo ossessioni. Restituisce l’enigma intatto: perché questo groviglio vegetale e animale, su cui infine luccicano minerali di stelle, dove la sola cosa palpitante sono le lucciole, lascia nel cuore che abbia appena chiuso il libro lo splendore di un incanto tanto intenso da far quasi male? Perché quasi ti forza a un religioso, pagano, stupefatto inchino alla sovrana indifferenza di tutti gli dei, perfettamente non umani? Perché il mondo ci incantava come se il terribile e l’osceno, il tenero e il violento, il turpe e il lieve non fossero che sfumature, riflessi di scaglie di un drago sinuoso e iridescente?
Eppure la sgangherata banda partigiana che accoglie il ragazzo Pin, e pare uscita da una canzone di Jannacci, è una metafora dell’Italia eterna, che nulla infastidisce più degli ideali, pronta ad arrangiarsi una qualunque vita perfino con la gola nella fossa, capace di ammazzare nazisti e fascisti a botte di sarcasmo e arlecchinate, sberleffi e giravolte, e altrettanto pronta a adorare la mano che stringe armi scintillanti, perfino se gliele punta contro. Il popolo della Resistenza, in Calvino, è ancora e sempre il volgo disperso, che nome non ha.
E’ amaro confessarlo: ma il nostro (forse) migliore scrittore novecentesco somiglia come due gocce d’acqua all’avventuriero dell’Italia già asservita politicamente e ancora gloriosa d’arte e cortesia: allo scintillante capitano mercenario capace di regalare la vittoria a un’armata o a quella nemica, secondo il talento dell’ora. Un avventuriero con occhi di bambino, limpidi come quelli di chi non vede che forme e colori, vividamente: e del tutto innocente di valori. Uno sguardo naturaliter wertfrei, o humeano come neppure un filosofo scozzese potrebbe essere, perché pensare e ragionare è già impegnarsi nella serietà implacabile dei valori epistemici.
C’è, invero, un modo incantevolmente pagano, ignaro e leggero di seguire senza neppur conoscerlo il precetto “non giudicare”: vivere in un mondo di fatti puri – che poi sono fatti bruti – e trasformarli in parole, senza alterarne la purezza. Le parole usate così fanno acuta la mente, che i fatti lasciano ottusa: eppure il contenuto è identico. Un altro enigma!
Ma come faremo noi qui in terra e in questa terra, in questo paese, noi che giudicare dobbiamo se vogliamo scegliere e agire, quando la nostra migliore letteratura funziona così – è sovrana in quest’arte impassibile? Come scrive Pavese, che forse invidiò questo talento fino a morirne:
“Trasformare dei fatti in parole non vuol dire cedere alla retorica dei fatti, né cantare il bel canto. Vuol dire mettere nelle parole tutta la vita che si respira a questo mondo, comprimercela e martellarla. La pagina non deve essere un doppione della vita, sarebbe per lo meno inutile; deve valerla, questo sì. Dev’essere un fatto fra i fatti, una creatura in mezzo alle altre. Per questa prima volta, a noi pare, Calvino c’è abbondantemente riuscito”
Personalmente trovo la citazione di Pavese eccezionale: “trasformare dei fatti in parole vuol dire mettere nelle parole tutta la vita che si respira a questo mondo, comprimercela e martellarla”. Penso sia un modo straordinario per descrivere la concezione di Calvino in merito al valore della parola letteraria. Mi riferisco sopratutto alle “Lezioni americane”, quando distingue esplicitamente due differenti modi d’intendere il linguaggio in ambito letterario: il linguaggio come “un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, un pulviscolo sottile” o, al contrario, una letteratura che cerca di conferire al linguaggio “peso, spessore, concretezza”. Personalmente trovo il passo di Pavese geniale perchè mi pare proprio che nei suoi romanzi Calvino esemplifichi una visione intermedia del linguaggio: nè nube, nè spessore, ma, come dice lui stesso, “la parola come inseguimento perpetuo delle cose, adeguamento alla loro varietà infinita”. E penso che questa concezione della parola letteraria sia inseparabile dalla visione di Calvino in merito alla “potenzialità” della realtà (anzi, penso che si capisca l’una attraverso l’altra, e viceversa): nulla di definito una volta per tutte, motivo per cui nella parola si manifesta una dinamica ed irriducibile tensione verso la realtà che è essa stessa “un pulviscolo di possibilità che si aggregano e si disgregano”. E da qui, inevitabilmente, nasce la sua visione sul senso della letteratura: “l’opera letteraria e’ una minima porzione in cui l’universo si cristallizza in una forma, in cui acquista un senso, non fisso […] ma vivente come un organismo”. Forse è anche per questo che il protagonista de “Il sentiero dei nidi di ragno” è un bambino: nulla di definito, ma un pulviscolo di possibilità, motivo per cui l’ultima parola non è mai data. E penso che questa sua visione linguistico/letteraria getti luce sulla sua visione prettamente storica.
Giustissimo il commento sul passo di Pavese e per Calvino. Calvino che con tutto il suo ariostesco genio, però, non alzò un sopracciglio, poniamo, rispetto alla rovina di Guido Morselli, decretata da lui e dall’apparato ideologico di quei tempi. Eppure con le Lezioni Americane era divenuto immensamente più consapevole che tutta la ricerca poetica è precisione di sensibilità assiologica, e non semplicemente di sensibilità sensoriale: le Lezioni sono la sola Estetica materiale dei valori che io conosca. La mia un po’ angosciata domanda però, forse un po’ nascosta nella riflessione, era: che ne è stato della Resistenza? Nella sua poesia, ma anche nella realtà. Nella realtà di cui la banda sbandata di Calvino può essere metafora, o traduzione in parole. Eppure io non credo, che sia stata così. Di qui l’angoscia. In questi tempi di smemoratezza. Di abolizione per decreto dello studio della storia a scuola.