Occhio vivente sul mondo
di Stefania Tarantino*
(Il Manifesto, 8 marzo 2019)
In un passo memorabile tratto dalle Notizen zu Martin Heidegger, Karl Jaspers scriveva che esiste un altopiano roccioso in cui i “grandi filosofi” s’incontrano per impegnarsi in uno strano combattimento senza violenza dove ne va della serietà degli oggetti più essenziali che l’uomo possa toccare. Il filosofo di Oldenburg era alla ricerca di una critica capace di attualizzarsi veramente nella sostanza stessa del pensiero, di una lotta capace di rompere l’incomunicabilità di potenze inconciliabili. Si rammaricava del fatto che su quell’altopiano in cui è possibile superare con il pensiero ogni limite senza cadere nel vuoto non ci fosse più nessuno, neanche quell’unico uomo su cui ripose le più grandi speranze giacché, ad un certo punto, gli fu chiaro che le potenze che servivano erano inconciliabili e incomunicabili.
A distanza di anni possiamo dire che su quell’altopiano qualche figura luminosa e illustre è riuscita a salire. Tra queste possiamo annoverare senza alcun dubbio Jean Starobinski. Filosofo, saggista, storico delle idee, critico letterario scomparso recentemente all’età di novantotto anni, è riuscito con il suo metodo critico ad attualizzare nel suo lavoro di ricerca la sostanza stessa del pensiero e a farci capire che solo nell’immersione nella profondità è possibile percorrere le vie che conducono sugli altopiani del pensiero. L’accostamento con Karl Jaspers non è né casuale né meramente retorico. Starobinski condivideva con lui lo studio appassionato della psichiatria, in particolare l’accurata analisi del fenomeno psichico della malinconia, e l’idea della filosofia come ciò che rischiara le profondità nascoste della condizione umana, come strada maestra per attingere la perfezione del reale nella sua imprevedibilità. Il suo telos è quello di fornire un maggior numero di libertà, di fare della parola il centro pulsante di un desiderio che abbraccia, senza separarli, la meraviglia del corpo, dell’anima, del mondo.
Nato a Ginevra nel 1920, è stato uno di quei rari intellettuali che è riuscito a restituirci il senso unitario del sapere di fronte alla sua massima frammentazione e dispersione, a offrirci un vero e proprio metodo di indagine per affrontare le molteplici espressioni attraverso cui l’umano spicca il volo quando scopre nella propria coscienza l’esigenza assoluta di libertà e di responsabilità. Fine studioso del Settecento e dell’Illuminismo, di Rousseau e di Montaigne, di Montesquieu e di Stendhal, di Ferdinand de Saussure e di Freud, di Kafka e di Baudelaire, è riuscito a restituirci uno sguardo nuovo sul patrimonio culturale che abbiamo ereditato dal passato. Lo considerava come l’unica arma di cui possiamo disporre per difenderci dai meccanismi psichici che intrappolano e riducono la nostra soggettività e per fuoriuscire dalle derive di grande insensatezza che minacciano la radice civile e politica della convivenza umana. Le pagine magistrali che dedica a quel filo sottile e quasi impercettibile che separa la maschera dal vero volto dell’essere umano, l’arbitrarietà dell’apparenza dalla dura scorza del reale, hanno fatto di lui uno dei maggiori interpreti della contemporaneità. Senza mai abbandonare o denigrare la postura dello scienziato che indaga il reale a partire da un materiale naturalmente dato e di trasparente chiarezza, sapeva che esiste sempre un residuo che sfugge al sapere tecno-scientifico e al suo dominio.
Sporgendosi sul versante della filosofia, della psicanalisi, della letteratura e della poesia, e sapendosi inoltrare anche nei territori più impervi ed enigmatici dell’arte, Starobinski è riuscito a spingersi nel territorio più insondabile e più oscuro dei sentimenti umani e a restituirci il senso più vivo e prezioso della cultura che appare in tutta la sua evidenza quando riesce a sbrogliare anche le matasse più intricate. Lontano da qualunque tipo di assolutizzazione e di omologazione a modelli immaginari che non fanno altro che disincarnarci dal nostro essere, la dimensione spirituale e contemplativa, fatta di attenzione e di amore, ha rappresentato per lui un àncora di salvezza contro le molteplici strategie di mascheramento che il sociale impone e propone. Ha così segnalato lo svilimento e la riduzione che si produce quando la dimensione spirituale, incondizionata e libera da cui sorgono i valori più alti della nostra umanità e in cui brilla lo stato aurorale della nostra autenticità, viene messa a tacere e viene offuscata fino a soccombere da false e ingannevoli protezioni. L’essere umano e il mondo non sono macchine, non sono per nulla il luogo di una nostra assoluta padronanza. Di fronte alla visione meccanica delle cose e di noi stessi rischiamo sempre d’inciampare nella bellezza, nell’ulteriorità di qualcosa che dentro e fuori di noi ci colpisce per la sua cocciuta impertinenza. Un inciampo fortunato che ci apre all’imprevedibilità del reale. Ecco perché Starobinski non ha mai smesso di dirci che solo attraverso una modificazione del nostro sguardo, solo rendendo più acute le percezioni del corpo e della nostra mente, possiamo trasformare la radice della vita sociale e politica.
Riscoprire con sguardo nuovo la realtà è forse il compito più grande che ci ha lasciato in eredità. Un compito che non possiamo eludere e non possiamo mancare perché ne va di noi stessi e del futuro che ormai da troppo tempo abbiamo smesso di pensare con occhi lungimiranti. In quella sua capacità di tenere alta la critica senza mai cedere al disprezzo della parola e degli altri, lo possiamo pensare oggi vicino a un’altra grande intellettuale del secolo scorso, Jeanne Hersch. Non solo hanno condiviso l’origine, entrambi provenienti da famiglie polacche emigrate in svizzera all’inizio del Novecento, l’impegno nell’Università e nella loro amatissima Ginevra, ma li accomunava anche un tipo di caparbietà segnata dall’amore per la condizione umana nel suo rapporto alla libertà, alla giustizia, alla bellezza e alla verità.
Nella prefazione a un piccolo quanto prezioso libro di Jeanne Hersch, (La nascita di Eva. Saggi e racconti, interlinea edizioni, Novara 2000), Jean Starobinski ricordava che la parola è riconducile a un’inquietudine primordiale che porta a interrogarci sull’enigma della nostra esistenza. È questa materia enigmatica di cui siamo fatti a tracciare le coordinate dei nostri sconfinamenti che non ci fanno mai sprofondare nel nulla ma, anzi, ci consentono di avventurarci in percorsi inediti e creativi. Prossimità e separazione, esilio e assenza sono i termini che circoscrivono e sostengono ogni forma di espressività umana in un gioco di luci e di ombre, di sguardi e di silenzi. Perché chi vuole passare oltre – come scriveva in questa prefazione – deve affidarsi alla metafora, deve attendere quegli istanti di grazia in cui, sotto la nostra penna, si libera ciò che mette in luce la libertà dell’uomo.
Stefania Tarantino
*Stefania Tarantino è ricercatrice in filosofia e musicista. I suoi studi si concentrano soprattutto sulle filosofe del XX secolo e sulla problematizzazione della differenza sessuale all’interno della storia della filosofia e del pensiero politico occidentale. Fa parte del collettivo AdATeoriaFemminista, cura la sezione “teoria/partire da sé” del sito Madrigale per Lucia, fa parte della Società Italiana Karl Jaspers. Tra i suoi libri si segnalano: La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e María Zambrano (Milano 2008); Pensiero e giustizia in Simone Weil, (a cura di, Roma 2009); Esercizi di composizione per Angela Putino. Filosofia, differenza sessuale e politica (a cura di – con G. Borrello, Napoli 2010); Femminismo e neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà (a cura di – con T. Dini, Benevento 2014); άνευ µητρός/senza madre. L’anima perduta dell’Europa: Maria Zambrano e Simone Weil (Napoli 2014). Chiaroscuri della ragione. Kant e le filosofe del Novecento, Guida, Napoli 2018. Attualmente è docente a contratto in Filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Salerno.
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