Uno degli interessi più profondi di Giovanni è stato lo studio della Filosofia della Matematica, e, in particolare, delle forme di calcolo. In questo suo interesse era davvero isolato, ed originalissimo: il motivo è semplice, al centro di questa riflessione si collocava una personalissima ricostruzione dei problema strutturali dell’aritmetica, costruita su una meditazione che incrociava, con assoluta originalità, Wittgenstein, Husserl, Lorenzen,e il mondo straordinario delle etnomatematiche, che per lui dialogava con la geometria classica e al mondo delle figure frattali. Forse questo aspetto, assolutamente straordinario, è quello che è stato avvicinato meno, ed è un peccato.
Nel 1999, raccolse assieme il precipitato di un corso notevole sulla ripetizione, fatto nel 1997, che esordiva con una serie di lezioni su Eraclito, Kierkegaard, Eliade come pensatori della ripetizione, lezioni belle e spiazzanti,che non volle mai pubblicare, temo, perchè il mio primo libro, che prendeva le mosse da quella ricerca, era indebitatissimo con lo spirito e la lettera di quell’approccio. A me dispiacque, e dispiace ancora, perchè la lezione su l’iteratività in Eraclito era davvero bellissima. Conoscendo la generosità Giovanni, credo che abbia deciso di non impegnarmi in un confronto: spero saltino fuori ma, conoscendolo nella sua radicalità, non escludo le abbia distrutte.
Numero e figura è, naturalmente, un libro bellissimo, basato sulla finzione costruttiva del numero, e sul senso della sua posizione, all’interno dei procedimenti di calcolo. L’oggetto polemico era l’immagine ingenua, e certamente debole, del metodo dei tanti – quanti, utilizzato spesso come via d’accesso all’insiemistica: ad essa Giovanni contrapponeva una vera e propria storia dell’immaginazione matematica, dai sistemi di calcolo dei Papua alle macchine di calcolo studiate da Ifrah, in cui diventava essenziale la posizione che il numero assumeva in un procedimento di calcolo. Per comprendere con un esempio intuitivo cosa intendesse per posizione, si pensi a quei sistemi di calcolo primitivi, dove al numero corrisponde inesorabilmente una parte del corpo, una falange del dito, ad esempio. Già in questo sistema, la visione anodina del tanti quanti, della pietra e della pecora, ad esempio, veniva superata con una articolazione più precisa, e meglio definita. Naturalmente, il vero passaggio era l’uscita dai numeri corporei verso la funzione iterativa e concettuale della ripetizione, nell’uso delle basi. Di questo aspetto parla il prezioso monogramma della copertina, che vede accostate la ripetizione dell’azione, come inizio di ogni forma di calcolo: azione + ripetizione = calcolo.
Il libro fu sostanzialmente ignorato. La cosa si commenta da sola: ne offro solo qualche passaggio, estremamente contratto. Paola Basso potrebbe parlarne con maggior competenza della mia: posso solo dire che scoprire la matematica e la geometria con i metodi pensati da Giovanni rendeva tutto incredibilmente divertente e chiaro, come sempre. A me aveva regalato un metodo di disegno geometrico con cui, talvolta, giochicchio ancora. Il tema venne ripreso qualche anno in una lettera con Luis Alberto Molina Rojas.
Ne prendo due passi, introduttivi, ma da cui emerge chiaramente il senso della ricerca:
Numero e figura1
Ad esempio: se si chiede «Che cosa è il numero?» si risponderà non già dicendo o tentando di dire la cosa, ma indicando un insieme di condizioni (gli «assiomi» appunto in quanto «assunzioni», e non in quanto «evidenze») che la cosa deve soddisfare per essere chiamata numero. L’ente resta «concettualmente» indeterminato – mentre esattamente determinate sono le condizioni del suo comportamento. «Concettualmente» significa qui «psicologicamente», «mentalmente», o qualcosa di analogo. Infatti anche la terminologia del concetto diventa decrepita. A quanto sembra non sappiamo più attribuire a quel termine altro senso che quello di «contenuto mentale» – e allora dei concetti se ne occupi lo psicologo, se ritiene di doverlo fare; oppure l’antropologo se è interessato alle pratiche con i numeri, alle usanze aritmetiche di questa o quella tribù.
La definizione implicita ci consente da subito di navigare nelle acque alte del pensiero astratto, non ci obbliga a fare i conti con il vero e con il falso, distingue nettamente tra costru-zione teorica e applicazione, non ci impegna né sulla natura del concetto né su quella della realtà. Essa dunque ci libera da molti problemi, ed ha molti vantaggi.
Eppure basta un nonnulla – una sua ripresa senza che sia accompagnata da una necessaria riflessione critica, una stanca ripetizione da manuale, il presentare le cose come se si trattasse di una straordinaria scoperta piuttosto che di una possibilità interessante – perché essa, considerata dal punto di vista epistemologico, non sia altro che un modo di soprassedere, di alzare le spalle, di «dimenticare»: una vera e propria dissennata apologia della cecità. La quale è peraltro molto spesso – e per fortuna – una finzione ad uso dei profani. Ciò che si dice di non pensare più, lo si è già pensato prima. Questo pensiero anteriore, che precede gli scarabocchi dei simbolismi, viene chiamato in causa dalle nostre considerazioni precedenti e dai dubbi in esse formulati: una riflessione filosofica epistemologicamente orientata può avere il senso di una pausa nel cammino sempre avanti su quel vertiginoso sentiero, una sorta di temporaneo ritorno a terra dal mare alto, sulla spiaggia, dove potremo in piena tranquillità, forse giocherellando con i sassolini tra i nostri piedi, tentare di mettere un poco di ordine nei nostri pensieri.
C’è il contare se c’è la serie dei numeri nel senso proprio del termine – ed allora contare significa essenzialmente, come è stato spesso notato, stabilire una correlazione tra la molteplicità da contare e la serie aritmetica.
Questa osservazione va tuttavia accompagnata dalla consapevolezza che la formazione di una serie aritmetica, e quindi il concetto di numero, concresce all’interno della crescita stessa del problema del contare. Ma questa precisazione non basta ancora: il parlare di una correlazione tra la molteplicità da contare e la serie aritmetica può indurre nell’equivoco di intendere il contare come un’applicazione del metodo del tanti-quanti che si ripresenterebbe dopo la costituzione della serie. In tal caso il procedimento del contare viene frainteso in ciò che esso ha di più caratteristico, e cioè nel riferimento alla serie numerica come rappresentativa della forma della concatenazione.
Numero e Figura 2
La proposizione fondamentale della filosofia del numero potrebbe essere: i numeri non si possono mettere in disordine.
Ciò ha naturalmente strettamente a che vedere con un preciso modo di intendere il processo del contare. Nel contare non si gioca a tombola. Non vi è da un lato un sacchetto di sassolini e dall’altro un sacchetto di numeri; i numeri con cui si conta non vengono estratti a sorte, come potrebbe accadere per un qualunque insieme-modello. Dunque nel contare non vi è nessun metodo del tanti-quanti. Il contare è interamente determinato dalla presenza dell’ordine e precisamente da un ordine che ha la forma della concatenazione, anche se questa presenza si consuma all’interno del processo stesso.
Non solo i numeri debbono essere «presi» nell’ordine che spetta loro, ma questa circostanza fa sì che alla molteplicità da contare sia prestato un ordine provvisorio, che è il percorso tracciato dallo stesso processo del contare, nel quale ogni elemento della molteplicità dovrà mantenere provvisoriamente quel posto che il contare gli ha assegnato almeno fino al termine del conteggio. Si conta appunto dal primo elemento all’ultimo.
Giovanni è uno dei miei amici per sempre coi quali, vivi o morti, sono in perpetuo colloquio.
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L’articolo di Serra è da conservare.
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