Volentieri riprendiamo questa riflessione di Roberta De Monticelli su un articolo di Nadia Urbinati.
E’ il conformismo che ci azzoppa
(“Il Fatto quotidiano” 19-07-2017)
L’articolo di Nadia Urbinati su Il presente che nutre il fascismo (la Repubblica, 12 luglio 2017) suscita – in chi scrive, almeno – ammirazione e perplessità. Ammirazione per lo sforzo di rendere razionale un pensiero dialettico, che procede per opposizioni – ma, grazie all’autrice, non per “contraddizioni”, come nell’assurdo linguaggio hegeliano praticato ancora da alcune icone, giovani o antiche, della cosiddetta sinistra italiana. E per le molte cose che riesce a dirci, nella sua attenzione tesa a parlare del presente, tenendo insieme gli opposti di una “vittoriosa” cultura dei diritti individuali e di un’esigenza di comunità e di solidarietà, oggi non più soddisfatta da quegli organismi di partecipazione effettiva alla vita politica ed economica che sono i partiti e i sindacati. Le risposte di un comunitarismo nazionalistico, xenofobo, populistico sono risposte sbagliate a questa cultura dei diritti individuali incapace “di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza”. E come non essere d’accordo con il richiamo ai “nostri padri fondatori più lungimiranti, i liberalsocialisti, [che] erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale”.
E la perplessità? Ecco. Ma è vero che “un diritto è un abito di solitudine – definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società”? Per brillante che sia la definizione, io non credo che sia giusta, e molte delle ragioni che ho per non ritenerla giusta mi vengono dai libri di Nadia Urbinati e di altri esponenti dell’idea di democrazia deliberativa. Voglio prendere ad esempio i primi fra i diritti individuali, quelli per cui si combattuto fin dalla prima modernità. La libertà di parola. O più in generale di espressione, anche religiosa. Perché la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789) contiene l’osservazione che “la libera comunicazione delle idee e delle opinioni è uno dei più preziosi fra i diritti dell’uomo”? L’”età dei diritti” si confronta a più riprese con questa convinzione. Il famoso discorso di F. D. Roosvelt (1941) sulle quattro libertà la ribadisce per le prime due. E’ come se una società democratica e liberale avesse le sue radici più profonde nelle menti degli uomini liberi, o liberati dagli effetti devastanti che l’assenza di queste due libertà produce sulle persone stesse. Definire un diritto individuale “un abito di solitudine” trascura completamente l’essenziale di questi due diritti, che è invece la libera comunicazione e conversazione e anche pubblica discussione nella quale soltanto vivono le ragioni di una democrazia – e questo proprio Nadia Urbinati ce lo ricorda in molti suoi libri. Ma oltre alle ragioni della democrazia ci sono anche quelle delle persone. La dignità di una vita personale è nella sua capacità di ricerca e confronto. Ricerca del vero, e del giusto, anche sul pane e sul vino e la casa. (Ha torto Bertolt Brecht. Non è vero che “prima la pancia e poi vien la virtù). Che si possa incanaglire senza questa dignità, è la grande lezione del pensiero umanistico dei secoli, ma è soprattutto la concreta lezione di alcuni classici che hanno studiato questi effetti devastanti che l’assenza delle libertà espressive ha sulle persone: Czeslav Milosz, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Tzvetan Todorov, Hannah Arendt, Vassilij Grossman, Primo Levi.
Clicca qui per scaricare il pdf dell’intero articolo
A proposito di conformismo
Un diritto è un abito di solitudine? Lo è a condizione che l’esercizio di quel diritto venga meschinamente fruito, vissuto all’interno di una nicchia precauzionale, che tenga fuori ogni possibile richiesta di aiuto. E’, ancora una volta, la logica delle formiche che rifiutano alla cicala un po’ del loro grano. Ciò che si è fatta cultura dominante. Non a caso oltre il 60% degli adulti che agiscono nel lavoro formativo condivide l’atteggiamento delle formiche. Le cose non vanno meglio nell’altro versante, diciamo così democraticistico, se teniamo conto che il 30% finisce per condividere l’atteggiamento dispersivo della Cicala. Paradossalmente, il Paese regge nelle sue perorazioni morali grazie a quell restante 10% che si interroga problematicamente
Dei dilemmi implicati in questa favola abbiamo già parlato in passato. Ma bisognerà ritornarci, come bisognerà decidersi a una grande ripresa delle discussioni su tali temi. Rousseau nell’Emilio denuncia la viltà disumana del vivere esclusivo del diritto delle formiche, che –beninteso- nessuno vuole mettere in discussione. Ma solo discutere. Nel senso che nei processi formativi bisogna mettere a confronto le possibili opzioni, comprese le possibili alternative che solitamente non sono previste, ma che i ragazzi delle nostre scuole, se sollecitati correttamente, sono in grado di costruire nell’autonomia di giudizio.
Solo che tali stimoli non sono dati. Si pretende di trasmettere la morale insita nei testi dicendola invece di lasciarla emergere dal testo e dai confronti interpretativi. In tal modo si costruisce non l’uomo che ricerca e che esplora significati, ma soggetti replicanti morali bell’e costruite, che originano quel conformismo che ci azzoppa, come dice Roberta De Monticelli con altre splendite evidenziazioni. Si è vero, la dignità di una vita personale è nella sua capacità di ricerca e confronto. Ma occorre garantire i luoghi e le forme delle vitali libertà espressive. L’assenza delle libertà espressive rischia di incanaglire, di atrofizzare la vita interiore delle persone
Il pensiero umanistico può risolvere?
Può risolvere a condizione che la meravigliosa cultura dell’Umanesimo venga comunicata, fatta conoscere, come tutta l’altra cultura, secondo la metodologia –che ora chiameremmo ispirta all’enattivismo di Francisco Varela- ma che usò già Abelardo (Abelardo P.(1950), Epistolario, Torino, Einaudi, pp. 8-9 ) quandò sfidò i suoi colleghi di studio a interpretare un testo impegnativo ex novo, senza usare glosse e senza avvalersi di precedenti interpretazioni. Confronti che possono avvenire successivamente, che devono avvenire solo successivamente, se non si vuole spegnere il potenziale creativo personale e se si vuole allentare il potere invisibile e schiacciante della pressione collettiva sulla coscienza personale, come dice Roberta De Monticelli.
Il presente con il suo dominante conformismo, la banalizzazione di tutto e la replicanza del sapere, acquisito senza indagine, è certamente un presente che può nutrire ogni sorta di ulteriore involuzione democratica.
L’argine può essere dato dalla ricostituzione del soggetto morale, come suggerisce Roberta De Monticelli.
E chi scrive, sommessamente, si limita a giustificarsi per aver citato Varela. Se, nei contesti a cui qui ci riferiamo, ogni azione è comunque compiuta per conoscere e ogni conoscere è azione, l’azione deve essere percettivamente guidata dall’etica. Risiede nella messa in opera di tali esplorazioni, magari con l’uso di scelti dilemmi morali, la possibilità di un lavoro formativo, scientificamente corretto, per far acquisire capacità di giudizio come habitus del cittadino della convivenza civile.
Ma se tali operazioni fossero svolte casuisticamente peggioreremmo solo la situazione. Occorre entrare nella logica che se l’etica non si insegna, ma la si fa emergere, allora si fa necessario costruire collegialmente regole per l’operare. Ma di questo si potrà parlare in altre occasioni.