Nonostante le comprensibili dichiarazioni contrarie dell’Opposizione, è chiaro come lo scontro sulla Diciotti abbia, da un lato, rafforzato il consenso maggioritario al Governo, dall’altro radicalizzato il dissenso minoritario nei suoi confronti.
Il racconto è semplice. Un accordo equivoco tra i membri del Consiglio d’Europa, sottoscritto a luglio con il solo scopo di poter dire ciascuno di aver vinto o quanto meno non perso, si rivela alla prima prova come tale. L’Italia condotta dal suo governo a esporre il Paese al paradosso di impedire lo sbarco su territorio italiano di 177 profughi salvati da una nave della Guardia Costiera italiana, quindi in territorio italiano, per gli accertamenti di Legge. In prima linea, un Ministro degli Interni, esorbitante via Facebook dalle proprie competenze e dall’ordinamento. A tutto ciò, un’Opposizione che risponde invocando ragioni umanitarie e, in subordine, il rispetto della Legalità, cui dà sostanza l’intervento della Magistratura. Infine, la Conferenza Episcopale Italiana e due Stati extraeuropei, tolgono le castagne dal fuoco al Governo, che ora può vantare di non essere venuto meno alle ragioni umanitarie, ma di avere dimostrato che l’Europa politicamente non esiste e dunque è legittimo decidere da sè, anche oltre il perimetro dei vincoli di lealtà europei. È quanto basta al Ministro degli Interni per dire di aver vinto. La sua egemonia sull’area politica di centrodestra, a discapito della leadership agonizzante di Silvio Berlusconi, ne esce infatti rafforzata. Il logoramento politico del M5S, la cui ambiguità ideologica è evidente, pure.
Per quanto possa apparire ridicolo, la Diciotti è così diventata “la Sigonella” di Matteo Salvini. E il procedimento legale nei suoi confronti, pur legittimo, ne farà leggenda, ancor più se verrà condannato.
La domanda che con umiltà e onestà intellettuale, allora, dovrebbe porsi chi ha cuore di contrastare la linea politica di questo Governo, è dove stia sbagliando. E quali siano i punti di debolezza di questa maggioranza che realmente andrebbero aggrediti.
Il primo errore e più grave, io credo, sia quello di inseguire le dichiarazioni e gli atti del Governo giorno per giorno, colpo su colpo, senza cercare di offrire all’affaire Diciotti, come alla tragedia del ponte Morandi o ad altri avvenimenti, una lettura di più lungo periodo. Schiacciati sull’oggi, allora, non si coglie la dimensione profonda di quello che sta accadendo, che ha le sue radici nella crisi istituzionale iniziata dopo il 1989 nel settennato del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga (1985-1992), gli anni in cui un certo equilibrio politico, incardinato sull’alleanza tra Dc e Psi, e un’opposizione comunista in cerca di nuova legittimazione ideologica, viene rapidamente meno.
Furono gli anni degli scontri politici e istituzionali attorno all’operato dei pool di magistrati di Palermo (Maxiprocesso) e Milano (Mani Pulite). Ma anche gli anni in cui inizia lo spettacolo televisivo della politica e della giustizia: dal Processo in Pretura ai programmi tra entertainment, talk show e inchiesta giornalistica di Franco Funari, Michele Santoro, Maurizio Costanzo, Gad Lerner. Il berlusconiano Tv Sorrisi e canzoni, allora letto da parecchi milioni di persone, allegò l’adesivo con sopra la scritta “Forza Di Pietro!”. Tra il Cavaliere e la Procura di Milano era ancora luna di miele.
Si trattò del momento germinale della progressiva mediatizzazione della politica, il cui culmine fu rappresentato dall’esposizione alla gogna televisiva dei politici, da Forlani, a Craxi, a Bossi, sotto processo per la maxitangente Enimont. Il lancio delle monetine a Bettino Craxi, in fuga dall’Hotel Raphael dopo essere stato raggiunto da avviso di garanzia, venne vissuto come la rivincita del “popolo” sulla politica di malaffare. Ma quelle monetine, come si ricorderà, erano trasversali agli orientamenti politici di destra e sinistra. Coinvolgevano le basi elettorali di Pci e Msi, ma si estendevano già oltre, verso la Rete, a sinistra, e la Lega Nord, a destra. Dopo le picconate dall’alto del Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, era la prima spallata dal basso antisistema, alimentata in modo pressochè unanime dai media ed esasperata fino all’antiparlamentarismo nella misura in cui divenne adesione motivata, ma anche totalmente acritica, all’operato dei magistrati sul ricorso alla custodia cautelare e sull’opposizione all’immunità parlamentare.
Difficile negare l’analogia tra quelle monetine e quelle che ora vengono idealmente lanciate da destra e da sinistra contro i protagonisti, in diversa misura, dell’ultimo quarto di secolo di politica italiana. A farne le spese, in modo solamente in apparenza paradossale, e ad onta del ruolo di governo non certo politicamente e moralmente impeccabile che il partito di Salvini ha avuto negli ultimi vent’anni, è soprattutto il centrosinistra, che pure, anche soltanto per ragioni aritmetiche, porterebbe responsabilità inferiori rispetto al fronte opposto.
La ragione, da un lato, è che nel Pd, dopo vent’anni di propaganda berlusconiana via via “anticomunista”, “antisistema”, “antieuropea”, si continua a rappresentare in una parte cospicua dell’elettorato, condensata e dissimulata, quella Prima Repubblica che negli anni 1989-1994 collassò, o sembrò collassare, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie. E questo nonostante la guerra guerreggiata ingaggiata per anni e anni dal centrodestra con le Procure. Si tratta di un’attribuzione di responsabilità, discutibile ma irresistibile, che si è nutrita di una molteplicità di sentimenti: il rancore dell’elettorato di destra per il minor prezzo politico che il Pci-Pds pagò per Mani Pulite, rancore rafforzato dalla maturata convinzione che la sinistra fosse il mandante politico delle Procure (Toghe Rosse); il fatto che, diversamente dal Berlusconi, i leader e il personale di Ulivo, Margherita e Ds, partiti fondatori del Pd, provenissero comunque dalle famiglie politiche cattolica e comunista protagoniste della Prima Repubblica: l’epiteto “cattocomunista”, risibile per chiunque abbia cognizione storica del ruolo ultraminoritario giocato dai cattocomunisti all’interno della sinistra italiana, divenne così l’aggettivo per squalificare d’un colpo quelle due tradizioni, ritenute soltanto in apparenza rivali, ma in realtà “complici” della corruzione italiana.
Non si tratta soltanto di questo, però. Parte non piccola di questo elettorato, certo quella che nel M5S e altrove si definirebbe di sinistra o non di destra, vive quella continuità diversamente, ovvero, nel senso di un consumato e irrimediabile tradimento degli ideali di giustizia e delle speranze di rinnovamento che proprio allora, e nei vent’anni successivi, la videro schierarsi sì, senza esitazioni, contro Berlusconi e i suoi governi, abbandonando però, subito dopo gli accordi sindacali anti-inflattivi del luglio del 1993, con gli aspetti pià compromissori della concertazione, il terreno dei diritti del lavoro, il radicamento nei ceti produttivi più deboli, per trasformarsi in un partito sempre più leggero, d’opinione, liberal e anglosassone, alla ricerca sempre più disperata di un leader da opporre al carisma dell’imprenditore televisivo multimiliardario. L’opposizione al centrodestra, allora, si sintonizzò sempre di più dalla parte della Magistratura, della salvaguardia formale della Costituzione, della lealtà con i partner dell’Unione Europea. Ma sotto questa superficie unanimistica il tessuto ideologico si lacerava sempre di più. Si combatte Berlusconi, ma non si elabora una visione e una strategia politica davvero contrapposta sul piano economico e sociale. Si coltiva o comunque si simpatizza, più o meno con convinzione, con l’immaginario di “Un altro mondo è possibile”. Ma quando, nella seconda metà degli anni 90, si sviluppa un movimento no global maggioritariamente di sinistra, il contrasto con la propria strategia di alleggerimento ideologico viene superficialmente e sbrigativamente risolta nella direzione di un retorico “riformismo europeista” la cui stella polare è esclusivamente l’abbattimento del debito pubblico attraverso il passaggio, accelerato e discutibilmente gestito, da uno Stato gestore a uno Stato presunto regolatore del mercato, confidente nel fatto che il mondo del lavoro dipendente, privato e pubblico, avrebbe visto compensata o più compensata dall’efficienza economica quanto perdeva in termini di potere contrattuale per il propagarsi di forme via via più flessibili di lavoro, legislativamente promosso o non ostacolato a partire dal 1994.
Nacque di lì anche la sempre più difficile intesa con le forze sindacali alle quali, d’altronde, al di là dei demeriti, dei ritardi e dei limiti corporativi, il diffondersi del lavoro flessibile, legale e illegale, toglieva letteralmente di sotto i piedi la possibilità di esercitare ancora un’efficace azione collettiva, via via circoscritta ad ambiti sempre più angusti, con il risultato di portare nel senso comune il Sindacato a essere identificato, nelle aziende, non come un contropotere, ma come un potere collaterale, se non connivente, a quello delle imprese; nel Paese, a un apparato capace ormai e a stento di difendere gli interessi, nella migliore dell ipotesi, di quanti erano entrati nel mondo del lavoro, grosso modo, prima dell’avvento dell’Euro (1999). Si perdeva così terreno, politicamente, sia con il mondo dei nuovi lavoratori sia con quello dei pensionati, o pensionandi, dato che la scelta “responsabile” di appoggiare il governo di Mario Monti, avrebbe finito con identificare, nel senso comune, l’ex Rettore della Bocconi con la “sinistra”. Il che suona tragicamente ironico.
La consapevolezza di queste contraddizioni, tuttavia, veniva oscurata. Dall’unanime lotta, sempre più mediatizzata, in testa Repubblica e in seguito Il Fatto quotidiano, contro Berlusconi, il suo conflitto d’interessi, i suoi tentativi di riforma istituzionale in senso antiparlamentare, la sua personale adeguatezza come leader politico: istituzionale, politica, soprattutto morale. Ma anche dalla centralità via via assunta dal tema, liberal per eccellenza, dei diritti civili, dall’eutanasia alle unioni civili, alle questioni di genere, sotto il cui ombrello tutti a sinistra potevano più o meno ritrovarsi. Si trattava, d’altronde, di temi interclassisti per definizione, capaci se non altro di mobilitare piazze d’opinione, o meglio, piazze metropolitane, perché già lontano da quelle la sensibilità del Paese era diversa, più indifferente che schierata. Il transitorio successo di Matteo Renzi, la sua scalata in “infradito” del Pd, come la definì Carlo De Benedetti, godette da un lato dell’astio maturato, fuori ma anche dentro il partito, per la nomenclatura erede di quella “comunista”, per usare l’epiteto berlusconiano. Ma anche, seppur minoritariamente, della frustrazione dettata dall’impressione che la lotta a Berlusconi avesse sostanzialmente oscurato ogni altra questione politica, impedito l’ascolto e la riflessione sugli impegni disattesi con il proprio elettorato nell’ultimo quarto di secolo: su quanto si fosse davvero realizzato.
La cosa non fu compresa o comunque accolta dal nuovo leader, le cui ambizioni “riformatrici” andarono esattamente in direzione contraria, riproponendo con ancor maggior vigore a un Paese sempre più bisognoso di protezione esattamente la stessa retorica “modernizzatrice” in cui la sua non lunga esperienza politica e amministrativa si era realizzata, e non senza farsi erede, sul piano della comunicazione, dello storico avversario, segnatamente sul terreno a Berlusconi generazionalmente estraneo dei nuovi media. Comunicare in prima persona ogni giorno, comunicare imprese straordinarie, apparire ovunque, sempre ottimisti, sorridenti, spavaldi, spregiudicati. Soprattutto, non guardare mai indietro, ma sempre avanti, avanti, avanti. Per qualche tempo potè sembrare una tattica astuta: battere il nemico con le sue stesse armi. Con il tempo è risultata la sola sostanza. Lo avrebbe dimostrato il clamoroso e gratuito passo falso della Grande Riforma Costituzionale, tutt’altro che un incidente. Semmai, l’inevitabile vicolo cieco di una visione priva di orientamento storico, precocemente euforizzata dal proprio successo, insensibile al compito paziente di coltivare il consenso dentro il partito, incapace di farlo negli strati sociali materialmente e spiritualmente più colpiti dalla crisi nonché di commisurare gli obiettivi alle proprie forze. Preda del momento, perché priva di cognizione storica delle circostanze in buona parte occasionali che ne hanno favorito il successo.
Va compreso, allora, che l’avvento al potere di questa grosse Koalition “populista”, se è una minaccia lo è anzitutto in forza della crisi di una prospettiva “riformista” via via formalizzatasi a sinistra come “senza alternative” maturata negli anni 80 e messa in pratica a partire dai 90, prospettiva che l’anti-berlusconismo ha contribuito, nonostante le sue ragioni, a oscurare. Inseguire giorno per giorno il Governo sui temi dell’immigrazione, assecondando in questo modo le sue strategie diversive dalle difficoltà effettive nel realizzare le promesse elettorali, rischia così di essere solamente controproducente in assenza di un parallelo percorso di autocritica. La sindrome dell’Antiberlusconismo, che per un attimo Matteo Renzi era sembrato abbandonare, si è trasformata ora anche e soprattutto a opera dello stesso in sindrome dell’Antisalvinismo. Producendo gli stessi pessimi risultati.
Un piccolo esempio può aiutare a comprendere meglio. Colpisce la sproporzione tra il contributo effettivo del cosiddetto Decreto Dignità del Governo nell’affrontare il problema del precariato e dei bassi salari e il favore con il quale è stato accolto da larghi strati della popolazione. Sia il ripristino della causale nei contratti a termine, sia la riduzione da tre anni a due della loro durata, sia l’aumento del risarcimento del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, al di là dei giudizi di merito, sono provvedimenti che non affrontano in modo minimamente sistematico questi due gravissimi problemi. Senza una strategia, infatti, che restituisca ai lavoratori l’opportunità di un’efficace azione collettiva da contrapporre alle imprese, unita alla capacità capillare dello Stato di tutelare la legalità dei rapporti di lavoro, il precariato continuerà infatti a crescere e i salari a scendere. I provvedimenti del Governo, tuttavia, sono stati segnali al “popolo” astutamente inequivocabili, la cui drammatizzazione da parte dell’Opposizione, oltre che delle imprese, ha contribuito a rafforzarne il consenso proprio nei ceti sociali cui la sinistra dovrebbe guardare, disinnescando anche l’opposizione del Sindacato al Governo. Questo dovrebbe fare riflettere. Bastava davvero così poco per tornare a parlare a quell’elettorato? Perché non è stato fatto prima? Davvero era in gioco l’occupazione e la crescita italiana con provvedimenti a tutela dei lavoratori del genere? La questione è di sostenibilità economica oppure ideologica? Di questo dovrebbero parlare le forze di sinistra di un Paese. L’incapacità, invece, di fare qualcosa di diverso che rivendicare il proprio operato o esorcizzare il Governo in nome dell’antifascismo più retorico o dei Diritti dell’Uomo, purtroppo è un cappio che da sole si stringono al collo.
Non basta fischiare dalla Platea l’Opera che eccita il Loggione. La politica è un’altra cosa.
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