Volentieri pubblichiamo questo articolo di Roberta Guccinelli sul libro di Paolo Diego Bubbio, Sacrifice in the Post-Kantian Tradition Perspectivism, Intersubjectivity, and Recognition. L’articolo è stato originariamente pubblicato su Lo Sguardo, n.21, 2016.
Un passo (indietro) verso altri punti di vista
A partire da P. D. Bubbio, Sacrifice in the Post-Kantian Tradition Perspectivism, Intersubjectivity, and Recognition
di Roberta Guccinelli
Paolo Diego Bubbio non è soltanto uno studioso serio e rigoroso di filosofia post-kantiana e in generale continentale, ma anche un interessante teorico del “sacrificio”. Attualmente svolge la sua attività di ricerca in un ambiente senz’altro dinamico come quello della University of Western Sydney che gli ha permesso di portare a termine con frutto la redazione di un bel volume dedicato appunto al topic in questione, Sacrifice in the Post-Kantian Tradition. Perspectivism, Intersubjectivity, and Recognition. Si pensa in genere al sacrificio come a un atto dalla spiccata connotazione antropologica, senza afferrare necessariamente il legame sottile che esso instaura con la sfera emotiva. Nel passaggio dal sacrificio antropologicamente inteso al sacrificio kenotico, che nella riflessione sul libro di Bubbio vorrei mettere a fuoco, quel legame si fa esplicito e permette di cogliere nel sacrifico kenotico, quale atto personale-spirituale, una delle manifestazioni più pure dell’amore. Non sempre il tema del sacrificio ha ricevuto l’attenzione teorica che meritava, forse per il peso ideologico che sembra talvolta accompagnarlo e per l’apparente “inattualità” che ne fa ancora oggi un argomento poco attraente. Anche dal punto di vista della ricerca empirica non è raro che si tenda a privilegiare, per ragioni legate in parte alle possibilità di visualizzazione delle correlate attività cerebrali – si pensi alle moderne tecniche di brain-imaging – emozioni e comportamenti, nelle rispettive funzioni, poco sofisticati. Una scelta, questa, del tutto legittima sul piano metodologico-sperimentale. La sua emulazione, tuttavia, a livello divulgativo, nella più ordinaria vita socio-culturale, può generare in determinate circostanze qualche semplificazione di troppo che non sempre permette di comprendere pienamente fenomeni pratico-affettivi più articolati come il rispetto, il senso di colpa, l’ammirazione oppure il sacrificio, quando lo si afferra appunto nei suoi molteplici aspetti e lo si strappa infine ai pregiudizi. È piuttosto eloquente, a questo proposito, la strategia riduzionistica adottata nel recente film di animazione Pixar, Inside out (2015). Incentrato su emozioni di base come gioia, paura, rabbia, disgusto e tristezza, esso finisce per lasciare in ombra importanti sfumature affettivo-comportamentali e ricordi, magari non edulcorati, che rendono meno piatta e meno soggetta a forze dualistiche (benessere/malessere, gioia/tristezza ecc.) l’immensa regione dell’infanzia. Per quanto abbia ottenuto un enorme successo di pubblico e di critica, questo cartone è stato sopravvalutato, come se avesse potuto costituire il manifesto di una nuova educazione (via cinema) ai sentimenti pensata innanzitutto per i più piccoli (continua a leggere l’articolo qui).
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