Ero anch’io sulla Grande Place di Bruxelles…
C’ero anch’io sulla Grande Place di Bruxelles con i settantamila “che protestavano contro l’indifferenza della politica sul cambiamento climatico. Venivano da tutto il Belgio e anche dall’estero. Se ne fottevano dei confini e delle miserabili compartimentazioni etniche dei loro padri, divisi tra fiamminghi e francofoni”. Forse c’eravamo tutti noi. Ma Paolo Rumiz nel pezzo mirabile apparso il 16 febbraio su “Robinson” di “Repubblica”, e che riprendiamo qui sotto, parla in primo luogo ai bambini. Ricomincia da lì, come noi tentiamo di ricominciare con i ragazzi delle scuole a snocciolare l’alfabeto, il lessico, il Canone d’Europa.
Paolo Rumiz ha scardinato i confini d’Europa, perché cercava “una narrazione nuova, capace di riaccendere nei grandi la fiamma di un patriottismo europeo”. Noi, tutti noi, cerchiamo un pensiero nuovo, capace di riaccendere l’amore intellettuale per questa idea, la migliore che il Novecento abbia prodotto, di una patria che ha radici di carta e pensiero, e per questo rinuncia alle radici di sangue e di terra – ma non ai colori, ai sapori, ai venti, alle città, al fuoco vivo di ogni sua lingua.
Sarà anche vero, come è stato scritto, che l’uomo è un dio quando canta (o racconta), e un miserabile quando pensa. Eppure di pensiero nuovo sopra questa patria che sta sopra le nazioni e rimanda a una “federazione mondiale di repubbliche” (Kant) abbiamo bisogno come del pane, oggi. Per questo con il pezzo di Rumiz vogliamo inaugurare una serie di contributi che speriamo vengano ad alimentare questo pensiero – e un po’ di speranza – almeno fino alle prossime elezioni europee.
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