Il nostro Lab ha condiviso l’appello di Massimo Cacciari e altri, perché nei cittadini che voteranno alle elezioni europee nella prossima primavera si risvegli la coscienza del dramma che sarebbe il suicidio dell’Unione Europea, o delle ridicole illusioni che nutrono il sovranismo e la sua sovrana ignoranza delle interdipendenze globali, della storia, dell’economia, della politica internazionale e in ultima analisi degli stessi ideali di civiltà che hanno nutrito la speranza di costruire gradualmente l’imperio della legge là dove vigeva e continua a vigere l’arbitrio della forza, l’irrazionalità dei nazionalismi, la precarietà degli equilibri di potenza, insomma la selva geopolitica.
I due ultimi interventi di Stefano Cardini in un certo modo rispondono a questo appello nella maniera più utile, ricostruendo la nostra labile memoria dei decenni passati, per offrire una prospettiva di lettura di più vasto respiro anche prospettico, e non appiattita sull’immediato e sulle propagande, anche all’affaire Diciotti da un lato e dall’altro alla tragedia del ponte di Genova crollato per l’ignobile ma endemica rinuncia dello Stato, cioè delle sue incarnazioni di governo e dei loro singoli e unanimi rappresentanti, a esercitare il controllo sull’operato dei concessionari e a rimettere in palio le concessioni. Rinuncia enormemente aggravata dal suo occultamento, durato fino all’ultimo minuto possibile. Che se da un lato rende grotteschi i generici appelli alla statalizzazione a prescindere (come se per miracolo gli stessi uomini che dello Stato hanno fatto l’organismo preposto a occultare le loro inadempienze o peggio, vedi l’implicazione della Lega nelle peggiori opacità nella gestione delle Autostrade del Nord Est, potessero diventare gli incliti paladini dell’interesse pubblico), dall’altro ci ricorda la profondità della tesi di Norberto Bobbio che la democrazia è il regime del potere visibile, e che proprio in questo aspetto si concentrano le peggiori inadempienze della nostra. Da sempre.
Il filo che, nell’analisi di Cardini (clicca qui per leggerla), lega la sciagurata e velleitaria campagna anti-europea del Ministro dell’Interno (e del suo coadiuvante Ministro del Lavoro, con le sue spacconate per non onorare gli impegni e liberarsi da regole e patti europei) e la tragedia dell’Italia che casca a pezzi nelle infrastrutture, che frana nelle sue cementificate pendici, che stringe penosamente la cinghia ai sistemi sanitario e scolastico, sembra essere l’angosciosa domanda sugli errori di una Sinistra che si avventa contro la partitocrazia della Prima Repubblica e si avvinghia ai temi della modernizzazione e della speranza europea – speranza anche etica, basata sull’ammirazione per il senso delle istituzioni e della legge, l’efficienza e il rispetto dei pubblici servizi, che l’aggancio all’Unione Europea pareva dovesse gradualmente insegnarci – senza però curarsi più di difendere i diritti del lavoro, o il radicamento nei ceti produttivi più deboli, o un’alternativa all’evoluzione in senso esclusivamente liberal (diritti civili, superamento della concezione antagonistica del rapporto fra imprese e lavoratori…) del pensiero politico progressista.
È proprio in questa direzione, l’aspirazione a una modernizzazione non controbilanciata dalla difesa (anche con le armi del vecchio sindacalismo) delle classi più deboli, che mi sembra Cardini veda l’errore fondamentale della Sinistra (posso sbagliarmi, per il carattere problematico e sfumato della sua riflessione). Eppure qui c’è un grande problema. Perché non è che si possa dismettere un linguaggio, un sistema di pensiero, ma solo un po’ e non del tutto. O modernizzazione vuole dire tendenza alla liberazione della vita economica, civile, culturale e politica delle persone dall’enorme zavorra dei parassitismi, clientelismi, corporativismi (che inquinano almeno dall’epoca fascista, mai veramente sradicati, il rapporto fra lo Stato e la società civile), da un lato, e dall’altro lato dalle rigidità ideologiche del pensiero storicista e classista (che poi avallano le pratiche più opache ed estranee alla competizione politica, al confronto assiologico, alla cooperazione economica nelle forme democratiche – esempio: la “concertazione” che ancora Susanna Camusso amaramente rimpiange); e allora tutto la Sinistra dovrebbe fare tranne che rimpiangere il linguaggio storicista e classista; oppure modernizzazione vuol dire tutt’altro (ad esempio ciò che ne pensa il radicalismo no-global, che Cardini evoca non si capisce bene se come via possibile) – e allora tanto varrebbe demonizzare “l’Europa” (senza neppure distinguere fra Parlamento-Commissione, che si sono pronunciati in senso favorevole alla ripartizione equa dei migranti e a un accrescimento della responsabilità comune, e Consiglio, che rappresenta solo il mutismo dei contrapposti egoismi nazionali), e poi di seguito il senso delle istituzioni e della legge, il rispetto della cosa pubblica, della certezza del diritto, della separazione dei poteri, e infine i valori fondanti della Carta di Lisbona che configurano un liberal-socialismo di welfare e pari opportunità, e puntano alla sua realizzazione attraverso la crescita sovranazionale degli orizzonti materiali e spirituali dei cittadini europei, e la liberazione di potenzialità e ricchezza che le ormai ridicole dimensioni delle amministrazioni nazionali (e dei loro inveterati conflitti locali di interesse, vedi ponte di Genova coi controllati segretamente promossi a controllori, non certo da Bruxelles) soffocano e comprimono.
A proposito di memoria, allora, sarà utile studiare come un analogo dilemma, mutatis mutandis, si pose già fin dagli anni del fascismo fra le file degli antifascisti italiani: e come il sentimento che fosse necessaria una vera e propria rivoluzione intellettuale e morale -rispetto al background storicistico delle sinistre classiche – perché la Sinistra non ricadesse, dopo la Liberazione, vittima delle vecchie prigioni mentali, portarono gli Spinelli, ma anche gli Olivetti, i Silone, i Chiaromonte e altri a distaccarsi perfino dalle elaborazioni di Giustizia e Libertà, oltre che dai tradizionali partiti comunista e socialista. La loro avventura isolata restò incompiuta, e la loro lontananza sottrasse spirito e lievito tanto ai partiti tradizionali della Sinistra quanto al partito della modernizzazione e della ragion pratica, sciogliendo la breve, lucente stagione del Partito d’Azione nel vigoroso ma in fondo infinitamente meno ambizioso progetto modernizzatore di Ugo La Malfa, degli economisti illuministi della Comit e del Partito Repubblicano.
Ma noi come possiamo raccogliere l’eredità di quei più arditi dissenzienti di allora, e portarla a miglior compimento, oggi? Forse anche a questo ci chiamava l’appello di Cacciari e degli altri, ormai molti – anche ad approfondire quell’eredità e quell’avventura di pensiero ancora incompiuta, e tanto sottovalutata. A proposito di Spinelli… Ho provato a esprimere, in un articolo uscito l’altro ieri sul Il Fatto quotidiano (clicca qui per leggerlo), alcune tesi sull’incompresa radicalità della sua filosofia della civiltà: ma, anche in risposta all’appello di Cacciari, ogni riflessione in proposito da parte di tutti gli amici e colleghi della nostra piccola comunità sarà benvenuto!
La sinistra è in crisi per tante ragioni, ma certo non per colpa del pensiero “storicistico”. Lo storicismo è la coscienza del passato per progettare il futuro, e non ha niente a che vedere con il “classismo”; poi uno può avere più simpatia per lo storicismo “moderato” (come lo definiva Gramsci) di Croce, lo storicismo della libertà, o per lo storicismo di Gramsci, quello della giustizia; è l’eterna lotta fra chi possiede di più e dà la preminenza alla libertà e chi ha meno e vuole soprattutto più giustizia; ma erano storicisti sia Croce che Gramsci, due grandissimi pensatori che purtroppo sono stati dimenticati anche in Italia (nei licei e nelle università si preferisce far studiare le farneticazioni mistiche di Heidegger, che non hanno nulla da dire ai giovani e alla politica). Lo storicismo vero andrebbe riscoperto e fatto studiare, per stimolare la coscienza civile.